
Note a margine: Stefano Guglielmin e i dispositivi

Dall’archivio del vecchio sito di Imperfetta Ellisse, un post su Bartolo Cattafi del 2012:
Torno volentieri su Bartolo Cattafi, già pubblicato QUI, un post che ha riscosso parecchi consensi tra gli amici che seguono il blog. Immagino che la ragione risieda nel fatto che Cattafi e la sua poesia assomigliano molto a uno di quei bisogni che sentiamo di avere senza averne ben chiaro l’oggetto, qualcosa che amiamo e ignoriamo allo stesso tempo. E non è strano, da un certo punto di vista, che luci e ombre (e qualche dimenticanza) accompagnino la sua fortuna critica. Eppure ogni volta ci affascinano i suoi versi limpidi, il suo essere cittadino libero ovunque e insieme la sua forte “sicilianità”, la sua padronanza del linguaggio (spesso Cattafi scriveva di getto ed era il modo che preferiva) accompagnata alla consapevolezza della sua crisi e del continuo combattimento con la parola che il poeta, ogni poeta, sente inevitabile e infinito.
I testi poetici qui riprodotti appartengono alla raccolta L’osso, l’anima, mentre la dichiarazione di poetica, forse l’unica mai espressa da Cattafi, costituì una sorta di prefazione ai brani che Giacinto Spagnoletti ospitò nella sua antologia Poesia italiana contemporanea, edita da Guanda nel 1959. (continua a leggere qui)
Di Guido Turco so poco, tranne che vive e lavora in Francia, a Bordeaux, da 15 anni. So poco nel senso di una consueta biobibliografia, a parte alcune sue poesie apparse in rete (ad. es. QUI), ma qualcosa ho capito da quello che mi ha scritto in alcuni messaggi privati che ci siamo scambiati. Mi dice, per esempio che “Io scrivo da sessant’anni, scrivo soprattutto poesie, ma anche molto altro, quasi tutto a misura breve, racconti e contes philosophiques soprattutto”. E ancora: “È andata così, ho passato quasi tutta la mia vita a scrivere, a voler scrivere, e tentare di fare qualcosa con la scrittura. È andata com’è andata, vale a dire che ho sortito quasi niente, una miseria. Insieme e, diciamo così, accanto, ho fatto anche altre cose, principalmente il corredo delle azioni che convenzionalmente s’impone ad un uomo adulto: lavorare, sposarsi, fare figli; e avere delle opinioni, spendere denaro, consumare merci utili e inutili. L’ho fatto perché si fa così, perché è così che si vive”. Mi pare una dichiarazione di poetica mica male, anzi una rivendicazione senza arroganza della natura per così dire “comune” del poeta e alla fine di ciò che è (può essere) poetico, senza maledettismi o posture che qualcuno talvolta ritiene di assumere. Perché è così, e basta.
Per parte mia, se inizialmente avevo pensato di collocarlo in una qualche ansa della poesia di tipo narrativo, fino anzi a liquidarlo un po’ troppo affrettatamente come una forma di prosa in prosa particolarmente leggibile, mi pare di poter dire che, almeno riguardo ai nuovi testi qui sotto pubblicati, Turco è poeta capace di una quasi surreale visione della realtà, di molta ironia e di una raffinata scrittura (“contro l’estrema selezione linguistica e la sublimazione tematica”) attenta a cogliere luci e piccole/grandi verità nei meandri delle cose, senza particolari “rivelazioni” ma non dimenticando ogni tanto “la tendenza di fare le cose al contrario”. Dove c’è, son d’accordo con lui, “l’universale ridotto e ricondotto al particolare, alla denuncia del pericolo di un’assenza di futuro (Orazio: Pulvis et umbra sumus), sublimandosi (spero) nell’arguzia psicologica”. (g.c.) Continua a leggere
Rita Pacilio – QUASI MADRE – peQuod edizioni, 2022
Questa silloge di Rita Pacilio proietta nuova luce sulla continuità poetica che le appartiene, e lo fa con impronte similari a una precedente: Gli imperfetti sono gente bizzarra. Come quella si presenta con un titolo singolare che apre le sue pagine a contenuti in direzione degli affetti, ad amori altri con i quali conviviamo a fianco nel corso della nostra esistenza e che ne plasmano la consistenza.
Si tratta di quegli affetti prossimi che stringono nel sangue, ai quali torniamo con i loro significati nei momenti di vuoto, quando in soccorso ci arriva la memoria liquida a occupare lo spazio libero che si è formato. In questo caso leggo un filo di continuità transumante che viaggia da fratello a madre e la lucida sensibilità del qui e ora a cui Rita ci ha abituato con i suoi testi artistici. La silloge appare come consapevole visione di quello che il dolore porta via e sottrae alla serenità, tinto di una rassegnazione che sbiadisce, diviene cognizione del percorso esistenziale assegnato e riguarda l’altro da noi.
Come rilevato da Piero Marelli nella postfazione, ciò avviene con una poesia calma in cui lo smarrimento denunciato viene presentato con delicatezza, mai con toni drammatici o risentiti, eppure fortemente cruenti in alcuni passi, capaci di parlare la lingua della profonda intimità che Rita immola, e che scuote il lettore. Continua a leggere
Ospito con piacere una “impressione di lettura” di Sandra Palombo, amica fin dai primi anni 2000, poetessa presente sul blog in diverse occasioni (v. QUI), nata a Livorno ma elbana di Portoferraio da sempre, storica di formazione con particolare interesse per il periodo isolano di Napoleone Bonaparte.
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Impressioni di lettura: Katia Sassoni – Canzoni sotto la cattedra.
Una soffusa malinconia è base musicale sulla quale risaltano poesie alla ricerca di sé, tra introspezione e vissuto, in Canzoni sotto la cattedra di Katia Sassoni edito da Giuliano Ladolfi editore, 2022.
Una malinconia che non stucca, sottofondo di versi che cantano la storia di ogni donna nelle stagioni della vita.
Come non riconoscersi nello sguardo retrospettivo di Che cosa resterà di noi?
Davide Cortese – Zebù bambino, Terra d’ulivi ed., 2021 – Nota di lettura di Matteo Galluzzo
“Zebù bambino”, questo il titolo dell’ultimo libro di Davide Cortese, poeta siciliano originario dell’isola di Lipari. Un titolo che fin da subito rende esplicito, nell’assonanza irriverente con il più ortodosso e pacificato Gesù bambino, il tono di questa breve ma intensa raccolta composta da 21 liriche che filano veloci come filastrocche ma in cui si intrecciano tematiche molto più articolate e profonde di quanto possa sembrare ad una prima e superficiale lettura.
Quello del Zebù bambino di Davide Cortese è uno sguardo che ci interroga e a cui non possiamo sottrarci. È un confronto serrato con noi stessi, fin dalla poesia iniziale che serve da guida e da dichiarazione: “Due miei volti si specchiano/nelle ginocchia sbucciate/del demone bambino.”
Dualità e contrasto sono i poli tra cui si muove la poesia, anche dal punto di vista linguistico. E il contrasto tra la semplicità del linguaggio che rimanda, anche ritmicamente, alla leggerezza della filastrocca e l’abominio della descrizione, genera lo spiazzamento del lettore, il suo straniamento.
Franz Kafka in un passaggio di una lettera indirizzata a Oscar Pollack si domanda “Se un libro non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo?”, per poi aggiungere che “un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”. Queste affermazioni sottintendono il fatto che un libro può agire sul mondo solo nel punto di incontro tra scrittura e lettura; è nella lettura, infatti, che si avverano le promesse del testo scritto.
Così questa raccolta poetica, proprio nella sua apparente semplicità, e attraverso la frizione tra forma e contenuto, forza il lettore a interrogarsi sul senso della propria lettura.Lo spinge cioè a riconsiderare il proprio posizionamento nei confronti del testo e del mondo, suscitando una riflessione più ampia sul senso e sulle difficoltà dell’agire umano, soprattutto nei suoi cedimenti al male. Il testo chiama in causa, suscitandola, l’individualità del lettore, portandolo a rispecchiare su se stesso le colpe del diavolo bambino e a sentirsene in qualche modo responsabile: “A chi aspramente lo rimprovera/per qualche suo scherzo atroce/“L’ho imparato dagli uomini”/ogni santa volta dice.” Per contro, la caduta della responsabilità, il suo rinnegamento, genera quell’abominio di cui il piccolo Zebù si fa esecutore. Continua a leggere
Aspettando di leggere – con molta curiosità e qualche trepidazione per un’attesa che finalmente si colma – il nuovo libro di poesie di Stefano Massari (Macchine del Diluvio, MC Edizioni Milano, in libreria dal 21 marzo 2022) ripropongo qui dal vecchio sito di Imperfetta Ellisse una breve nota e qualche estratto dal suo Serie del ritorno (Ed. La vita felice, 2009), che credo sia il suo ultimo libro e che personalmente considero uno delle migliori raccolte almeno del decennio scorso.
Un libro bello e terribile, questo di Stefano Massari, e sicuramente uno dei più importanti tra quelli letti ultimamente. Non è un libro per anime semplici, né per coloro che credono che la poesia sia un’attività sorgiva e consolatoria. Qui di consolatorio c’è molto poco, anche per il suo autore. Perchè Stefano si è seduto sulla soglia, quella estrema, e si è messo a parlare di morte, a tentare, come è possibile fare a un poeta, un suo personale viaggio d’Orfeo.
Un libro (Serie del ritorno, La Vita Felice, 2009) con una sua risolutezza, anche stilistica e (sia inteso del tutto positivamente) una forma alta di retorica cioè di arte del dire… (continua a leggere QUI)