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Alessandro De Francesco – e agglomerati, degli alberi o

Alessandro De Francesco – e agglomerati, degli alberi oArcipelago Itaca, 2023

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Ci sono oggetti poetici di non facile manipolazione, almeno al fine di una nota, di una recensione, o solo quando si voglia citarne degli esempi. Ci sono oggetti poetici complessi, di non facile definizione, alla quale – forse – semplicemente vogliono sfuggire (“È un aereo? È un uccello? No, è Superman![1]“), giacché mettere in discussione il definibile fa parte del loro gioco. Parlare di oggetti poetici non è un vezzo ma una precisa intenzione. Specie nel caso di questo libro di Alessandro De Francesco, che è un libro, su questo non ci sono dubbi, ma forse non è alcune altre cose e altre  cose vuole diventare. Non è una desueta raccolta, non è una silloge, non è (ma forse forse) un prosimetro, non è, non mi sembra, una installazione, e volerlo relegare nell’ambito  della scrittura di ricerca o sperimentale sarebbe tanto generico quanto lapalissiano (oltre ad essere, dice l’autore, “un formalismo fuori tempo massimo”). Certamente è un oggetto che sembra soffrire di dover essere stampato su carta, di diventare statico, non interattivo, non ulteriormente deformabile (come vedremo). È proprio con questa materialità “definitiva” che ho avuto il primo approccio quando ho pensato di farne una piccola recensione, ricevendone di che riflettere. È vero che tutti i libri sono materiali e concreti, ma è anche vero che questo in particolare tende a rappresentare, di questa materialità, una vis insieme centrifuga e ineffabile, come un “prigione” di Michelangelo.

Per consuetudine di questo blog quando scrivo una nota su di un libro aggiungo anche, ad usum lectoris, qualche testo esemplificativo. Col cartaceo si lavora di scanner e OCR, con i pdf si fa una semplice estrazione dei brani che interessano, tutto lì. Ma il lavoro di De Francesco è un particolare assemblaggio di testi tipografici “originali” (che si presume abbiano avuto una stesura, digitale o analogica, precedente alla stampa) e frammenti, estratti, specimen di opere (libri, siti, documenti) diverse ed  aliene. I primi corrispondono ad un testo in varia misura “leggibile”, di cui cioè trasmettono un senso interpretabile mediante una qualche verbalizzazione (ma non necessariamente parafrasi), ancorché sia esso sottoposto talvolta a torsioni, sovrascritture, rovesciamenti speculari, cancellazioni, abrasioni o “danneggiamenti” di qualche tipo (v. esempi più avanti); i secondi sono “citazioni” (presenti peraltro anche nei primi) o copie, per lo più di dati, elenchi, nomenclature o – appunto – agglomerati. Sono questi ultimi, come vedremo, ad aver subíto la maggiore de-formazione, almeno finché andando in stampa sono sfuggiti alla ulteriore “violenza” dell’autore (ma va detto che quella dinamica, come suggestione di un moto inerziale, è destinata a perdurare). Continua a leggere

Laura Liberale – Unità stratigrafiche, nota di Claudia Mirrione

Laura Liberale - Unità stratigraficheUnità stratigrafiche di Laura Liberale – Nota critica di Claudia Mirrione

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1.Stratigrafie perturbanti


i morenti se ne vanno

facendo sbattere finestre a chilometri di distanza

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al fremito dei vivi rispondono:

se ci sentiste dentro anziché fuori

(nel sangue che rallenta

nel fiato che s’ingorga nella gola)

sarebbe forse minore lo spavento?

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Un libro che disquieta questo di Laura Liberale – vincitore del Premio Bologna in Lettere 2021 per la sezione A (opere edite) – e di cui riteniamo opportuno parlare per l’interesse e soprattutto per l’impatto che suscita nel lettore, vuoi per il piglio talora specialistico con cui affronta l’argomento (la scrittrice è indologa e tanatologa), vuoi più probabilmente per gli effetti disturbanti che esso ingenera e lascia a decantare, ad aggiungersi così al nostro già orrorifico immaginario, conscio, inconscio. Continua a leggere

Roberto Marcòni – Il paese invisibile e il passo per inventarlo, nota di R. Renzi

Roberto Marconi - Il paese invisibile e il passo per inventarloIl paese invisibile e il passo per inventarlo di Roberto Marcòni: un percorso attraverso la paesologia dello spirito

La presentazione che si è tenuta il 14 luglio 2023 presso la Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo, all’interno della rassegna Libri in Piazza, del volume di Roberto Marcòni (Arcipelago Itaca Ed., 2023), che avevo già letto negli scorsi mesi, mi ha spinto a preparare questo breve lavoro d’analisi.

Il livello della raccolta è altissimo, merce rara nell’editoria d’oggi, a garanzia di ciò la prefazione del professore universitario e poeta di fama internazionale, Umberto Piersanti, che ho avuto il piacere di avere come insegnante nel suo ultimo anno di docenza urbinate e della quale produzione poetica mi sono nutrito in particolar modo in questi ultimi anni[1]. Il paese invisibile e il passo per inventarlo[2]è in prima battuta un inno patrio, con tale termine si intende però la propria terra, quella natia, la terra dei propri padri, che è narrata dal conto mitico che spesso si fa leggenda. La patria di Marcòni non è l’Italia, ma la realtà microcosmica di Potenza Picena, che nel luogo il proprio io rispecchia e viceversa. I luoghi fisici, in Marcòni, sono anche i luoghi dell’anima, dove ogni componimento corrisponde quasi a un girone dantesco, sì, proprio dantesco, poiché il poeta spesso narra i fatti con un occhio da antropologo, quasi sociologo, ripercorre la storia di Potenza Picena, ricostruendo la storia del proprio io, attraverso il potente mezzo del ricordo, ove molti ricordi sono legati a personaggi, spesso caratteristici, quasi margutteiani, che però il poeta non nomina mai, per rispetto o forse per paura, indicandoli solo con le iniziali. Continua a leggere

Silvia Patrizio – Smentire il bianco

Silvia Patrizio – Smentire il biancoArcipelago Itaca, 2023

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Un’opera di esordio, mi pare di capire, ma frutto – ci dice Davide Ferrari nella postfazione – di tre lustri di lavoro. Mi sembrano, in breve, due vite, e forse lo sono, dovremmo domandarlo alla diretta interessata. In ogni caso qualche traccia del tempo, di un tempo che ha agito sulla natura del libro, di un prima e di un dopo, nel libro si trova. Almeno nella sua struttura, perché invece la scrittura non sembra dare segni di flessione tra la prima e l’ultima pagina. Voglio dire, se l’autore ha lavorato nel tempo, è stato un lavoro teso, mi pare, soprattutto alla realizzazione di una lingua chiarificata e unitaria nei modi (stile) e binaria negli intenti, anche all’interno dei singoli testi. Nella maggioranza dei quali, specie nella prima parte (la sezione titolata Una stanza bianca, dopo il treno), l’andamento è diegetico, una linea caratteristica (e comune a tantissima altra poesia) e direzionale, che va da una certa adesione ad un reale oggettuale, ma non per forza correlativo, verso una dimensione per così dire speculativa, pensosa. Il procedere dagli oggetti, dal tangibile, dalle “cose” mi pare dare il senso di un hic manebibus resistenziale sì ma non a lungo sostenibile. Non ottimamente almeno, poiché – ed è anche una scelta stilistica – poi per l’autore si fa necessario gettare uno sguardo su un altrove che talvolta non supera la stanza (sia pure come simbolo di chiusura), talvolta trova un’eco in una assenza o in un paesaggio, tal’altra l’immaginazione accosta l’oggettivo e l’ideale in una sorta di interscambio (“appartenevi all’indulgenza delle foglie”), e così via, come quando la messa a fuoco dell’occhio si allenta inseguendo con la mente un pensiero all’orizzonte. Ferrari ci conferma che l’autrice “sembra voler rimanere ancorata alla realtà”, che il suo habitat è quello di “una quotidianità privata” che si riverbera in “componimenti…permeati di immobilità”, per quanto assolti da una loro “dimensione del tempo: come se tutto accadesse qui e ora in una frantumazione di immagini”, dal loro essere “in grado di investire anche la nostra quotidianità”. Siamo quindi nell’ambito di ciò che con il mio solito mugugno ho annotato troppo spesso in passato, uno spazio ego-centrato e mediamente lirico, ma anche legato a un immanente presente, appunto privato, appunto “immobile”, in sostanza una comfort zone poetica da cui osservare il mondo con il proprio moderato disagio (anche però autocritico: “la guerra degli altri / lo strappo che non ci compete / non può succedere a me / assaggia tu la pasta sennò scuoce”). Continua a leggere

Pavel Arsen’ev – Lo spasmo di alloggio

Pavel Arsen’ev – Lo spasmo di alloggio, a cura di P. Galvagni – Arcipelago Itaca, 2021Pavel Arsen’ev - Lo spasmo di alloggio, a cura di Paolo Galvagni - Arcipelago Itaca, 2021

Davvero interessante questo libro antologico curato da Paolo Galvagni, traduttore dal russo (e in russo) di importanti autori del Novecento e contemporanei (da lui tradotto avevo letto e recensito per la rivista “Menabò” il misterioso I frutti della meditazione di Koz’ma Prutkov, altrettanto interessante). Pavel Arsen’ev è nato nel 1986 a Leningrado / San Pietroburgo dove vive, a parte residenze di studio all’estero (è attualmente dottorando all’Università di Ginevra), è vincitore del prestigioso Premio letterario “Andrej Belyj”, ed è tradotto negli USA e in italiano nel volume Tutta la pienezza del mio petto, poesia giovane a San Pietroburgo (Lietocolle 2015, trad. P. Galvagni) e nelle riviste “Le voci della luna” e “Atelier”.

Lo spasmo di alloggio è un termine tecnico per definire una contrattura del muscolo ciliare che impedisce un corretto aggiustamento della visione oculare, inducendo una falsa miopia, un disturbo di cui soffre lo stesso Arsen’ev. La difficoltà di concentrare lo sguardo, un vagabondare dell’occhio dal vicino al lontano è per l’autore metafora, mi pare di capire, dello sforzo necessario per incrociare una visione poetica che comprenda quello che ci è prossimo, l’individuale, l’esistenziale e insieme il sociale, il politico, quello che riguarda tutti  o per intrecciare un ambito creativo all’altro. Come leggiamo nella nota curata da Galvagni, infatti Arsen’ev afferma: “Se l’arte è uno stile disordinato di vita, con tele e bottiglie disseminate in un laboratorio e la scienza invece è un’occupazione da studiolo, accompagnata da occhiali e calvizie, passare dall’una all’altra è praticamente impossibile. Io tuttavia credo che entrambe queste sfere nel loro aspetto trascurato risultino essere un tradimento: l’intero che si è disgregato; e noi siamo in grado di opporci alla disgregazione della pratica integra in specialità isolate. Nietzsche esortava a una “scienza allegra” (Le gai savoir), e Marcel Duchamp parlava dell’arte del pensiero (cosa mentale); a me sembra che occorra orientarsi verso questi ideali incrociati…”. È una decisa dichiarazione di poetica, decisamente contemporanea e convintamente “civile”, tanto che Arsen’ev si pone come “legame vivo tra l’arte dell’avanguardia sovietica degli anni ‘20 del XX secolo e il pensiero materialistico contemporaneo” (Galvagni), con un approccio complessivo che forse potremmo definire postmoderno, se questo termine avesse un senso nella realtà della Russia di oggi. Come annota ancora Galvagni, “Pëtr Razumov afferma che Arsen’ev non scrive versi, ma crea la poesia. Le sue “uscite” marxiste e le meditazioni ironiche non appartengono al corpus prosodico della lirica russa, ma appaiono simili a quanto è esposto in un museo di arte non conformista: sono bombe linguistiche destinate a diventare un’arma nella lotta sociale per l’esistenza. D’altronde non sono prive degli attributi tipici della lirica tradizionale: l’ironia e la malinconia”. Arsen’ev recupera e rinnova una poesia “politica” che dopo la caduta dell’URSS era andata scemando, forse nella dissoluzione delle ideologie e degli schieramenti netti. “Arsen’ev – annota ancora Galvagni – è un poeta impegnato che formula una critica alle numerose forme di alienazione sociale e politica nella Russia contemporanea. Tanto nella poesia, quanto nell’attivismo politico, egli tenta di superare la futilità dei metodi tradizionali di resistenza. I versi civili non sono più significativi, come un tempo, essendo stati modificati dallo Stato e dagli interessi commerciali. La risposta di Arsen’ev è tesa a convertire il ruolo del poeta, che agisce come “reporter sul campo”, che produce frammenti di lingua quotidiana. Non a caso il testo La nota del traduttore [v. sotto] consiste di frasi ricavate dalla traduzione russa di un trattato di Wittgenstein: in un contesto trasformato, questi brandelli assumono nuovi significati, costringendo l’autore a riconsiderare la nozione tradizionale di originalità”. (g.c.) Continua a leggere

Danilo Mandolini – Anamorfiche, nota di Claudia Mirrione

Anamorfiche di Danilo Mandolini

Nota di lettura di Claudia Mirrione

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Danilo Mandolini (Osimo, AN, 1965) è noto nel mondo della poesia contemporanea italiana sia per il suo lavoro di editore sia per aver affiancato al suo lavoro editoriale quello di autore di produzione letteraria in prosa e in versi, apparsa su antologie, riviste, blog letterari e per cui ha ottenuto diversi riconoscimenti e premi letterari italiani. Anamorfiche, di cui parliamo in questa breve nota di lettura, è la sua ultima opera letteraria, uscita per i tipi di Arcipelago Itaca nel 2018.

Anamorfiche a tutta prima appare come un libello proteiforme. Ha, infatti, come tema la realtà, che proteiforme, in effetti, è e lo stesso titolo allude, come leggiamo in una nota posta al termine della raccolta, «alla tecnica denominata “anamorfosi” che nelle arti figurative è la rappresentazione di una scena in deformazione prospettica; questo per far sì che la visione corretta della stessa scena possa avvenire solo da un punto di osservazione diverso da quello frontale». Di conseguenza, come sostiene l’autore nella suddetta nota, l’uso del termine Anamorfiche è da motivare con la convinzione che la realtà e gli eventi di cui essa consta abbiano infinite interpretazioni, infinite sfaccettature, infinite prospettive. Tale varietas, che ci sembra la cifra che meglio identifica l’intera opera, è sia tematica che compositiva e permea entrambe le parti di cui si compone l’opera. Dopo il preambolo, Altrove, abbiamo infatti due macro-sezioni: Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni e dei silenzi e Altre psichedelie, le quali sono anche corredate da un itinerario fotografico costituito da nove immagini che rappresentano sprazzi di realtà urbane in costruzione, scampoli di street art, manifesti pubblicitari, interlocutorie scene di quotidiano in b/n.

Da un punto di vista tematico, Mandolini si muove tra due versanti estremamente diversi ma complementari in quanto, se da un lato sviluppa riflessioni filosofiche e concettuali sui fondamenti senza tempo dell’esistere, d’altro canto rimandi alla storia più recente ed attuale si intrecciano a tali riflessioni, si fanno spazio e guadagnano così ampi margini tra i componimenti. Continua a leggere

Davide Lucantoni – Mem, nota di Claudia Mirrione

Davide Lucantoni - MemDavide Lucantoni – Mem  – Nota critica di Claudia Mirrione

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Davide Lucantoni nasce a Sant’Omero (TE) nel 1992 e ha già pubblicato con Arcipelago Itaca Eccesso di Forma (2018), mentre di quest’anno è la sua seconda raccolta di poesie Mem (pubblicata sempre per i tipi di Arcipelago Itaca) su cui, in questa nota, vorrei soffermarmi proponendo un percorso di lettura. Premetto che non conoscevo Davide Lucantoni, complice la giovane età e l’ancora esigua produzione poetica contemporanea, ma, tra le diverse sillogi poetiche di cui mi sto occupando in questo momento, mi ha colpito soprattutto il titolo. Mem. Mentre leggevo le pagine della raccolta, mi chiedevo in cosa fossi incappata. E, progressivamente, ho realizzato di trovarmi di fronte ad una micro-catabasi, ad una descensio ad inferos formato tascabile, ma con dei tratti, del tutto originali, che cercherò di mettere in luce.

Lucantoni, privatamente, mi scrive: “l’idea della raccolta mi è venuta a un funerale, in pratica passeggiavo per il cimitero e mi sono trovato davanti questa lapide su cui era scritto in epigrafe “sarai per sempre vivo nei nostri cuori”. Tutta la raccolta credo abbia luogo in questo equivoco della prospettiva da cui si legge (vedi: L’uomo personificato I – p.20, cf. infra). Mem, appunto, è la lettera dell’alfabeto ebraico che sta per “Il luogo”, e che nella carta XIII dei tarocchi (vedi: XIII. La morte – p.64) la morte scrive in terra con la falce. Nella raccolta ho cercato di sviluppare le suggestioni e le implicazioni di questi elementi. Quindi direi che il luogo è il libro, il quale entrando in analogia con la lapide è anche il punto di arrivo del viaggio compiuto dai vari personaggi della raccolta (e anche il punto di arrivo del nostro viaggio), infatti mi sembra che non ci sia mai un vero spostamento nelle poesie sul camminare e sul procedere. Quello che sperano è di restare vivi nei nostri cuori, oppure noi lettori speriamo di poter vivere in loro, questo è l’equivoco, e dipende da dove ti trovi quando leggi l’iscrizione (dentro la tomba, davanti, a casa tua leggendo l’iscrizione dal mio libro?)”. Continua a leggere

Laura Liberale – Unità stratigrafiche

Laura Liberale - Unità stratigrafiche - Arcipelago Itaca 2020Laura Liberale – Unità stratigrafiche – Arcipelago Itaca 2020

 

Per una felice coincidenza ho avuto tra le mani questo ultimo libro di Laura Liberale dopo aver letto su La balena bianca la sua interessantissima recensione di Legati i maiali  di Teodora Mastrototaro (Marco Saya 2020).
La cosa c’entra  perché questo è il primo libro di Liberale che leggo, lo ammetto, e quella recensione in qualche modo mi aiuta a capire, per quanto sia sempre stato convinto che già il testo parli a sufficienza per sé. Ma a quanto pare anche le recensioni ci dicono qualcosa di chi le scrive, senza contare delle affinità di cui parleremo. In quel libro, opera singolare di poesia militante (non tanto e non solo nel senso poetico quanto in quello eticopolitico e ambientalista) si parla di morte, di morte procurata agli animali per farne cibo, di efferatezze crudeli nei loro confronti. Un libro che per quanto mi riguarda definirei disturbante (sebbene “davvero notevole”, come dice Liberale), anche per chi non sia, diciamo così, un convinto animalista. Verrebbe da ricordare (ma Liberale non lo fa) il Macello di Ivano Ferrari, un’opera che tuttavia – anche se per molti versi così simile a questa – mi pare da ascrivere ad un altro livello, quello di “un poeta fuori parametro e fuori asse” (Antonio Moresco),  nonché di un antesignano (Macello vede la sua prima apparizione nel 1995). Ma che cosa sottolinea Liberale del libro di Mastrototaro? Essenzialmente che la morte non ha una sua unicità, se solo la si considera da un punto di vista “altro”, di un altro, sia pur esso un animale deprivato della supposta coscienza della morte stessa, perché “per l’umano, il criterio ultimo di dignificazione del vivente è l’evidenza di quella parola-pensiero che, inutile dire, egli attribuisce a sé stesso”. Dal punto di vista del poeta, la questione è restituire a questa materia poetica “animale” o, come vedremo, disanimata, “il diritto alla parola, al nome, al verbo, all’attributo, al linguaggio delle parole” (Liberale cita qui il Derrida de L’animal que donc je suis) che l’uomo – direi io biblicamente – ha arrogato a sé stesso, e farlo senza tuttavia banalizzare, cioè “debordando nell’antropomorfizzazione, appellandosi a immediate ‘risposte’ viscerali prive di un profondo pensamento a monte”. Sull’altro versante, dalla parte opposta, sta – anche come rischio – una “reificazione totale” – per difesa dal dolore – dell’oggetto/soggetto senza che si lasci poeticamente aperto uno “spiraglio di relazione” con esso. E’ importante sottolineare che Liberale parla di Mastrototaro ma parla anche per sé, perché questa etica del linguaggio fa da pivot all’intero Unita stratigrafiche, traspare dalla cura significativa che Liberale mette nella scelta delle parole che usa, si sostanzia nell’approccio creativo alla sua propria materia poetica. Che è la morte, la morte osservata (Liberale è, tra l’altro, tanatologa, termine che ha peraltro diverse implicazioni), analizzata come compresenza ed esito (destino) di tutte le creature viventi, cessazione e tuttavia permanenza, fenomeno che travalica le dicotomie uomo/animale, vivi/morti, uccisori/uccisi, immagine ed estinzione di essa, conservazione e oblio, fascino e timore. Ed anche come non-comunicazione (comunione) o altresì  comunicazione “altra”, almeno quanto lo è una contemplazione, che necessiti in qualche misura di un “mezzo”, come vedremo. E tuttavia da tenere a debita distanza, poiché la morte è anche, da sempre, un altro mondo, più prossimo al metafisico, e perciò perturbante.

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Sandro Pecchiari – Desunt nonnulla, nota critica di Claudia Mirrione

Desunt nonnulla (piccole omissioni) (Arcipelago Itaca 2020) di Sandro PecchiariSandro Pecchiari – Desunt nonnulla (piccole omissioni), nota critica di Claudia Mirrione.

Come scrive Giovanna Rosadini Salom nella prefazione a Desunt nonnulla (piccole omissioni) (Arcipelago Itaca 2020) di Sandro Pecchiari, la raccolta è “un diario di viaggio dentro una sofferta ospedalizzazione, protagonista la malattia del secolo”. Effettivamente, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio resoconto in versi delle emozioni provate dal poeta triestino Sandro Pecchiari, già affermato scrittore e traduttore e/o curatore da e in inglese di alcune importanti antologie poetiche, nel corso di un suo ricovero ospedaliero. Il ricovero, come è dichiarato esplicitamente in una nota finale, è finalizzato alla rimozione di quello che, nel corso della raccolta, viene indicato come un “figlio”, un adenocarcinoma, germinato e generato da un “padre”, tema importante su cui ritorneremo (le liriche, infatti, sono suddivise in sezioni che raccontano tutto l’iter ospedaliero: PRIMA DEI GIORNI, GIORNO ZERO, GIORNO UNO, GIORNO DUE, GIORNO TRE, GIORNO D’USCITA, DOPO I GIORNI – AFTER THE DAYS).

L’incipit dell’intera raccolta è decisivo: “l’aria nutre il lupo che ci azzanna”. Chi è questo lupo che azzanna, che è dentro il corpo e che sopravvive in esso, respirando e vivendo attraverso la stessa aria che inaliamo? Il lupo è il male? Il pericolo cui ci stiamo sottoponendo, l’andare incontro ad un’operazione rischiosa? Sì, il lupo è tutto questo e, pertanto, produce un forte senso di straniamento e di perplessità nel riconoscere se stessi, la propria patologia, e anche i propri consanguinei (“che occhi grandi che hai” dice il poeta, p. 21 con nota a p. 74), ma per Pecchiari è anche altro, tanto da arrivare a ribaltare la consueta, insopportabile frase, che viene rivolta a chi sta andando verso la sala operatoria, e cioè “in bocca al lupo!”. Dice il poeta: “andrà bene / che sia un buon lupo / che sia un bel viaggio / che stiamo in bocca / a un qualsiasi dio”. Come, infatti, Pecchiari spiega nella nota corrispondente, egli si augura di essere preso “con amore dalla mamma lupa ed essere portati da una tana all’altra al sicuro dai pericoli. Doppio augurio quindi: di affrontare i rischi e di saper sopravvivere al rischio mediante la protezione. La risposta alla frase ‘in bocca al lupo’ più opportuna non sarebbe quindi ‘crepi il lupo’, ma ‘viva il lupo’.” Abbiamo a che fare con un lupo bifronte quindi, malattia che si fa carne della nostra carne e che azzanna dal di dentro, ma che, nella sua rilettura, si fa anche salvezza, quasi una divinità, una divinità che può sì essere protettiva, ma che si può concretare in sofferenza e passione (e in questo senso vanno interpretati tutti i riferimenti scritturali, spesso in latino, e specialmente quelli alla vicenda di Cristo, disseminati nel corso della raccolta e spiegati accuratamente nelle note finali). Continua a leggere

Francesco Lorusso – Maceria, nota di G. Cerrai

Francesco Lorusso - Maceria - Arcipelago Itaca, 2020Francesco Lorusso – Maceria – Arcipelago Itaca, 2020
Ho già incrociato la poesia di Francesco Lorusso, a proposito del suo libro del 2014 L’Ufficio del personale (ed. La vita Felice), e ne ho parlato QUI. Leggo ora questo suo ultimo lavoro, dal titolo quanto mai impegnativo. La maceria, infatti, richiama qualcosa di tragicamente definitivo, un esito ultimo in relazione al quale non si può fare altro che ricostruirvi qualcosa, o abbandonarlo, migrando metaforicamente altrove. Oppure richiama alla mente dei “relitti” nobili che, come in Baudelaire, non hanno trovato cittadinanza altrove. In effetti questi “épaves” sembrano essere – si legge nella prefazione di Giacomo Leronni – quanto l’autore ha raccolto “recuperando/ri-trattando testi che ri-salgono a circa dieci anni fa”. Insomma, presupposti che generano, volenti o nolenti, qualche aspettativa.

Ma per la verità ho avuto un primo moto di delusione alla lettura. Almeno in riferimento all’unica pietra di paragone che ho, il libro citato all’inizio, perché i primi testi che qui si incontrano mi sono apparsi alquanto petrosi, di una certa difficoltà di comprensione, una specie di salto nell’oscurità. Per quanto abbia una certa esperienza come lettore di poesia, confesso che diverse volte ho avuto qualche problema a mettere a fuoco il nucleo del testo (lo stesso prefatore scrive, pur alla fine assolvendo: “questa scrittura che spessissimo sfiora l’incomprensibile e certamente denuncia lo slogamento del senso che è poi lo slogamento dell’esistenza”). Facciamo un piccolo esempio:

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