Archivi categoria: poesia italiana contemporanea

Stefano Lorefice – Passeggeri solitari

Stefano Lorefice – Passeggeri solitariEdizioni La Gru, 2023Stefano Lorefice - Passeggeri solitari - Edizioni La Gru, 2023.

A circa dodici anni dalla pubblicazione (v. QUI) di Frontenotte (Transeuropa, 2011) Lorefice torna a scrivere poesia e mi manda questo Passeggeri solitari, per lui, come mi scrive, “un libro denso”. Dodici anni sono parecchi, un lasso di tempo che per un autore vuol dire una forte riflessione o un forte disillusione. Entrambe le cose possono portare a un ripensare il proprio lavoro e, volendo, a notevoli esiti poetici. Ma, di un autore di cui si è già parlato, difficile non andare a rileggere quanto si è scritto a suo tempo. Frontenotte e prima di esso L’esperienza della pioggia (Campanotto 2006) avevano a mio avviso evidenziato alcuni elementi di interesse, con una possibile proiezione al futuro:

a.una “presenza” dell’autore, anche nel senso barthesiano del termine, che si esplicava sia nella scrittura che nell’altro linguaggio caro a Stefano, la fotografia (v. soprattutto QUI), e che permetteva una sinergia tutta a favore “della osservazione sociale disincantata e insieme dolente, della constatazione della progressiva riduzione dell’uomo a nullità identitaria isolata, della stramatura di un tessuto per lo più urbano in cui l’indifferenza dei più è temperata per quanto possibile dall’occhio (e dalla voce) cosciente dell’autore, che in qualche modo la interpreta”
b.come scrivevo, “un’altra certificazione di presenza, la presenza dell’indeterminato, dell’irrappresentabile anche politicamente, della massa anonima senza peso per “i lupi / dell’unica democrazia / che conosciamo”, che stava nelle ombre delle foto così come negli spazi vuoti della scrittura
c.(mi cito ancora) “il suo stile, scarno, disincantato, senza patetismi, con un corredo lessicale quasi giornalistico, poca prosodia e abbastanza prosa, con una aritmicità che segnala bene il disincanto, la disillusione, l’impotenza con cui l’autore registra gli eventi, le casualità, soprattutto quando le casualità sono i relitti di una realtà urbana che ormai non ha più niente di eccezionale, ma appartiene semplicemente ai nostri tempi”. Si individuava anche un tema per così dire politico, in un embrione di coscienza di un mutamento, un esondare della realtà verso una “periferia centrale” che coinvolge tutti, a cominciare dall’autore, nei fenomeni della realtà contemporanea
d.c’era anche un “luogo”, identificato, urbano o meno, perfino confortevole nella sua realtà anche brutta ma vera, un luogo anche “interno” come lo era il corpo ne L’esperienza della pioggia. Un luogo non parcellizzato, sebbene spalmato sugli sketches costituiti dai singoli testi, dagli oggetti, gli eventi, i personaggi incrociati in quello che poteva sembrare un vagabondare per città, luoghi casuali, incroci di vite
e.parlavo anche, infine, di “linguaggio vicino alla velocità del pensiero e, insieme, oggetto di consumo come i colori per un pittore, che contiene in sè la pennellata, lo scarto poetico”.

Continua a leggere

Loredana Semantica – Titanio

Conosco Loredana Semantica da qualche tempo, anche con un suo eteronimo che anni fa le permetteva una sua presenza eclettica e intelligente nel web letterario. L’ho incrociata varie volte, anche occupandomi della sua scrittura, come ad esempio del libro L’informe amniotico (Limina Mentis, 2015), finalista sia a Opera Prima 2012 sia al Montano dello stesso anno (v. QUI).
In questo nuovo libro che mi manda (Titanio, Terra di Ulivi 2023), come afferma lei stessa raccoglie “i primi frutti del lavoro – svolto nel corso del 2022 – di riordino, organizzazione e strutturazione della propria produzione poetica espressa negli anni dal 2010 al 2021”, un lavoro iniziato con la raccolta inedita In absentia vocis, segnalata al Montano 2022. Un lavoro, mi par di capire, non tanto autoantologico quanto forse di “recupero” di testi in qualche misura dispersi. Possiamo definire questa come una impressione iniziale, leggendo, che deriva forse da un senso di rapsodico “disordine” di queste poesie, così omogenee – mi si passi l’ossimoro – nella loro eterogeneità. Omogenee come stile, scelta lessicale, ispirazione, irrinunciabile lirismo, assoluta centralità dell’io poetico (e ognuna di queste connotazioni andrebbe poi approfondita, come lo stesso concetto di “dispersione”). E tuttavia eterogenee per quel rapsodico disordine a cui accennavo, nel senso delle relazioni tra testo e testo (o forse meglio fra le tematiche) che se ne traggono (in parte corretto dalla ripartizione in sezioni più “dedicate”, come Biografia o Calligrafie, ovvero il rapporto, metapoetico ma anche “sentimentale” con lo scrivere). Le poesie nella loro disposizione appaiono riferite a un tempo indeterminato (e le date, come annotazioni notarili, non tolgono la sua indeterminatezza, non collocano in una sua “Storia”, non ci dicono che quel testo deve essere lì e non altrove, anche – intendo di conseguenza – nel corpo stesso del libro). Lo stesso dicasi per un riferimento (del resto non essenziale) al luogo che, a parte rari accenni ad esempio alla sua Sicilia, è altrettanto indeterminato. Ma forse non serve una “esattezza” in questo senso, forse la raccolta è davvero un malinconico riordino di momenti in sé bastanti, siano essi memorie o insorgenze di una riflessione che non è mai epifania, “apparizione” ma che è però costante, segnata da una specie di nostalgia per un luogo, invece, un luogo dell’anima che non c’è, a cui perciò non è possibile ritornare. E anche forse da un’attitudine all’osservazione di quello che ho sempre chiamato un universo ristretto, concluso, magari rassicurante, come stare sdraiati per “osservare il soffitto / il semilucido della parete le due o tre crepe / qualche puntino nero incerto / se essere macchia o insetto”. O forse ancora quel luogo è un vuoto, misterico, orfico o magari semplicemente tardo novecentesco ovvero individuale e solitario (”non ho niente che valga la pena / nessun messaggio speciale / solita vita un quadro di Hopper / un lampione ferito l’incerto respiro”), a cui tuttavia si replica scrivendo “qualcosa di umano”. Continua a leggere

Per una poesia della resistenza: nota sulla poetica di Luigi Di Ruscio

Luigi Di RuscioPer una poesia della resistenza: nota sulla poetica di Luigi Di Ruscio, di Riccardo Renzi

.Luigi Di Ruscio attualmente può essere considerato il più grande poeta che il fermano abbia avuto e sul panorama nazionale, sicuramente uno dei più grandi del Novecento.

Luigi Di Ruscio nacque a Fermo il 27 gennaio 1930. Di origini umilissime, autodidatta, conseguì infatti soltanto la licenza di quinta elementare, svolse diversi mestieri, e studiò da solo classici americani, francesi e russi, la filosofia greca, saghe della mitologia nordica e tutta l’opera di Benedetto Croce. Nel 1953 una giuria presieduta da Salvatore Quasimodo gli assegnò il premio Unità. Nel 1957 si trasferì in Norvegia, dove lavorò per quarant’anni in una fabbrica metallurgica, e si sposò con una norvegese, da cui ebbe quattro figli. Rimase però sempre legato alla città di Fermo, presso la quale quasi tutte le estati vi faceva ritorno. Morì il 23 febbraio 2011 e fu sepolto ad Oslo[1].

Tra i suoi recensori più illustri, su riviste di primissimo piano, si ricordano Aldo Capasso, Enrico Falqui, Eugenio De Signoribus, Paolo Volponi, Angelo Ferracuti, Massimo Raffaeli, Roberto Roversi, Sebastiano Vassalli, Biagio Cepollaro, Stefano Verdino, Francesco Leonetti, Silvia Ballestra, Andrea Cortellessa, Flavio Santi, Goffredo Fofi, Giulio Angioni, Massimo Gezzi, Walter Pedullà, Giorgio Falco, Emanuele Zinato. Continua a leggere

Acruto Vitali: tra poesia e amicizie illustri, nota di Riccardo Renzi

Acruto Vitali: tra poesia e amicizie illustri

..

Acruto VitaliAcruto Vitali fu uno dei maggiori interpreti di quella temperie culturale che tanto animò il territorio fermano[1] tra gli anni quaranta e sessanta del Novecento.

Era nato a Porto San Giorgio il 5 ottobre del 1903 da Primo, uno dei più grandi industriali della zona, proprietario di una fabbrica di ghiaccio tra le più grandi delle Marche, e da Ada Cestarelli. Frequentò l’Istituto Tecnico Industriale di Fermo. Agli inizi del 1926 si trasferì a Milano per studiare musica e canto. Qui fu allievo di Alessandro Bonci[2], mentre a Roma di Sammarco. L’esordio avvenne nel 1929 ne I Pescatori di perle di Bizet, nel ruolo di Nadir. Negli anni Trenta si esibì come tenore nei maggiori teatri nazionali e internazionali, ma lo scoppio della guerra interruppe le sue attività. Nel 1940 si vide costretto a tornare a Porto San Giorgio, dove aiutò il padre nella gestione dell’azienda di famiglia[3].

Risulta assai difficile parlare di Acruto Vitali poeta e pittore, senza parlare di alcune amicizie illustri che ebbe nel corso della sua vita e che condizionarono il suo gusto poetico e artistico. Per quanto concerne la poesia, la coltivò fin da adolescente assieme a un suo caro amico, Sandro Penna[4]. Il poeta perugino trascorreva infatti tutte le estati con la famiglia a Porto San Giorgio e proprio sulle spiagge di questa cittadella dell’Adriatico i due fanciulli strinsero una salda amicizia. Vitali, anche in tarda età, ancora raccontava di quello splendido periodo della sua vita trascorso con l’amico Sandro a leggere Rimbaud sulla spiaggia. Fu proprio Vitali nell’estate del 1925 a far conoscere la poesia di Rimbaud a Penna[5]. Spesso i due discutevano anche di letteratura francese, in particolare di Gide e Proust[6].

Gli amici illustri di Vitali però non si esauriscono qui. Egli parlava infatti dei poeti francesi anche con Ubaldo Fagioli e Franco Matacotta[7]. Mentre con uno dei più grandi pittori del primo Novecento, Osvaldo Licini, parlava di Leopardi. Continua a leggere

Michele Zaffarano – ISTRUZIONI POLITICO-MORALI all’indirizzo dei nostri giovani poeti…

Michele Zaffarano - ISTRUZIONI POLITICO-MORALI all'indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e sulla assimilazione dei concetti nuoviMichele Zaffarano – ISTRUZIONI POLITICO-MORALI all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e sulla assimilazione dei concetti nuovi – [dia*foria / dreamBook ed. , 2021


Dalla bandella del libro: “Un
coaching mentale: è questo che ci propongono le Istruzioni politico-morali. Un esercizio di poesia pratica a uso e consumo dei giovani, poeti e non poeti, svolto a tappe forzate e a velocità di fast-forward. Le Istruzioni appartengono totalmente, integralmente e radicalmente alla loro epoca: esibendo una natura persino più corporate rispetto a quella degli uomini d’affari più accaniti, scavalcano allegramente a destra l’ultraliberismo in affanno e s’impossessano degli elementi della lingua di quest’ultimo per risputarli poi fuori in forma di tautologie e di ridondanze, a mitraglietta, fino all’esplosione finale. Quello di Zaffarano è uno dei libri più divertenti che ci possa capitare di leggere in questi tempi così sinistri: il suo umorismo meccanico e sleale ci fa pensare a un Alfred Jarry che abbia barattato la bicicletta con il Falcon 1 di Elon Musk. La verità è che, proprio grazie al fatto di crederci troppo, le Istruzioni riescono a smontare, o meglio a saccheggiare, non solo la logica capitalista, ma l’intera metafìsica occidentale, con tutta la sua scolastica e i suoi esercizi accademici, con tutta la sua tradizione, i suoi concetti, le sue problematiche, i suoi obiettivi, le sue informazioni utili, le sue tecniche, le sue idee generali, le sue quantità, le sue cause, le sue conseguenze e le sue soluzioni. E a questa metafìsica che il poeta fa fìnta di vendersi, per meglio continuare a operare nella lingua una riduzione in tutto e per tutto apparentabile alla riduzione rituale delle teste, praticata lasciandole bollire per molto tempo e ricucendone in seguito gli occhi e la bocca. Le Istruzioni politico-morali non hanno insomma nessuna pietà, non propongono nessun accomodamento possibile: una «forma d’azione estrema», come direbbe Jean-Marie Gleize”. (Nathalie Quintane)
Continua a leggere

Enrico De Lea – Giardini in occidente

Enrico De Lea - Giardini in occidente - Seri Editore, 2022Enrico De Lea – Giardini in occidente – Seri Editore, 2022

 

Enrico De Lea è una garanzia, sotto diversi aspetti. Posso dirlo – poi vedremo in che termini – perché lo conosco da tempo e in diverse occasioni ho scritto delle annotazioni sul suo lavoro (v. QUI), a cominciare da I ruderi del Tauro (L’Arcolaio, 2009), che possiamo considerare il suo vero libro d’esordio (un’altra raccolta risale al 1992). Enrico, pur avendo affinato nel tempo la sua scrittura soprattutto in termini di “precisione” del dettato, è sostanzialmente fedele a sé stesso, ai suoi temi, a un suo costante “ritorno a casa”, anche nel senso di rielaborazione modernizzante di una tradizione lirico elegiaca con venature crepuscolari e con modelli anche molto alti come, per dirne uno, Bartolo Cattafi. Lui però ne fa un filone tutto suo, che non dimentica lezioni anche filosofiche (potremmo  azzardare, in questa direzione, uno sguardo gramsciano, specie in quel che di “popolare” si intravede sempre nei versi di Enrico, nel suo tematico ritorno alle radici). Di primo acchito diremmo, ancora una volta, che di questo fondamentalmente si tratta. Il giardino, occidentale o siciliano che sia, accoglie e conclude in sé uno spirito e un mondo, è luogo di qualche quiete, di riti quotidiani e ricorsivi, di personaggi emblematici, del come si stava meglio, che però è in sostanza immoto, non coltivato se non nei solchi della memoria, abitato da lari che da lì, a differenza dell’autore, non si sono mai mossi, popolando di fatto la mitologia poetica di Enrico. Come Diego Conticello rimarca nell’introduzione (e come avevo già annotato negli scritti citati), si tratta prima di tutto (anche in termini di stagioni della vita) di “memoriale ritorno agli archetipi che si formano durante l’infanzia e tali permangono, fissi e irredimibili, nell’immaginario”. In effetti la biografia dell’autore ci parla di un uomo diviso (“dislocato”, dicevo altrove) tra il Nord, in cui svolge la sua attività professionale e che è di fatto assente nei versi di Enrico, e il Sud in cui risiede la sua matrice creativa e che è inteso appunto come giardino delle delizie (ispiratrici), una “Sicilia ancestrale…perduta nei meandri di un sonno millenario…ancorata ad una presunta età aurea di una civiltà contadina” (ancora Conticello), quindi naturale, quindi incorrotta ecc. (ed ecco perché ho parlato di elegia). Potremmo parlare di nostos (come fa Conticello e come feci a suo tempo), ovvero del nucleo più classico del sentimento insoddisfatto, dello sradicamento che esige (ma non ottiene) un’inversione di rotta, un cambiamento di per sé folle in una società attuale. Del resto ricordo cosa mi scrisse nel 2012, a proposito di Da un’urgenza della terra luce (ora ne La furia refurtiva), parlando di “un ossessivo, costante identificarsi coi luoghi resi luce e con la luce resa lingua e materia amata, una mitografla ctonia e naturale”. Potremmo appunto parlare (Conticello ed io) del tentativo, anche per mezzo del linguaggio, di recuperare una forza terragna che solo laggiù risiede e che l’autore ritiene salvifica, rigenerante. Mito, quindi, forse desiderio inesigibile (e che vale per quello), forse illusione. Non utopia, che come ricordava Michelangelo Pistoletto in una intervista vuol dire non-luogo, e appena trovi il luogo giusto per creare essa diventa realtà, e qui il luogo – per quanto mitizzato, antistorico, antimoderno – nei versi di Enrico c’è ed è il linguaggio che lo trae, lo ricrea da quelli che sono épaves, relitti della memoria o dell’immaginazione (come già ne I ruderi). Come già ne I ruderi (e altrove, v. link citato) il linguaggio alla fine diventa personaggio e voce, quanto mai lontano (in De Lea più che in tanti altri) dal linguaggio normato della professione (nessun termine tecnico entra nemmeno per sbaglio in questi versi) o da quello ordinario. Linguaggio condensato, anche nel senso analitico del termine, dove il recupero di forme colte o dialettali non è riuso o semplice citazione, ma funge da pivot eidetico, crea l’immagine e la lancia nel testo, lega e tiene insieme le cose e le memorie (vere, reinventate), pur distanziandole nella giusta misura (come nel culto dei morti, c’è sempre qualcosa di vagamente apotropaico nella poesia di Enrico, una “fasciatura”, come ho detto di lui altrove).

Continua a leggere

Antonella Bukovaz – casadolcecasa

casadolcecasa di Antonella Bukovaz (Miraggi Edizioni 2021)Pubblico anche qui la nota che ho scritto per Bologna in Lettere 2022 per il libro casadolcecasa / domljubidom di Antonella Bukovaz (Miraggi Edizioni 2021, anche audiolibro), Premio speciale del Presidente in questa edizione. La nota è uscita anche sul sito del premio, senza i testi esemplificativi qui aggiunti.

Antonella Bukovaz è nata a Topolò-Topolove, in quella che una volta si chiamava la Slavia friulana, a un tiro di schioppo dal confine sloveno, a stretto contatto con quell’areale linguistico che ha espresso nel tempo scrittori come, solo per fare un nome, Boris Pahor. Autrice di diversi volumi di poesia, è anche autrice di teatro e performer, collaborando con musicisti e artisti del suono (e in effetti casadolcecasa / domljubidom, prima sezione e titolo del libro, è anche performance teatrale).

In realtà in questo libro la lingua di appartenenza, quella autoriale, non vuole essere esclusiva, poiché come talvolta avviene in quelle che spesso vengono vagamente definite letterature di confine, una seconda lingua non è meno vitale, ovvero non meno portatrice di una identità che se non è familiare è certo di senso, di contatto con l’altro, come un ponte fecondo. Poiché, ci avverte Bukovaz, “i luoghi di confine invece non sono mai in pausa (…) non smettono mai di comporre storia di fruttare storie”. Così, accanto alle sezioni principali del libro (la citata sezione eponima e poi Mèd / Tra – corredata anche da Between, versione in inglese – e Antigona govori kralju / Antigone parla al re) troviamo la versione in sloveno, in traduzioni che non sono di Bukovaz ma a cui si suppone l’autrice abbia collaborato. Finiscono di comporre e concludono la raccolta altre due parti solo in italiano, La rima dirime e Quieta e ardente. Viaggio dal centro della terra.

Quella di Bukovaz è una poesia che trova la sua forza in una metafora che potremmo definire totale, che cioè non ha funzione retorica, non serve al linguaggio ma in qualche modo lo determina, determina la “storia” che i versi costruiscono, ne è oggetto e la occupa. In questo senso è emblematico proprio casadolcecasa, un tragitto accidentato e tuttavia fermamente determinato attraverso un luogo che è insieme e in maniera indistricabile vero e immaginato, domestico e universale, privato e comune e forse non è nemmeno un luogo, ma un corpo, una mente, un territorio psichico, un archivio di ferite. Ingresso, cucina, corridoio, ripostiglio, bagno, camera, soffitta: sono le stanze (anche in termini poetici) attraversate in questo tragitto, virtualmente dal basso verso l’alto, e anche oltre (”la soffitta come un razzo in partenza con i motori sempre accesi”), abitate da una sorta di dialogo senza risposta con presenze (o assenze) sfuggenti, con gli oggetti, qualche fantasma. Continua a leggere

Due o tre cose che so di lei (la poesia), qualche domanda a Paolo Castronuovo

Due o tre cose che so di lei (la poesia)

qualche domanda a Paolo Castronuovo

.

Biografia autore:

Paolo Castronuovo è poeta, scrittore, editor. Tra prosa, poesia e volumi d’artista ha pubblicato undici libri. Ricordiamo la trilogia poetica composta da: Labiali (Pietre Vive, 2016), L’Insonnia dei Corpi (Controluna, 2018) e La Croce Versa (Effigie, 2022); il romanzo La Falla Oscura (Castelvecchi, 2018). Ha scritto la poesia più breve mai esistita poi pubblicata in tiratura limitata come libricino d’artista. Presente in molte antologie poetiche, alcuni suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, altri pubblicati in Polonia, Irlanda, Stati Uniti. Dirige la collana «Occhionudo» per la quale ha curato diversi volumi di poesia e testi sperimentali. Ha curato e tradotto H.P. Lovecraft nel volume Il Simbolo della Bestia (Joker, 2022).

.

GC:Comincerei con il chiederti un tuo punto di vista diciamo generale sulla poesia come arte, come strumento di comunicazione, come terreno di ricerca, la sua rilevanza (o irrilevanza) oggi. Non ti chiedo se è viva o morta secondo te, voglio solo sapere che cosa ne pensi, anche sulla base dell’esperienza di poeta ed editor, di cui magari parleremo dopo.

.

PC:Ciao Giacomo, grazie per l’intervista e per lo spazio. Cominciamo col dire che la poesia “è”. Non ha definizione, non ha tipologia, o altri rami. È un creato. È l’illuminazione che viene prima che la penna si posi sul foglio o prima ancora che la bocca si apra, prima che l’immagine sia chiara davanti all’occhio. Ho sempre pensato che la poesia o è, o non è. D’altronde anche Lautremont aveva detto che “non esistono due tipi di poesia, ce n’è uno solo”. Da cosa dedurre poi questo “essere-non-essere”, è la vera strada ardua da fare, che solo l’esperienza della lettura o della scrittura, ti porta a definire. È uno dei linguaggi più diretti mai sperimentati, intima e personale, ma che sta alla bravura del poeta renderla universale, fruibile, commestibile, renderla tale e se stessa, renderla poesia. Poeti si nasce, non lo si diventa con i corsi. Si può migliorare il proprio creato – per fortuna! – attraverso confronti e consulenze, ma non si può reinventarlo. Nessuno può insegnarti a vedere. Nessuno può vedere lo stesso oggetto con lo stesso occhio. E la poesia sta proprio in questo: l’occhio illuminato. Continua a leggere

Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti – L’arte di allacciarsi le scarpe

Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti - L'arte di allacciarsi le scarpe - Pietre Vive Ed., 2022Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti – L’arte di allacciarsi le scarpe – Pietre Vive Ed., 2022

Ho già parlato in questo spazio del lavoro poetico di Alessandro Silva  in due occasioni su cui torneremo più avanti perché in diverso modo sono utili per capire qualcosa dell’autore. Ma intanto diciamo di questa ultima fatica, equamente condivisa con l’artista Federico Galeotti, disegnatore e illustratore autore di diversi libri nei quali la poesia e i poeti (Baudelaire, Poe, Blake) sono stata affrontati graficamente. In questo caso sono i versi di Silva a fare da contrappunto testuale alle tavole di Galeotti, in uno scambio di significati reciproco.
Il libro prende spunto dall’evento catastrofico avvenuto nel 2011 in Giappone, a Fukushima, dove la centrale nucleare venne severamente danneggiata da uno tsunami scatenato da un terremoto, compromettendo l’ambiente e la vita delle popolazioni con gli elementi radioattivi liberati dall’incidente, e causando decine di migliaia di morti. Un fatto di cui ancora ci ricordiamo e che tuttora ha effetti a livello planetario.
Non è un tema da poco, se lo si vuole affrontare con un mezzo “fragile” come la poesia, per quanto efficacemente sostenuto dalle immagini. Tuttavia Silva non è nuovo a impegni del genere, cioè a una poesia che sia insieme “civile” e drammaturgica, lirica e a suo modo cinematografica, con una storia individuale e tuttavia collettiva e con un suo epos. È un tipo di sfida che lo affascina, poiché nel 2016, sempre per Pietre Vive, aveva messo mano, tentando – come dicevo allora – di farne un poema (come adesso), alla vicenda tragica e ancora irrisolta dell’Ilva di Taranto, nel libro L’adatto vocabolario di ogni specie (v. QUI). Sfida già impegnativa per il fatto che si trattava di un’opera prima. Anche lì c’erano tavole di corredo, opera di Giovanni Munari, a supporto di una storia, di un racconto di vicende dolorose, di protagonisti in varia misura vittime di un disastro ambientale. Anche questo libro mi pare risponda a un’attitudine di Silva, che è in fondo quella di un’attenzione acuta e un po’ dolente verso “il mondo, quindi, come un catalogo permanente”, come cita l’esergo di Edoardo Sanguineti (presente qui, mi pare, anche con altre ispirazioni); ma le similitudini mi sembrano finire qui, per ragioni che è utile sottolineare. In questo ultimo libro, intanto, Silva fa una precisa scelta di linguaggio, o addirittura di riposizionamento rispetto alle precedenti scelte stilistiche. Nel Vocabolario la linea era quella descrittivo-lirica, in tono narrativo, con accenti di critica sociopolitica filtrati dalla saltuaria apparizione di un io compartecipe, un io personaggio che ogni tanto dava dolente voce alle vittime come un corifeo, le scene erano nette, discorsive, i fatti avevano una loro evidenza poetica come episodi esemplari. 
Silva sceglie di scrivere una sua Terra desolata, di giorni quasi uguali a sé stessi di persone normali, di piccoli eventi, di vita ordinaria di gente che prende l’autobus, di simboli del quotidiano come delle semplici scarpe o un gatto che attraversano tutte le scene, mentre qualcosa là fuori sta succedendo. E sceglie di scriverla con un linguaggio altro e distante dalla sua prima prova, ma anche da altre sue cose più personali, più intime o più liriche (v. QUI), una lingua poetica dal piglio sperimentale di una certa efficacia e di non poca inventiva lessicale, ma che porta con sé e trasmette un senso di oscura allusione, d’indeterminatezza, di chiusura ermetica riguardo a ciò di cui sta parlando. Tanto che se avessimo il solo testo forse non emergerebbe agevolmente il tema, l’occasione, il luogo, la denuncia se non con la sinergia con le tavole di Galeotti (che, sia detto per inciso e forse i meno giovani lo riconosceranno, in certi modi e tratti mi ricorda lo splendido Eternauta di Oesterheld e Solano Lopez), che tanto più funziona quando il verso, ma non sempre, diventa lettering del disegno, cioè si innesta in esso, nella sua rappresentazione. E questo va bene, se si considera – come giusto che sia – questo libro non tanto una graphic novel atipica (e men che mai un manga come ha detto qualcuno) quanto un’opera visiva mista – come certe opere d’arte in cui concorrono al risultato materiali di diversa natura e consistenza, magari asincroni ma funzionali – con il testo che assume una funzione più tipicamente soggettiva (anche in senso cinematografico) e non necessariamente narrativa (quindi “interna” o interiore); mentre la grafica si accolla la funzione diegetica, di racconto, scenica, o di uno storyboard possibile, e di raccordo con un immaginario visivo (quindi “esterna”). Sono due codici che mirano alla descrizione di due entropie parallele, una diciamo privata l’altra pubblica. Tuttavia questa dicotomia tra testo, che evita qualsiasi didascalismo nei confronti dell’immagine, e l’immagine stessa che ricrea la cronaca per spezzoni, alla fine nell’architettura complessiva dell’opera funziona bene, facendone, al di là della cronaca stessa, qualcosa di emblematico del rapporto tra l’uomo, specie l’individuo, e l’ambiente, nel quale la natura incontrollabile trova nei guasti prodotti dall’uomo un moltiplicatore. E la scrittura di Silva, nel suo cupo andamento spesso tanto simbolico quanto a tratti surreale (specie nella formazione di certe immagini) o dichiaratamente onirico restituisce al lettore la sua angoscia, una densa atmosfera che sembra presagire comunque il disastro, qualunque disastro, questo e quelli futuri. (g.cerrai)

Continua a leggere

Luigi Cannillo – Between windows and skies

Luigi Cannillo - Between windows and skiesUna piccola ma preziosa antologia bilingue, quella edita da Gradiva Publications di Luigi Fontanella, che collaziona testi editi di Luigi Cannillo,  la parte più cospicua dei quali proviene da Galleria del vento, che ho recensito alla sua uscita e a cui rimando (v. QUI), e inediti provenienti da una raccolta in attesa di uscita dal titolo Dal Lazzaretto. Con una prefazione di Luca Ariano e traduzione di Paolo Belluso, entrambe in inglese, il libro è una agevole guida per ripercorrere, seppur brevemente, la carriera poetica di Luigi, attraverso testi a cui, per chi sia in grado di apprezzarla, la traduzione sembra aggiungere una ulteriore brillantezza e sonorità. L’antologia presenta, a volte anche in un solo esemplare per ogni opera di riferimento, testi che vanno da Transistor del 1985 alla già citata Galleria del vento del 2014, e pur nella sua sintesi è in grado di dare una chiara indicazione del percorso poetico di Cannillo. Il quale è marcato nelle sue linee più caratteristiche da una costante fedeltà ad un realismo lirico nutrito certo dal vissuto, compresa la sua esperienza di insegnante, dagli affetti, dalle assenze e dalle perdite (come in Galleria la perdita della madre), ma senza essere né retorico né sentimentale, come già avevano notato critici come appunto Ariano e Sebastiano Aglieco, e nemmeno senza dimenticare una tradizione eminentemente lombarda che incarna con ogni evidenza la poesia di Cannillo quanto il paesaggio e la natura di quelle terre (e viene a volte da pensare a certe immagini del “Viaggio in Italia” di Luigi Ghirri), e che mantiene i suoi versi, per così dire, con i piedi per terra, sorretti da uno stile che definirei classico e orgogliosamente senza tempo. Paesaggio, natura, arte (in Sesto senso, 1999) e l’uomo al centro, con sentimenti, afflizioni ma anche pulsioni,  una riflessione costante, negli anni, su di sé, come uomo sferzato dalle sollecitazioni di una metaforica galleria del vento, e sul mondo: sono questi i punti di orientamento della costellazione che occupa il suo cielo privato, come titola uno dei suoi libri più importanti, del 2005. Un titolo, come notò a suo tempo Gabriela Fantato, felicemente ossimorico, che sta a significare il destino comune, l’esperienza esistenziale, le eterne  domande che riempiono il cielo e che, dice il poeta, sono miei e, per la poesia,  sono di tutti. (g.c.) Continua a leggere