Archivi categoria: poesia italiana contemporanea

Viola Amarelli – Altamira, inediti

(Pratico una poesia sciamanica, a volte chiaramente,

a volte oscura; del resto, per le sciamane i confini sono per natura confusi)

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Non è un caso che Amarelli premetta al suo lavoro (Altamira, inedito) un esergo di questo tenore. È consapevolezza di sé, poiché tutta o quasi la sua poesia è permeata da un senso (o un desiderio) di “rivelazione”, a partire almeno da Notizie dalla Pizia, che passa attraverso il linguaggio o la lettura delle “nudecrude cose”, come titola una delle sue raccolte migliori (v. QUI ma anche QUI).

Altamira è manifestazione di segni, primeva concrezione di significati trasmissibili, luogo in cui bueyes pintados emergono dall’ombra millenaria di una grotta per dirci qualcosa di noi e soprattutto qualcosa di interpretabile, sì, e tuttavia interpretabile senza certezze. È, in altre parole, come una metafora della parte oscura del linguaggio, che si evolve, decade, cambia e però continua a contenere in sé qualcosa di árkaios, un nocciolo duro che intriga scavare. E che, tra le altre cose, è parte della natura stessa dell’arte.

Amarelli sembra esercitare sulla grotta di Altamira una operazione ecfrastica, una rilettura e riscrittura di un sentimento che aleggia sulle pareti di roccia, e una riflessione sul tempo seguente. In realtà descrive gli albori di una presa di coscienza umana ancora attuale, che comincia quando si capisce, con un graffio o un glifo, che la rappresentazione del vero non è solo comunicazione, chi disegna sulla roccia è anche artista e di più (” l’ha fatto, esulta, / ora è uno sciamano / qualsiasi cosa sia colui che crea”). E in fondo di quell’atto primitivo non importa tanto incasellarlo in recinti tutti moderni, non conta che sia magia, “ipotesi sciamanica”, “totem strutturalista”, “generatore onirico” o qualsiasi altra interpretazione. Importa che sia “con la creazione, gioia che continua”. La stessa gioia della piccola figlia dello scopritore di Altamira, che grida “guarda papà! buoi dipinti!”. Importa del pari che la forma o la rappresentazione del reale conquisti una sua libertà, libertà da interpretazioni o meglio da intermediazioni “sacerdotali” o rituali, abbia una sua verità. Importa che la creazione sia anche visione per chi scrive, una rivelazione per chi legge. Può essere che quello che vale per una grotta dipinta valga anche per la poesia? Non lo so, forse Viola, che sicuramente in quell’antico gesto di creazione si ritrova, prova a dircelo, tra le righe, con una scrittura che mi pare però più esplicita della solita, meno, diciamo così, “pitica”. Certo questa raccolta un valore metaforico, un suo senso essenziale ce l’ha, ed è certo che senza un po’ di scavo, di luce gettata negli anfratti, di ricerca sotto la superficie, non vale la pena neanche di mettersi a scrivere. (g.c.)

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Gabriella Grasso – Sciott

Gabriella Grasso – SciottPuntoacapo Editrice 2024

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Mi è capitato di riflettere, ultimamente, su (certa) poesia come non luogo. Un concetto che non mi sono ancora ben chiarito, ma che ha a che fare con una produzione poetica in qualche modo “indifferenziata”, che cioè non pertiene a nessun luogo né fisico né dell’anima, che potrebbe essere dappertutto e in ogni dove e forse appartenere a chiunque e quindi non essere coniugabile con il suo autore né con le sue radici. Una poesia cioè che – per varie cause che qui non indaghiamo ma che non hanno a che fare con stile, tendenza, forma, estetica – disegna “uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico”, usando le parole di Marc Augé. E nella quale il lettore, in varia misura, si sente solo.

Quindi è stata una coincidenza (ma non una rarità) imbattersi in un libro come questo, perché è una buona rappresentazione di un atteggiamento poetico ostinato e contrario, un libro che in primis stabilisce una sua cittadinanza non solo in un luogo (con quanto comporta in termini diciamo così di koiné, di appartenenza) ma anche e soprattutto in una realtà. In effetti il luogo è ben definito dalle parole introduttive della stessa autrice: è lo sciottu, nome di origine araba di una piazza di forma irregolare al centro della cittadina di Linguaglossa, ai piedi del Mongibello (l’Etna). Tralascio, come Grasso ci fa notare, la tautologia di questi due toponimi, negli incastri linguistici che vivificano il siciliano, prendiamola, al di là della curiosità, come emblema della malinconica e tuttavia passionale ridondanza che anima tanta letteratura dell’isola. Mi piace invece immaginare il set di questo libro di poesie, le piazze, le strade, le facce, qualcosa che ricorda il taglio chiaroscurale di certe foto di Ferdinando Scianna (es.: Villalba, 1983) o Melo Minnella o Enzo Sellerio, fotografo prima che editore. La piazza, naturalmente, è fulcro e pivot, o il bandolo di una matassa (spesso di microeventi) che tende a riavvolgersi in un moto tendenzialmente centripeto. Voglio dire, se molto parte da lì molto ritorna, o si spera che torni, o si aspetta che questo avvenga, soprattutto per una poetica ricerca di sicurezza. Che sta, appunto, nel luogo, nelle storie, nelle facce (“una faccia, una razza”, ma forse oggi, con i tempi che corrono, Salvatores non userebbe più questo vecchio detto greco), una comfort zone non ostante i brontolii del vulcano poco lontano (“siamo pronti a scappare / ma noi lo faremo?”). Sarebbe facile fare di queste facce dei personaggi, fare dei fatterelli dei bozzetti, ma diciamo che Grasso schiva molto bene questi rischi, come quello di uno strapaese alla Arminio, dato che mi pare riesca a sfuggire al momento cristallizzato, unico e “memorabile”, a favore di un tratteggio emblematico e plurale, che lascia spazio, tra i versi, al tipo di immaginazione a cui accennavo prima. Il mondo di Grasso sembra immarcescibile e invariabile come la morte, “tutto è qui dentro / tutto è stato / sempre / se chiudo gli occhi / tutto resterà” scrive in Commiato (Casa) per la sorella defunta, guardandosi intorno, descrivendo “arredi sempiterni”, elencando un po’ di gozzaniane buone cose di pessimo gusto. Questo mondo, come scrive, le sopravviverà? Non è detto, o meglio sì, sopravviverà nella misura in cui questo tipo di scrittura, di poesia (e chi la esercita), si farà carico di cantarlo e ricantarlo, di darne una comprensione che sfidi la surmodernità, o la semplice invasione dei turisti (v. sotto Zoom), di farne memoria, di “negoziare” con l’oblio, come direbbe Paul Ricoeur, quel che vale ricordare. Che potrebbe essere un fatto o semplicemente un carattere, un genius loci – elemento che mi è capitato di evocare annotando altri autori, come il messinese Enrico De Lea (v. QUI) o il comisano Fernando Lena (v. QUI) – o un “parlari” colto o non colto. Certo, la resa qualitativa dei testi qui raccolti non è uniforme, diverge tra brani molto buoni e altri molto molto semplici (es.: Il forno, o Rovesci) e però sempre sentiti, ma in tutti c’è una singolare corrispondenza tra questa materia “locale” (nel senso accennato in apertura) e lo stile o forma, come se certe storie non potessero che essere appunto “cantate” (o cuntate, e qui si torna a una vena popolare, anche siciliana) o cantilenate, con una curiosa predilezione per i settenari (“sembrerebbe lontano / ma il gigante vulcano / ha la bava alla bocca / e la sagoma nera”) e soprattutto, cosa rara, per cascate di decasillabi anapestici (“Lui cammina tenendola stretta”), che a volte si frangono in una risacca di inequivocabili endecasillabi o sono alternati con i citati settenari (“Il suo cuore ha ceduto stanotte / come carta velina / si è franto, e i frantumi hanno rotto / quella volta del cielo…”). A rimarcare, anche per questi segnali, che operazioni poetiche come questa, per aderenze o ossequi a una “tradizione”, non possono che passare per strade (o per piazze) ribattute, magari con un certa spontaneità e naturalezza come nel caso di Grasso. (g. cerrai)

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Carlo Gregorio Bellinvia – Lascio isola ben arredata…(inediti)

Carlo Gregorio Bellinvia – Lascio isola ben arredata con fantasia di navi lontane alle pareti, inedito

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Dal prossimo libro di poesie di C.G. Bellinvia, attualmente in via di revisione ed editing, pubblico un estratto di testi non definitivi (dalla prima e dalle ultime sezioni), e come ogni estratto non del tutto esplicativo, perché il libro ha ambizioni che non possono esaurirsi nella lettura di qualche frammento.

Già il titolo prefigura uno scenario, proprio in senso teatrale, uno sfondo, volutamente incoerente sia in sé che rispetto alla storia (c’è una storia) che nel libro si svolge. Il fondale, per così dire, suggerirebbe di non prendere sul serio tutta la faccenda, perché ogni libro si comincia dal titolo, e siamo già fuori gioco, scopriamo che forse non c’è nessuna isola, forse nessun io e che il titolo medesimo, fuorviante, non è che la battuta di uno dei personaggi. Già, i personaggi. Il primo che incontriamo e il principale è un essere (un bambino? un animale? un alieno?), che così a braccio mi ha ricordato, con tutte le differenze, l’allegro leprotto di Andrea Raos (Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali, Arcipelago Itaca, 2017). Si chiama Cildreno Bambi, invenzione nominale di Bellinvia che crea un figlio (children) che si chiama Bambi e ne fa il protagonista di una serie di traversie. Possiamo senz’altro immaginare il riferimento al Bambi di Felix Salten, più che a quello sdolcinato della Disney. C’è anche una Mòtera (mother, ovvio), che però al momento della storia è già morta, a differenza del libro di Salten, e un Fàtero (father, certo) che c’è e non c’è, come in certe famiglie disfunzionali. Sulla base di questi e pochi altri elementi Bellinvia costruisce una sorta di favola feroce e insieme un romanzo di formazione, un percorso di maturazione di una identità inquieta, incerta, a volte irrelata, che stenta a trovare una propria unità (e i titoli dei brani, come mi dice l’autore, sono quasi sempre indicati come numeri decimali minori di 1 proprio in questo senso). Possiamo assumere che il Cildreno sia una metafora o forse meglio un’allegoria, come uno degli esseri di Bosch, o un freak alla Tod Browning, una figura dotata di una “ombra impressionante” e di strane conformazioni fisiche, allegoria di una metamorfosi, forse un Gregor Samsa che torna a un’umanità che più che somatica è esistenziale. Lo strumento principe di questo progredire è una macchina per scrivere Olivetti, “sua vicina di casa” che Cildreno Bambi sente battere oltre un muro e che, è sicuro, “sta scrivendo riguardo alla sua vita”. In essa, “macchina ribelle”, il Cildreno Bambi “avverte il regalo per un compimento”. Lo strumento emancipatore, quindi, è la scrittura, la regolatrice di un disordine, l’allineatrice di parole. E lo è, immagino, sia per il personaggio che per l’autore, che in questo libro mi paiono assolutamente inseparabili. Ma la macchina non è raggiungibile, rimane inizialmente un desiderio al di là di un ostacolo, qualcosa che “suona” la casa, mentre il muro “separa la carne col mattone in due berlino organiche all’interno”. Fino a che, scavando un pertugio, Cildreno non riesce a raggiungere (e siamo alla seconda sezione del libro) l’appartamento centoventuno, dove sbuca in “un salone dal mobilio d’oro”. Qui inizia una specie di viaggio esperienziale, a cominciare dal fatto che “non è oro, ma pirite, falsità”, dall’incontro con una “venere dal naso bollente”, con una realtà meccanica e commerciale (“eccolo, il fresco operatore mobile tim del novantasette proporre a chiunque…”) di cui lo stesso Bambi entra a far parte come oggetto e destinatario. L’appartamento, a simbolo di una realtà mondana in cui però tutto sfugge e tutto torna, appartiene a un personaggio nominato Nuovodottore, proprietario della Olivetti che, come in una visione alla Burroughs, sembra avere una vita autonoma. Il nuovo personaggio è forse demiurgo, forse curatore, forse torturatore, somministratore di farmaci dai curiosi effetti collaterali, ma in ogni caso mi pare rappresenti l’elemento catalizzatore della metamorfosi a cui accennavo prima. Dopo una fugace riapparizione del Fàtero, Nuovodottore ricovera il Cildreno in un ospedale, in quella che è la quarta sezione del libro. La scrittura, indicativamente, si fa io, prima persona, in un lungo testo dagli accenti a tratti anche lirici, segno di una sorta di appropriazione della storia, di avvicinamento all’identità e alla propria lingua, di riuscita all’aperto, al mondo esterno, per quanto esso sia “nero”. Questa sorta di rinascita, di conquista dell’unità di sé, simboleggiata dal ritorno nei titoli a “numeri interi e positivi” conclude una lunga elaborazione del dolore (anche di non conoscersi), del lutto, in quello che ho già chiamato un bildungsroman in versi.

Libro non facile, certo non perfetto e anzi forse bisognoso di qualche aggiustamento, ma capace di ironia, di critica, di ricognizione sociale, nel cui linguaggio le contraddizioni, la messa in mora dei modi di dire, la torsione lessicale, l’accostamento analogico (compresa qualche ingenuità), contribuiscono alla creazione di un oggetto letterario che potremmo forse semplicisticamente definire surreale, ma nel quale la cosa più importante è la sinergia attiva tra ricerca espressiva e concetto ispiratore e il tentativo ambizioso di creare un ambiente poetico inusuale, sperimentando senza rinunciare a comunicare un’idea. Quando uscirà nella sua stesura definitiva credo che sarà un lavoro di sicuro interesse. (g. cerrai)

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Enrico De Lea – Cacciavento

Enrico De Lea – CacciaventoAnterem Edizioni/Cierregrafica, 2024Enrico De Lea – Cacciavento – Anterem Edizioni/Cierregrafica, 2024

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Enrico De Lea torna a casa, da dove realmente non è mai partito, ancora una volta. Lo so, l’ho già detto, lo conosco da un po’, ne ho già parlato in diversa circostanze (v. QUI e di più QUI), cercando di intravedere alcune costanti e delle fondamenta, specie in ciò che riguarda quelle che genericamente possiamo chiamare le sue radici, poetiche e mitopoietiche. Perciò ritornandoci sopra c’è sempre il rischio di ripetersi o peggio ancora di rimaneggiare quanto dato per acquisito. Ma comunque tornare bisogna perché già il titolo, che come vedremo è voce dialettale, ci indica luoghi, memorie, tempi, impressioni di una precisa koiné. In un certo senso Enrico, come alcuni altri, è autore di un solo libro, non tanto nel senso in cui lo diceva Thomas Mann (un unico libro per cui, alla fine, un autore viene ricordato) quanto nel fatto che vi è nella sua produzione un tema centrale, con qualche corollario, imprescindibile come una forza gravitazionale che emana dalla sua Sicilia. Riepiloghiamo in breve di che si tratta:

la radice identitaria: certo la cosa più significativa, con gli inevitabili (e giusti) corollari della distanza, del là e allora vs. il qui e ora nonché della scala di valori che ne deriva (cos’è il meglio nella vita del poeta e di ciascuno, cos’è buono, cos’è “vero”).
il conflitto, direi inoltre, che ne deriva: nel senso dello scontro di direttrici a cui ti sottopone la vita (il paese vs. la città, lo sradicamento – non necessariamente tragico -, il lavoro e la vacanza – il temporaneo ritorno – ecc.) , conflitto che inevitabilmente si concretizza in un nostos irrisolto ma certo creativamente fecondo. C’è come corollario un discorso che concerne un sentimento di dislocazione e, ancora, la domanda (retorica) di dove, tra questi due poli, risieda la salvezza, dove sia casa.
la trasposizione del conflitto in termini linguistici: ovvero la distanza tra la lingua “speciale”, del lavoro, del quotidiano (che non appare ma c’è) e quella poetica e creativa, che diventa nel tempo, affinandosi, un vero elemento identitario, quasi un personaggio con le sue icastiche connotazioni dialettali (qui, non a caso, non c’è niente di “urbano”, non può esserci). Una “lingua salvata” (S. Aglieco) che forse a sua volta salva.
il tempo “diverso”: l’idea, forse vera forse anch’essa legata al personale mito di De Lea, che il tempo abbia una diversa connotazione nel luogo del ritorno e del desiderio, che abbia più valore, che duri di più, che consumi meno, che sia più “ricostituente”. E che sia, quel tempo, l’unico legittimo scrigno delle memorie, delle perdite, degli affetti, del manifestarsi fenomenologico della natura.

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Note a margine: Chiara Serani ovvero Dā mihi sellulam, ubi cōnsistam

Chiara Serani - Dialoghi della sedia, Anterem Edizioni 2023Note a margine: Chiara Serani ovvero Dā mihi sellulam, ubi cōnsistam

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A distanza di alcuni giorni dalla presentazione fatta con l’autrice a Livorno (6 giugno, presso la Galleria d’Arte Extra Factory, a cura de Le cicale operose), e un po’ col senno di poi, vorrei mettere insieme qualche osservazione, forse esposta in quella occasione, forse no, sui Dialoghi della sedia di Chiara Serani, Premio Lorenzo Montano 2022 (Anterem Edizioni/Cierre Grafica, 2023). Lo dico subito, un lavoro particolare, potente, che richiede innanzitutto di mettere da parte distinzioni di genere, dicotomie letterarie e roba simile. È un’opera di poesia perché non è scritta in versi ma della poesia ha tutto il bagaglio metaforico, polisemico e quella ricerca sulla lingua che la narrativa ha abbandonato da tempo.

Di certo la prima cosa che salta all’occhio è la struttura di questo lavoro. Che forse non è poesia, forse non è prosa, forse non è teatro, per quanto ci assomigli parecchio. È quest’ultima una caratteristica, anzi direi un aspetto, che molti commentatori hanno tenuto a sottolineare. Ma parlare di aspetto, per parte mia, non è un caso. Direi che è l’approccio, lato lettore, più confortante. Vediamo perché, partendo dalla base organizzativa di questa opera. Diviso in sezioni (12) di varia lunghezza e brevissimi interludi (5), il lavoro è composto di quadri nella stragrande maggioranza dei quali agisce un io narrante e agente, collocato in uno spazio vago e tuttavia materiale. Lì – ci si immagina al centro – è collocata una sedia: “Sono seduta su una sedia. Sono nuda”, “Sono seduta su una sedia, la mia. Indosso…”, “Sono seduta su una sedia, la loro. Disposti tutto intorno…”, e così via. Facile per chi legge farsi un’idea “teatrale” della faccenda, qualcosa di performabile su una scena. Altri commentatori si sono soffermati su questa forma teatralizzante del testo, e leggendo viene quasi naturale immaginare un beckettiano palco vuoto, con al centro una sedia, con quadri a tratti illuminati in cui la protagonista è davvero, ipotizziamo, nuda. Un Living Theatre, ma anche, diciamo, Grotowsky. Ma io credo che si tratti di un artificio, proprio nel senso etimologico del termine, una mise en scène di una mise en scène, un contenitore di contenuti che può essere inscenato e non essere mai uguale a sé stesso, come le tre sedie di J. Kosuth ogni volta che vengono esposte. Inoltre, i frammenti testuali o annotazioni o citazioni che accompagnano le “scene” come pensieri apparentemente peregrini o avulsi dal contesto (ma che invece sono radicalmente culturali) creano una crasi della voce narrante, una specie di sospensione temporale e appunto scenica, rimandando peraltro a un dialogo ipotetico, a una voce “altra” di cui non si sa nulla ma che è “possibile” e presente. Continua a leggere

Fernando Della Posta – Diario dell’approdo

Fernando Della Posta - Diario dell'approdo - Arcipelago Itaca, 2024Fernando Della Posta – Diario dell’approdoArcipelago Itaca, 2024

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Fernando Della Posta indica la Luna e guarda la terra, o almeno il suolo che calca. Intitola le sezioni del suo libro con toponimi di regioni lunari e sembra che voglia proporsi come un Astolfo alla ricerca di un senso che – oggi – ci appare sfuggente, oppure di un senno che però non è detto sia possibile trovare altrove da qui, da questa complicata realtà. Hic manebimus, volenti o nolenti, il resto è aspirazione. Teniamo presente questo, per intanto, e teniamo presente però anche chi avvertiva della difficoltà di trovare risposte se le domande non siano ben formulate. Una tra le tante: “dove andiamo?”. Si tratta qui di un percorso o di piccoli tragitti o frammenti di essi in cui però – scrive Fernando – “l’approdo è tutti i giorni”, cosa che equivale a dire, con Ungaretti, che “qui la meta è partire”, cioè coltivare, magari per sempre, il desiderio e il bisogno di quell’altrove, che poi si sostanzia, alla fine, in un ritorno a casa, un nostos. Il primo passo, per Fernando e molti altri suoi coetanei, è misurare una metaforica stanza e il suo perimetro, un luogo in fondo concluso che può essere ovunque, perché se la realtà è complicata e confusa lo è, nel mondo e nella mente, in egual misura a New York come a Roma o a Pontecorvo (FR). Tanto che la dedica è riservata “a tutti i fuori spazio e i fuori tempo”, a cui forse bisogna aggiungere i “fuori luogo”. E tuttavia da quel luogo, fisico o dell’anima, non si può scappare, è anche in fondo una questione di identità. È vero che c’è sempre una partenza, avviene ogni giorno, ogni mattina nel decidere se scendere dal letto, come ci dice il testo di apertura, e dell’approdo si è già detto. Così questo libro potrebbe essere, forse non volendo, un voyage autour de sa chambre, proprio nel senso che si è detto. L’orizzonte, con i suoi limiti, è quello, anche quando si parla di una città o di un’isola, di una data o di una via, cioè di qualcosa che potrebbe essere oggettivamente preciso. Tanto che “sempre si approda / alla posizione periferica”, ovvero in un luogo (fisico o dell’anima, ripeto) ristretto, o in cui comunque ci si sente spettatori, defilati e neanche tanto influenti. Si tratta, per metonimia, della condizione umana, di un canto dell’uomo errante dell’Occidente? Certamente di questo, e allora la risposta alla domanda “dove andiamo?” potrebbe essere “in nessun posto”, stante che in questo mondo non c’è più niente da scoprire; ma potrebbe trattarsi anche della necessità di reperire, autour de la chambre, le “cose”, i segni tangibili di un posto in cui realmente siamo esistiti. Ricordi e suggestioni e singolarità, ma anche metafore “concrete” (o convinzioni un po’ aforistiche e assertive, o ovvie, e perfino tratteggi al limite del bozzetto), sono “cose” come bitte a cui legare le cime all’approdo. Nei mari lunari allora Fernando, adottando un approccio linguisticamente ellittico (e per lo più lirico) cerca reperti per trarne conclusioni di cui per ossimoro non v’è certezza, ma che hanno il confortante pregio o di rompere la superficie, “la divisione surreale dello stagno”, di spingersi “fino al reale” (obbiettivo però ben più ambizioso della realtà, cosa diversa); oppure, nel momento in cui quel reale si creda di afferrare, di illuderci che quella scheggia abbia un senso (per il poeta, in quanto titolare di uno sguardo “speciale”, e insieme per l’uomo comune: Ogni uomo è prima di tutto il poeta, / il poeta che ci muore tra le braccia, / dopo che c’è salito in grembo, non visto). Che nella poesia di Della Posta ci sia questo intento per così dire universalistico lo indica, tra altre cose, l’uso frequente di un soggetto plurale (noi, ci ecc..) che non è il consueto mascheramento dell’io poetico, ma che cerca appunto di disegnare una communitas umana, esistenziale, fornendo quasi un indirizzo filosofico, un’idea di mondo. Non sempre ci riesce, perché quando affiora una sorta di “convinzione” autoriale che asserisce una visione personale delle cose, il risultato appare per converso meno convincente, più predittivo. Tanto che, a mio avviso, le cose migliori sono forse quelle meno “pensate” e pensose. E poco importa, dal punto di vista di diatribe che lasciano il tempo che trovano, se ne traspare un certo lirismo, in cui però la scrittura di Fernando, sempre di rilievo, riesce a dare il meglio di sé. Siamo in ogni caso in un alveo ben delimitato, in cui si ritrovano echi montaliani, perfino petrarcheschi, in cui la buona scrittura spesso è più significativa di ciò che vuole rappresentare, più precisa di quanto vuole descrivere, il terreno cioè di una ormai tradizionale cura della parola come cura di una visione viceversa incerta, a volte simbolistica, del mondo. (g. cerrai)

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La discarica fluente – Giovanni Fontana a Pisa

Giovanni Fontana - La discarica fluente - Diaforia

In occasione della  presentazione a Pisa del volume di Giovanni Fontana “La discarica fluente” (Dreambook ed. / [dia*foria, 2023), ripropongo l’interessante articolo (corredato da testi e immagini) apparso sul vecchio sito di “Imperfetta Ellisse” nel 2013, per l’uscita all’epoca di “Questioni di scarti”. Torna a proposito perché quel libro è oggi ricompreso in questa nuova pubblicazione che include altri quattro importanti testi tra cui proprio “La discarica fluente” del titolo, nonché numerose tavole riproducenti i lavori grafici e verbovisivi di “Polluzioni”. L’articolo torna utile a chi non conoscesse Giovanni Fontana per farsi un’idea di uno dei più importanti artisti italiani, e anche a chi già lo conosce.

L’appuntamento è per il 29 maggio 2024 ℅ Libreria Tra le Righe, Via Corsica 8, ore 18,00. Intervengono Marcello Sessa, l’editore/curatore Daniele Poletti e l’autore che leggerà/performerà brani del libro. Da non perdere. (g.c.)

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Giovanni Fontana – Questioni di scarti – Edizioni Polìmata, 2012

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Cos’è uno scarto? E’, in questo libro di Giovanni Fontana, il protagonista principale, l’obbiettivo di una invettiva, un ragionamento politico, una visione del baratro, l’esplorazione di un territorio artificiale, un guardarsi allo specchio. Lo scarto siamo noi, senza dubbio, noi ne siamo gli artefici, poiché senza di noi il rifiuto, la scoria non avrebbero ragione di esistere. A noi è ascrivibile questo gigantesco ready made, così difficile da trattare artisticamente se non come citazione o simbolo o trasfigurazione (basti pensare, a titolo di esempio, a tutto il lavoro concettuale intorno alla cosiddetta “arte povera”, o all’arte in sé, implicita in una “merda d’artista” di Manzoni). La scoria, di cui siamo produttori e vittime, come elemento costitutivo (ma in molta produzione letteraria solo collaterale, scenografico) di una attuale poetica della crisi. (continua a leggere QUI)

Nanni Balestrini – La poesia fa malissimo

Tra qualche giorno saranno cinque anni dalla morte di Nanni Balestrini (19 maggio 2019). Mi anticipo un po’, non che ami particolarmente gli anniversari, solo perché riordinando mi è capitato tra le mani uno dei volumi delle Poesie complete pubblicate da Derive Approdi nel 2018 (precisamente il volume terzo / 1990-2017), Caosmogonia e altro, introduzione di Andrea Cortellessa più vari interventi critici in allegato. Inutile ricordare qui la persona di Balestrini e che cosa abbia rappresentato nel panorama letterario e culturale del nostro Paese, a partire dalla sua presenza fondante nella Neoavanguardia e come cofondatore e ideatore di storiche riviste letterarie come “Quindici” e “alfabeta”, ci sono centinaia di post, articoli, saggi utili allo scopo a cui rivolgersi.

Mi limito a riproporre un testo tratto dal libro citato, testo che unisce secondo lo stile del nostro ironia e pensiero, metodo critico e sberleffo, immediatezza e profondità, suono e significato, nonché vari livelli di linguaggio e, che non guasta, un po’ di sana ferocia. Si tratta di “La poesia fa malissimo”, una composizione inedita fino alla pubblicazione in questo volume, una sorta di invettiva che vuole ricordarci che la poesia è o dovrebbe essere “un affronto all’esistente per mezzo della parola”, una “interminabile apocalisse”. E quindi, perchè no, uno strumento politico.

Fa da contraltare all’ironica “La poesia fa benissimo”, del 2010, che lo segue nella sezione Intermezzo. La poesia fa male dello stesso volume (di cui forse parleremo un’altra volta) e nella quale molti poeti, lettori e frequentatori di reading certo si ritroveranno. Anche questa appartiene a un discreto gruppo di testi sparsi nei quali Balestrini si occupa tematicamente della poesia, della parola, del linguaggio, ci ricorda Cortellessa, come “movimento” da contrapporre alla sua stessa “inerzia”, come oggetto di scandalo (inteso nel suo etimo più radicale), come “opposizione” (“Linguaggio e opposizione” è il titolo di un suo noto intervento programmatico (v. QUI). Ricordando che Nanni Balestrini, più che un eversore della poesia e della lingua italiana “è in realtà un costruttore, un ingegnere o se si preferisce un architetto della poesia” (Fausto Curi). Buona lettura. (g.c.)

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Alessandro De Francesco – e agglomerati, degli alberi o

Alessandro De Francesco – e agglomerati, degli alberi oArcipelago Itaca, 2023

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Ci sono oggetti poetici di non facile manipolazione, almeno al fine di una nota, di una recensione, o solo quando si voglia citarne degli esempi. Ci sono oggetti poetici complessi, di non facile definizione, alla quale – forse – semplicemente vogliono sfuggire (“È un aereo? È un uccello? No, è Superman![1]“), giacché mettere in discussione il definibile fa parte del loro gioco. Parlare di oggetti poetici non è un vezzo ma una precisa intenzione. Specie nel caso di questo libro di Alessandro De Francesco, che è un libro, su questo non ci sono dubbi, ma forse non è alcune altre cose e altre  cose vuole diventare. Non è una desueta raccolta, non è una silloge, non è (ma forse forse) un prosimetro, non è, non mi sembra, una installazione, e volerlo relegare nell’ambito  della scrittura di ricerca o sperimentale sarebbe tanto generico quanto lapalissiano (oltre ad essere, dice l’autore, “un formalismo fuori tempo massimo”). Certamente è un oggetto che sembra soffrire di dover essere stampato su carta, di diventare statico, non interattivo, non ulteriormente deformabile (come vedremo). È proprio con questa materialità “definitiva” che ho avuto il primo approccio quando ho pensato di farne una piccola recensione, ricevendone di che riflettere. È vero che tutti i libri sono materiali e concreti, ma è anche vero che questo in particolare tende a rappresentare, di questa materialità, una vis insieme centrifuga e ineffabile, come un “prigione” di Michelangelo.

Per consuetudine di questo blog quando scrivo una nota su di un libro aggiungo anche, ad usum lectoris, qualche testo esemplificativo. Col cartaceo si lavora di scanner e OCR, con i pdf si fa una semplice estrazione dei brani che interessano, tutto lì. Ma il lavoro di De Francesco è un particolare assemblaggio di testi tipografici “originali” (che si presume abbiano avuto una stesura, digitale o analogica, precedente alla stampa) e frammenti, estratti, specimen di opere (libri, siti, documenti) diverse ed  aliene. I primi corrispondono ad un testo in varia misura “leggibile”, di cui cioè trasmettono un senso interpretabile mediante una qualche verbalizzazione (ma non necessariamente parafrasi), ancorché sia esso sottoposto talvolta a torsioni, sovrascritture, rovesciamenti speculari, cancellazioni, abrasioni o “danneggiamenti” di qualche tipo (v. esempi più avanti); i secondi sono “citazioni” (presenti peraltro anche nei primi) o copie, per lo più di dati, elenchi, nomenclature o – appunto – agglomerati. Sono questi ultimi, come vedremo, ad aver subíto la maggiore de-formazione, almeno finché andando in stampa sono sfuggiti alla ulteriore “violenza” dell’autore (ma va detto che quella dinamica, come suggestione di un moto inerziale, è destinata a perdurare). Continua a leggere

Alessandro Assiri – Abitarmi stanca

Alessandro Assiri - Abitarmi stanca - Puntoacapo ed., 2023Alessandro Assiri – Abitarmi stancaPuntoacapo ed., 2023

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Un titolo pavesiano, e fin qui è facile. Potremmo domandarci, partendo da qui, se sia un libro dedicato all’uomo che abita l’autore che abita una sua realtà, una coabitazione che, come questo presente, ha le sue difficoltà ed è un luogo (e un topos) della stanchezza del mondo. Assiri (già presente sulla vecchia IE), è anch’egli un cantore di questo presente che disanima (sic) molta della poesia italiana attuale, riflesso di una condizione umana che sarebbe semplice addebitare ad un post-post modernismo di difficile definizione. Voglio dire, il malessere esistenziale è sempre esistito, almeno nell’era letteraria che noi conosciamo, e certo fa bene Ivan Fedeli, nella prefazione, a tirare in ballo il tema generale dell’assenza assoluta, citando Montale e più avanti Milo De Angelis. Il titolo insomma ci avvicina a una (almeno) doppia evidenza, di una certa fatica (e proviamo ad usare questa parola in termini ingegneristici, “materiali”, corporei) e di un certo “dentro”, entrambi direi molto personali, molto privati e tuttavia comuni, nell’era attuale quasi endemici. La differenza, tutta odierna, con quell’inesausto novecentesco malessere esistenziale a cui accennavo è che gli strascichi di esso sono diventati solipsistici e insieme collettivi, personali e insieme sociali, e in qualche modo egoticamente esposti. E perciò la poesia che li incarna è (vuole essere) dell’autore e di tutti, così come i leit motiv principali, di modo che quello che fa la differenza è l’espressione, la scrittura, la ricerca sul linguaggio, o se preferite lo stile, insomma la capacità autoriale di rinnovare, di dire meglio qualcosa che sappiamo o crediamo, come lettori, di sapere. Assiri si muove in queste acque, salvaguardando un’identità fatta anche di cose, di quotidianità, di microeventi che ne danno un senso e un perimetro, che tuttavia non pare essere rassicurante né protettivo, assomigliando molto ad un hortus sbrecciato. Da questo punto di vista la sua è una scrittura cosciente, non solo perché certa dei propri mezzi tecnici ma anche perché, senza girarci tanto intorno, sa che l’unico soggetto possibile, in queste acque, è un io che persiste senza soluzione di continuità, lirico e presente, a volte dialogante con un canonico tu/noi, a volte pensoso e introverso. Continua a leggere