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Alessandro Assiri – Abitarmi stanca

Alessandro Assiri - Abitarmi stanca - Puntoacapo ed., 2023Alessandro Assiri – Abitarmi stancaPuntoacapo ed., 2023

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Un titolo pavesiano, e fin qui è facile. Potremmo domandarci, partendo da qui, se sia un libro dedicato all’uomo che abita l’autore che abita una sua realtà, una coabitazione che, come questo presente, ha le sue difficoltà ed è un luogo (e un topos) della stanchezza del mondo. Assiri (già presente sulla vecchia IE), è anch’egli un cantore di questo presente che disanima (sic) molta della poesia italiana attuale, riflesso di una condizione umana che sarebbe semplice addebitare ad un post-post modernismo di difficile definizione. Voglio dire, il malessere esistenziale è sempre esistito, almeno nell’era letteraria che noi conosciamo, e certo fa bene Ivan Fedeli, nella prefazione, a tirare in ballo il tema generale dell’assenza assoluta, citando Montale e più avanti Milo De Angelis. Il titolo insomma ci avvicina a una (almeno) doppia evidenza, di una certa fatica (e proviamo ad usare questa parola in termini ingegneristici, “materiali”, corporei) e di un certo “dentro”, entrambi direi molto personali, molto privati e tuttavia comuni, nell’era attuale quasi endemici. La differenza, tutta odierna, con quell’inesausto novecentesco malessere esistenziale a cui accennavo è che gli strascichi di esso sono diventati solipsistici e insieme collettivi, personali e insieme sociali, e in qualche modo egoticamente esposti. E perciò la poesia che li incarna è (vuole essere) dell’autore e di tutti, così come i leit motiv principali, di modo che quello che fa la differenza è l’espressione, la scrittura, la ricerca sul linguaggio, o se preferite lo stile, insomma la capacità autoriale di rinnovare, di dire meglio qualcosa che sappiamo o crediamo, come lettori, di sapere. Assiri si muove in queste acque, salvaguardando un’identità fatta anche di cose, di quotidianità, di microeventi che ne danno un senso e un perimetro, che tuttavia non pare essere rassicurante né protettivo, assomigliando molto ad un hortus sbrecciato. Da questo punto di vista la sua è una scrittura cosciente, non solo perché certa dei propri mezzi tecnici ma anche perché, senza girarci tanto intorno, sa che l’unico soggetto possibile, in queste acque, è un io che persiste senza soluzione di continuità, lirico e presente, a volte dialogante con un canonico tu/noi, a volte pensoso e introverso. Continua a leggere

Gabriele Pepe – L’inferno del nostro portento

Gabriele Pepe - L’INFERNO DEL NOSTRO PORTENTO - Puntoacapo Editrice, 2019

Gabriele Pepe – L’INFERNO DEL NOSTRO PORTENTO – Puntoacapo Editrice, 2019

Gabriele Pepe ama i titoli “giocati”, come ad esempio il precedente L’ordine bisbetico del caos (2007), che in un witz contengono già un indizio della sua poetica, o quanto meno del tipo di rapporto poetico/strumentale che ha con la sua visione del mondo e con il linguaggio. Che, come il suo estro, è “libero ed eclettico, magniloquente ex contrario“, come rammenta Plinio Perilli nella sua esorbitante introduzione. Lo (pseudo)shakespeariano “Inferno del nostro portento” potrebbe perfino vagamente richiamare certi ironici titoli o testi di gente come Corrado Costa (“Inferno provvisorio”), Gianni Toti, Emilio Villa, Paolo Gentilomo, ma la somiglianza si ferma lì. Costruito in tre sezioni (Urbi et orbi e la Teoria del tutto; Distanze vicinanze ed altre vie di fuga; Gli inganni del traguardo) i cui titoli celano  tre poemetti (l’ultimo assai corto), in realtà ulteriormente e diversamente titolati, articolati in parti, a loro volta costituite da spezzoni aperti e chiusi  talvolta da una punteggiatura (…) sospensiva (nella prima sezione), il libro appare un ambizioso canovaccio del mondo e della Storia, dell’individuo con i suoi accidenti e del cosmo,  tratteggiato con un piglio a tratti epico/oratorio (grazie anche alle numerose citazioni classiche e non, e all’emergere di una ipermetrica altrettanto epica), a tratti aforistico, e nel quale il poeta si tiene da parte come un descrittore interessato e coinvolto ma sufficientemente disilluso, quasi – per quanto possa apparire contraddittorio – esterno alla faccenda. In  realtà c’è materia per più di un libro, materia qui abilmente concentrata in una sessantina di pagine e trattata soprattutto con una lingua il cui tono principale è polemico/sarcastico, e con la quale  Pepe, secondo Perilli, costruisce la sua “disquisizione”. Se dico materia per più di un libro vuol dire anche però che si ha a volte l’impressione di un veloce excursus a volo d’uccello, quello che Perilli chiama bonariamente un “passare agilissimo…dal Mito alla Storia, dall’Arcano al Culto sempiterno”, nel quale si toccano temi svariati e di per sé complessi, come la società dei consumi, il malessere del pianeta, la contemporaneità veloce, l’uomo in essa coinvolto ecc., e lo si fa spesso con flash fulminanti e assai significativi, a volte con aforismi secchi prima di passare oltre.

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Giacomo Leronni – Scrittura come ciglio

Giacomo Leronni – Scrittura come ciglio – Puntoacapo editrice, 2019Giacomo Leronni - Scrittura come ciglio
Un libro di poesie che ha il titolo di un saggio, questo di Giacomo Leronni. Scrittura come ciglio, esercizio, lavoro, professione di un’arte dall’orlo (e come limitare) di un abisso che solo quello stesso esercizio ha qualche possibilità di sondare. La scrittura dunque come mezzo di espressione del noto e di indagine del percepito, o almeno questa è l’aspirazione di chi scrive, ma bisogna affacciarsi parecchio a quell’orlo (ed è il ciglio a cui allude Cesare Viviani un uno degli eserghi).
Ricordo di aver già parlato di Leronni nel 2012 (v. QUI ), in occasione dell’uscita del suo Le dimore dello spirito assente (Puntoacapo). E anche allora la parola “limite” era spuntata fuori più di una volta, anche per definire qualcosa, in quel caso “nella sua accezione meno eroica. E’ quello cioè in cui sbatti il naso e ti fermi, guardandoti in giro irrelatamente, e NON quello in cui invece getti il cuore oltre l’ostacolo e scali la montagna come Messner. E’ il limite quindi oltre il quale la parola, come un diamante su cui si tenta l’ennesima sfaccettatura, perde la sua funzione e si sbriciola”. E’ il problema fondamentale di una poesia che si muove in ambiti elettivi, in ambienti anche culturali che marcano stretta la scrittura entro certi confini, la “suggeriscono”, la sfumano, e con essa operano una “estrazione dell’essenza” (dicevo allora). Si tratta di un influsso culturale che l’autore porta con sé, quello letterario francese, e cioè, mi pare di aggiungere sinteticamente, tutto un areale simbolista in cui l’oggetto, ma anche l’evento o il dato esperienziale, perdono (anzi devono perdere) i loro lineamenti, i loro tratti distintivi, in un certo senso il loro “fuoco”. Certo, bisogna fare i conti con un’aria rarefatta, le altezze simboliche e metafisiche sono considerevoli, l’ossigeno potrebbe non essere sufficiente se si partisse, come lettori, da un pre-concetto normativo o canonico (qui comunque il canone c’è ed agisce, stante che, come ricorda anche il prefatore Daniele Maria Pegorari, i riferimenti, non solo stilistici, sono a quella cultura) o dalla semplice risultante, di cui occorre tener conto per capire, di una scrittura “disinteressata nei confronti dell’oggettività del mondo” che agisce “su un piano di pensiero puro che lascia del tutto in ombra la realtà” (ancora il prefatore). Sono d’accordo, ovviamente, ma da qui bisogna ripartire, traendone qualche conclusione. Certo, il “ciglio” di questo titolo metapoetico può essere anche quello di uno sguardo celato ma non precluso, filtrato ma non miope, quello sornione e smagato di chi tenta di superare la realtà oggettuale per avvicinare quella più intima, ma per l’autore non meno concreta, delle cose, che, come ci insegna Remo Bodei, sono oggetti materiali o immateriali caricati delle nostre idee, di contenuti simbolici o affettivi (del resto, gli “oggetti” comunemente intesi, elementi che denotino una materialità del mondo o un aggancio ad esempio alla natura, in questi versi sono rari). Il mondo di Leronni è densamente spirituale, in almeno due accezioni: la prima sicuramente è quella di uno spirituale rinvenibile all’interno del sé poetico, quella cioè che Leronni esplora in quasi ogni testo, anche ove non sembri palese, quasi come se, mi pare, fosse alla ricerca di una conferma di quella “immagine e somiglianza” con qualcosa di trascendente che l’uomo accarezza nella mente, ancorché non gli sia stata assegnata fin dalla creazione, insomma un pensioero “universale”; l’altra è quella di un confronto non dichiarato (e forse non importante) con il divino di un Dio raramente nominato, anzi visto con un occhio un po’ dubitoso (“l’onda cupa che tutti chiamano Signore”; “un Cristo di livore”) soprattutto perché, mi pare, c’è sì da qualche parte ma rappresenta una ardua sfida, un tema troppo impegnativo per le parole, che viceversa sono le cose in cui il poeta crede maggiormente. Alla fine dobbiamo ammettere che stiamo parlando più di spirito che di spiritualità, o di una spiritualità tutta laica, nella quale appunto è la parola, la sua potenzialità evocativa/astratta, ad officiare. In effetti la lettura di questo libro mette di fronte all’evidenza di quanto lo stesso Leronni afferma, proprio nella sezione Il ciglio: “Tutto è piegato alla parola”, e più avanti, “Tutto è sedotto dalla parola” (ma anche: “nella luce impervia reclutavo / parole isolate, topazi”). Siamo al centro, è ora ovvio, di un universo che l’uomo si è creato da sé, con la parola, e questa “parola” è come se avesse una maiuscola omessa dall’autore per modestia. Un universo che tuttavia presenta, come tutti, i propri abissi e i propri margini, non è esplorabile del tutto. Ma, cosa importante che avevo già sottolineato a proposito de Le dimore dello spirito assente, Leronni non bara sul linguaggio con cui affronta i suoi temi, non è volutamente oscuro per quanto astratto, e se talvolta lo è dipende forse dal fatto che, come avviene anche nei simbolisti ma anche negli ermetici, l’immagine che il poeta persegue è troppo “privata”, come racchiusa in una intima stanza. In altre parole, non è detto che io e il poeta leggiamo in questi versi le stesse cose, evochiamo le stesse immagini. In effetti ogni singolo testo presenta un problema di interpretazione, nello stile di Leronni è arduo già identificare, nell’astrattezza dei temi, la vaghezza delle “persone”che si incontrano, a cui talvolta il poeta si indirizza, un “tu” a volte riflessivo a volte ignoto, altri sfocati destinatari, alcuni “noi” accomunati nella riflessione su quel nulla (e l’oscuro, e il buio e tutti i correlati) che si intravede oltre il ciglio e che costituisce forse il tema principale della visione laica di Leronni. Che sembra sempre, come il Montale di “Forse un mattino andando in un’aria di vetro”, in procinto di sorprendere una verità sfuggente, cogliendola però non con lo sguardo ma con la rete di parole che Leronni è assai abile a tessere. E quella verità, come accennato, è che nel tramaglio delle parole – che alla fine, di tutto ciò che interseca il vissuto di un uomo, affetti, amori, dolori, raccoglie soprattutto la convinzione che l’uomo (e il poeta specialmente) è ciò su cui riesce a riflettere – resta un’idea di impermanenza, o di essere uomo “singolare” che sperimenta il suo essere “libero” di fronte al nulla (un’idea un po’ di marca esistenzialista). In un certo senso, se si accettano questi presupposti e quel che di apodittico (ma forse dovremmo parlare di oscura assertività) portano con sé compresa l’ “esclusività” dell’esperienza del poeta, anche gli aspetti più criptici della poesia di Leronni si illuminano di lampi, e l’interesse che ne emerge è proprio l’ “intravisto”, una sorta di “vuoto che fruscia // lampo su lampo, scossa dopo scossa”, poiché anche “il vuoto più distante dispone / del favo che lo rischiara”. E spesso, proprio nell’economia della parola, della sua “libera” circonvoluzione intorno al “ciglio”, è l’uso di potenti artifici come metafore, analogie, similitudini, accostamenti dinamici e creativi (talvolta un po’ forzati) tra soggetti e/o oggetti e predicati (gli esempi sono moltissimi) ecc., che conferisce al testo un’autorevolezza di “senso”, per quanto ellittico esso possa essere. Un libro complesso, come lo era Le dimore, in cui si intravedono sviluppi forse più di stile che di temi (e le cose di gran lunga migliori in entrambi i sensi mi paiono nella sezione Una verità impensabile), e in cui mi pare permanga ciò che allora avevo definito come “una poesia ‘percettiva’ orientata sui riverberi degli eventi sulla psiche”, alimentata “da un pensiero analitico insonne e a volte impietoso, da uno spirito tutt’altro che ‘assente’ “. (g. cerrai)

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