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Pavel Arsen’ev – Lo spasmo di alloggio

Pavel Arsen’ev – Lo spasmo di alloggio, a cura di P. Galvagni – Arcipelago Itaca, 2021Pavel Arsen’ev - Lo spasmo di alloggio, a cura di Paolo Galvagni - Arcipelago Itaca, 2021

Davvero interessante questo libro antologico curato da Paolo Galvagni, traduttore dal russo (e in russo) di importanti autori del Novecento e contemporanei (da lui tradotto avevo letto e recensito per la rivista “Menabò” il misterioso I frutti della meditazione di Koz’ma Prutkov, altrettanto interessante). Pavel Arsen’ev è nato nel 1986 a Leningrado / San Pietroburgo dove vive, a parte residenze di studio all’estero (è attualmente dottorando all’Università di Ginevra), è vincitore del prestigioso Premio letterario “Andrej Belyj”, ed è tradotto negli USA e in italiano nel volume Tutta la pienezza del mio petto, poesia giovane a San Pietroburgo (Lietocolle 2015, trad. P. Galvagni) e nelle riviste “Le voci della luna” e “Atelier”.

Lo spasmo di alloggio è un termine tecnico per definire una contrattura del muscolo ciliare che impedisce un corretto aggiustamento della visione oculare, inducendo una falsa miopia, un disturbo di cui soffre lo stesso Arsen’ev. La difficoltà di concentrare lo sguardo, un vagabondare dell’occhio dal vicino al lontano è per l’autore metafora, mi pare di capire, dello sforzo necessario per incrociare una visione poetica che comprenda quello che ci è prossimo, l’individuale, l’esistenziale e insieme il sociale, il politico, quello che riguarda tutti  o per intrecciare un ambito creativo all’altro. Come leggiamo nella nota curata da Galvagni, infatti Arsen’ev afferma: “Se l’arte è uno stile disordinato di vita, con tele e bottiglie disseminate in un laboratorio e la scienza invece è un’occupazione da studiolo, accompagnata da occhiali e calvizie, passare dall’una all’altra è praticamente impossibile. Io tuttavia credo che entrambe queste sfere nel loro aspetto trascurato risultino essere un tradimento: l’intero che si è disgregato; e noi siamo in grado di opporci alla disgregazione della pratica integra in specialità isolate. Nietzsche esortava a una “scienza allegra” (Le gai savoir), e Marcel Duchamp parlava dell’arte del pensiero (cosa mentale); a me sembra che occorra orientarsi verso questi ideali incrociati…”. È una decisa dichiarazione di poetica, decisamente contemporanea e convintamente “civile”, tanto che Arsen’ev si pone come “legame vivo tra l’arte dell’avanguardia sovietica degli anni ‘20 del XX secolo e il pensiero materialistico contemporaneo” (Galvagni), con un approccio complessivo che forse potremmo definire postmoderno, se questo termine avesse un senso nella realtà della Russia di oggi. Come annota ancora Galvagni, “Pëtr Razumov afferma che Arsen’ev non scrive versi, ma crea la poesia. Le sue “uscite” marxiste e le meditazioni ironiche non appartengono al corpus prosodico della lirica russa, ma appaiono simili a quanto è esposto in un museo di arte non conformista: sono bombe linguistiche destinate a diventare un’arma nella lotta sociale per l’esistenza. D’altronde non sono prive degli attributi tipici della lirica tradizionale: l’ironia e la malinconia”. Arsen’ev recupera e rinnova una poesia “politica” che dopo la caduta dell’URSS era andata scemando, forse nella dissoluzione delle ideologie e degli schieramenti netti. “Arsen’ev – annota ancora Galvagni – è un poeta impegnato che formula una critica alle numerose forme di alienazione sociale e politica nella Russia contemporanea. Tanto nella poesia, quanto nell’attivismo politico, egli tenta di superare la futilità dei metodi tradizionali di resistenza. I versi civili non sono più significativi, come un tempo, essendo stati modificati dallo Stato e dagli interessi commerciali. La risposta di Arsen’ev è tesa a convertire il ruolo del poeta, che agisce come “reporter sul campo”, che produce frammenti di lingua quotidiana. Non a caso il testo La nota del traduttore [v. sotto] consiste di frasi ricavate dalla traduzione russa di un trattato di Wittgenstein: in un contesto trasformato, questi brandelli assumono nuovi significati, costringendo l’autore a riconsiderare la nozione tradizionale di originalità”. (g.c.) Continua a leggere

Danilo Mandolini – Anamorfiche, nota di Claudia Mirrione

Anamorfiche di Danilo Mandolini

Nota di lettura di Claudia Mirrione

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Danilo Mandolini (Osimo, AN, 1965) è noto nel mondo della poesia contemporanea italiana sia per il suo lavoro di editore sia per aver affiancato al suo lavoro editoriale quello di autore di produzione letteraria in prosa e in versi, apparsa su antologie, riviste, blog letterari e per cui ha ottenuto diversi riconoscimenti e premi letterari italiani. Anamorfiche, di cui parliamo in questa breve nota di lettura, è la sua ultima opera letteraria, uscita per i tipi di Arcipelago Itaca nel 2018.

Anamorfiche a tutta prima appare come un libello proteiforme. Ha, infatti, come tema la realtà, che proteiforme, in effetti, è e lo stesso titolo allude, come leggiamo in una nota posta al termine della raccolta, «alla tecnica denominata “anamorfosi” che nelle arti figurative è la rappresentazione di una scena in deformazione prospettica; questo per far sì che la visione corretta della stessa scena possa avvenire solo da un punto di osservazione diverso da quello frontale». Di conseguenza, come sostiene l’autore nella suddetta nota, l’uso del termine Anamorfiche è da motivare con la convinzione che la realtà e gli eventi di cui essa consta abbiano infinite interpretazioni, infinite sfaccettature, infinite prospettive. Tale varietas, che ci sembra la cifra che meglio identifica l’intera opera, è sia tematica che compositiva e permea entrambe le parti di cui si compone l’opera. Dopo il preambolo, Altrove, abbiamo infatti due macro-sezioni: Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni e dei silenzi e Altre psichedelie, le quali sono anche corredate da un itinerario fotografico costituito da nove immagini che rappresentano sprazzi di realtà urbane in costruzione, scampoli di street art, manifesti pubblicitari, interlocutorie scene di quotidiano in b/n.

Da un punto di vista tematico, Mandolini si muove tra due versanti estremamente diversi ma complementari in quanto, se da un lato sviluppa riflessioni filosofiche e concettuali sui fondamenti senza tempo dell’esistere, d’altro canto rimandi alla storia più recente ed attuale si intrecciano a tali riflessioni, si fanno spazio e guadagnano così ampi margini tra i componimenti. Continua a leggere

Davide Lucantoni – Mem, nota di Claudia Mirrione

Davide Lucantoni - MemDavide Lucantoni – Mem  – Nota critica di Claudia Mirrione

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Davide Lucantoni nasce a Sant’Omero (TE) nel 1992 e ha già pubblicato con Arcipelago Itaca Eccesso di Forma (2018), mentre di quest’anno è la sua seconda raccolta di poesie Mem (pubblicata sempre per i tipi di Arcipelago Itaca) su cui, in questa nota, vorrei soffermarmi proponendo un percorso di lettura. Premetto che non conoscevo Davide Lucantoni, complice la giovane età e l’ancora esigua produzione poetica contemporanea, ma, tra le diverse sillogi poetiche di cui mi sto occupando in questo momento, mi ha colpito soprattutto il titolo. Mem. Mentre leggevo le pagine della raccolta, mi chiedevo in cosa fossi incappata. E, progressivamente, ho realizzato di trovarmi di fronte ad una micro-catabasi, ad una descensio ad inferos formato tascabile, ma con dei tratti, del tutto originali, che cercherò di mettere in luce.

Lucantoni, privatamente, mi scrive: “l’idea della raccolta mi è venuta a un funerale, in pratica passeggiavo per il cimitero e mi sono trovato davanti questa lapide su cui era scritto in epigrafe “sarai per sempre vivo nei nostri cuori”. Tutta la raccolta credo abbia luogo in questo equivoco della prospettiva da cui si legge (vedi: L’uomo personificato I – p.20, cf. infra). Mem, appunto, è la lettera dell’alfabeto ebraico che sta per “Il luogo”, e che nella carta XIII dei tarocchi (vedi: XIII. La morte – p.64) la morte scrive in terra con la falce. Nella raccolta ho cercato di sviluppare le suggestioni e le implicazioni di questi elementi. Quindi direi che il luogo è il libro, il quale entrando in analogia con la lapide è anche il punto di arrivo del viaggio compiuto dai vari personaggi della raccolta (e anche il punto di arrivo del nostro viaggio), infatti mi sembra che non ci sia mai un vero spostamento nelle poesie sul camminare e sul procedere. Quello che sperano è di restare vivi nei nostri cuori, oppure noi lettori speriamo di poter vivere in loro, questo è l’equivoco, e dipende da dove ti trovi quando leggi l’iscrizione (dentro la tomba, davanti, a casa tua leggendo l’iscrizione dal mio libro?)”. Continua a leggere

Laura Liberale – Unità stratigrafiche

Laura Liberale - Unità stratigrafiche - Arcipelago Itaca 2020Laura Liberale – Unità stratigrafiche – Arcipelago Itaca 2020

 

Per una felice coincidenza ho avuto tra le mani questo ultimo libro di Laura Liberale dopo aver letto su La balena bianca la sua interessantissima recensione di Legati i maiali  di Teodora Mastrototaro (Marco Saya 2020).
La cosa c’entra  perché questo è il primo libro di Liberale che leggo, lo ammetto, e quella recensione in qualche modo mi aiuta a capire, per quanto sia sempre stato convinto che già il testo parli a sufficienza per sé. Ma a quanto pare anche le recensioni ci dicono qualcosa di chi le scrive, senza contare delle affinità di cui parleremo. In quel libro, opera singolare di poesia militante (non tanto e non solo nel senso poetico quanto in quello eticopolitico e ambientalista) si parla di morte, di morte procurata agli animali per farne cibo, di efferatezze crudeli nei loro confronti. Un libro che per quanto mi riguarda definirei disturbante (sebbene “davvero notevole”, come dice Liberale), anche per chi non sia, diciamo così, un convinto animalista. Verrebbe da ricordare (ma Liberale non lo fa) il Macello di Ivano Ferrari, un’opera che tuttavia – anche se per molti versi così simile a questa – mi pare da ascrivere ad un altro livello, quello di “un poeta fuori parametro e fuori asse” (Antonio Moresco),  nonché di un antesignano (Macello vede la sua prima apparizione nel 1995). Ma che cosa sottolinea Liberale del libro di Mastrototaro? Essenzialmente che la morte non ha una sua unicità, se solo la si considera da un punto di vista “altro”, di un altro, sia pur esso un animale deprivato della supposta coscienza della morte stessa, perché “per l’umano, il criterio ultimo di dignificazione del vivente è l’evidenza di quella parola-pensiero che, inutile dire, egli attribuisce a sé stesso”. Dal punto di vista del poeta, la questione è restituire a questa materia poetica “animale” o, come vedremo, disanimata, “il diritto alla parola, al nome, al verbo, all’attributo, al linguaggio delle parole” (Liberale cita qui il Derrida de L’animal que donc je suis) che l’uomo – direi io biblicamente – ha arrogato a sé stesso, e farlo senza tuttavia banalizzare, cioè “debordando nell’antropomorfizzazione, appellandosi a immediate ‘risposte’ viscerali prive di un profondo pensamento a monte”. Sull’altro versante, dalla parte opposta, sta – anche come rischio – una “reificazione totale” – per difesa dal dolore – dell’oggetto/soggetto senza che si lasci poeticamente aperto uno “spiraglio di relazione” con esso. E’ importante sottolineare che Liberale parla di Mastrototaro ma parla anche per sé, perché questa etica del linguaggio fa da pivot all’intero Unita stratigrafiche, traspare dalla cura significativa che Liberale mette nella scelta delle parole che usa, si sostanzia nell’approccio creativo alla sua propria materia poetica. Che è la morte, la morte osservata (Liberale è, tra l’altro, tanatologa, termine che ha peraltro diverse implicazioni), analizzata come compresenza ed esito (destino) di tutte le creature viventi, cessazione e tuttavia permanenza, fenomeno che travalica le dicotomie uomo/animale, vivi/morti, uccisori/uccisi, immagine ed estinzione di essa, conservazione e oblio, fascino e timore. Ed anche come non-comunicazione (comunione) o altresì  comunicazione “altra”, almeno quanto lo è una contemplazione, che necessiti in qualche misura di un “mezzo”, come vedremo. E tuttavia da tenere a debita distanza, poiché la morte è anche, da sempre, un altro mondo, più prossimo al metafisico, e perciò perturbante.

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Sandro Pecchiari – Desunt nonnulla, nota critica di Claudia Mirrione

Desunt nonnulla (piccole omissioni) (Arcipelago Itaca 2020) di Sandro PecchiariSandro Pecchiari – Desunt nonnulla (piccole omissioni), nota critica di Claudia Mirrione.

Come scrive Giovanna Rosadini Salom nella prefazione a Desunt nonnulla (piccole omissioni) (Arcipelago Itaca 2020) di Sandro Pecchiari, la raccolta è “un diario di viaggio dentro una sofferta ospedalizzazione, protagonista la malattia del secolo”. Effettivamente, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio resoconto in versi delle emozioni provate dal poeta triestino Sandro Pecchiari, già affermato scrittore e traduttore e/o curatore da e in inglese di alcune importanti antologie poetiche, nel corso di un suo ricovero ospedaliero. Il ricovero, come è dichiarato esplicitamente in una nota finale, è finalizzato alla rimozione di quello che, nel corso della raccolta, viene indicato come un “figlio”, un adenocarcinoma, germinato e generato da un “padre”, tema importante su cui ritorneremo (le liriche, infatti, sono suddivise in sezioni che raccontano tutto l’iter ospedaliero: PRIMA DEI GIORNI, GIORNO ZERO, GIORNO UNO, GIORNO DUE, GIORNO TRE, GIORNO D’USCITA, DOPO I GIORNI – AFTER THE DAYS).

L’incipit dell’intera raccolta è decisivo: “l’aria nutre il lupo che ci azzanna”. Chi è questo lupo che azzanna, che è dentro il corpo e che sopravvive in esso, respirando e vivendo attraverso la stessa aria che inaliamo? Il lupo è il male? Il pericolo cui ci stiamo sottoponendo, l’andare incontro ad un’operazione rischiosa? Sì, il lupo è tutto questo e, pertanto, produce un forte senso di straniamento e di perplessità nel riconoscere se stessi, la propria patologia, e anche i propri consanguinei (“che occhi grandi che hai” dice il poeta, p. 21 con nota a p. 74), ma per Pecchiari è anche altro, tanto da arrivare a ribaltare la consueta, insopportabile frase, che viene rivolta a chi sta andando verso la sala operatoria, e cioè “in bocca al lupo!”. Dice il poeta: “andrà bene / che sia un buon lupo / che sia un bel viaggio / che stiamo in bocca / a un qualsiasi dio”. Come, infatti, Pecchiari spiega nella nota corrispondente, egli si augura di essere preso “con amore dalla mamma lupa ed essere portati da una tana all’altra al sicuro dai pericoli. Doppio augurio quindi: di affrontare i rischi e di saper sopravvivere al rischio mediante la protezione. La risposta alla frase ‘in bocca al lupo’ più opportuna non sarebbe quindi ‘crepi il lupo’, ma ‘viva il lupo’.” Abbiamo a che fare con un lupo bifronte quindi, malattia che si fa carne della nostra carne e che azzanna dal di dentro, ma che, nella sua rilettura, si fa anche salvezza, quasi una divinità, una divinità che può sì essere protettiva, ma che si può concretare in sofferenza e passione (e in questo senso vanno interpretati tutti i riferimenti scritturali, spesso in latino, e specialmente quelli alla vicenda di Cristo, disseminati nel corso della raccolta e spiegati accuratamente nelle note finali). Continua a leggere

Francesco Lorusso – Maceria, nota di G. Cerrai

Francesco Lorusso - Maceria - Arcipelago Itaca, 2020Francesco Lorusso – Maceria – Arcipelago Itaca, 2020
Ho già incrociato la poesia di Francesco Lorusso, a proposito del suo libro del 2014 L’Ufficio del personale (ed. La vita Felice), e ne ho parlato QUI. Leggo ora questo suo ultimo lavoro, dal titolo quanto mai impegnativo. La maceria, infatti, richiama qualcosa di tragicamente definitivo, un esito ultimo in relazione al quale non si può fare altro che ricostruirvi qualcosa, o abbandonarlo, migrando metaforicamente altrove. Oppure richiama alla mente dei “relitti” nobili che, come in Baudelaire, non hanno trovato cittadinanza altrove. In effetti questi “épaves” sembrano essere – si legge nella prefazione di Giacomo Leronni – quanto l’autore ha raccolto “recuperando/ri-trattando testi che ri-salgono a circa dieci anni fa”. Insomma, presupposti che generano, volenti o nolenti, qualche aspettativa.

Ma per la verità ho avuto un primo moto di delusione alla lettura. Almeno in riferimento all’unica pietra di paragone che ho, il libro citato all’inizio, perché i primi testi che qui si incontrano mi sono apparsi alquanto petrosi, di una certa difficoltà di comprensione, una specie di salto nell’oscurità. Per quanto abbia una certa esperienza come lettore di poesia, confesso che diverse volte ho avuto qualche problema a mettere a fuoco il nucleo del testo (lo stesso prefatore scrive, pur alla fine assolvendo: “questa scrittura che spessissimo sfiora l’incomprensibile e certamente denuncia lo slogamento del senso che è poi lo slogamento dell’esistenza”). Facciamo un piccolo esempio:

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Fernando Lena – Black Sicily, nota di Giacomo Cerrai

Fernando Lena – Black Sicily – Arcipelago Itaca, 2020Fernando Lena - Black Sicily - Arcipelago Itaca, 2020
Black Sicily, Sicilia nera. Avrebbe potuto essere Sicily blues, legittimamente, per sottolineare ciò che è questo libro, ovvero una raccolta pubblica e privata di dolori, malinconie, accuse, invettive, rimpianti, perdite, assenze, fallimenti, errori che trovano ristoro e assoluzione nella scrittura, nella “qualità della scrittura, che si traduce in un linguaggio teso e vivido ma non privo di epifanie sorprendenti e di dolcezze improvvise”, nel suo “valore di verità” (Francesco Tomada, nella prefazione). La Sicilia è sfondo e trama, potremmo definirla come presenza principale se non avesse la peculiarità, qui, di essere per così dire una sostanza endemica, una materia intridente eppure sfumata, indissolvibile da sé stessa, dagli uomini e donne che la popolano, dal poeta che la descrive e descrive in essa la propria “nerezza”, le proprie private ombre, la propria discesa ad inferos (“anch’io scrivo il mio nome all’inferno”). Forse, diciamo, la Sicilia come contenitore ideale e insieme concreto di questo nero esistenziale, che qui non è (il “vissuto”) un modo di dire perché, da quel che è dato sapere, Lena parla di quel che conosce, di quello che ha vissuto e sofferto, del suo passato di tossicodipendente e dei suoi lutti, e se c’è spazio qui per l’immaginazione è quella quota di essa che la poesia porta con sé, nel momento in cui metamorfizza il reale o lo colora con quel tanto di lirico/elegiaco che in queste poesie rinveniamo (le “epifanie sorprendenti” e le “dolcezze improvvise” che Tomada segnala) e che rafforza quel valore di verità già citato. Scrive l’autore in una nota: “Questo libro è stato pensato e scritto come un breve romanzo in versi. C’è la storia di un dialogo tra il figlio e il padre dentro la storia di un’isola che vanifica una quantità di esistenze incapaci di essere tali oppure felici nella diversità d’esistere”. E tuttavia, scrive altrove, “dalla mia voce eppure / arriva lo sguardo di un estraneo / che cerca un’isola e vede / una croce di parole”. E’ questo forse il rapporto definitivo, di una singolare simbiosi, che innerva, anche là dove quella terra non è nemmeno nominata o è solo un’aura serotina, il “romanzo breve” di Lena. Mentre invece il padre scomparso è palese, un evidente deuteragonista con cui il dialogo è vivo ancora e ancora intensamente poetico, una presenza palesemente identificata da un forte “tu” allocutivo in testi segnati graficamente dal corsivo, a sua volta paradigmatico di un livello colloquiale, intimo e pensoso, di un discorso entre nous (al padre è dedicata una sorta di struggente lettera, Buon compleanno, in chiusura del libro). L’andamento narrativo invece è assegnato ai fatti, alle storie, ai ricordi di giornate vissute velocemente, ai personaggi che attraversano questi brani di racconto, servono da pivot ad un rimuginare sulla vita come una serie di svolte prese o non prese, e che sono un po’ specchio un po’ emblemi di quella stessa vita (“Antonio il mangiagatti”; “Lucio / che già dalle tre del pomeriggio mente / sulla morte che ha ingurgitato”; “Elisa [che] / sarò come quel Rimbaud / che abbiamo studiato”; “Matteo [che] le passa così / quelle ore sottratte alla scuola / davanti a un bowling di lattine / con una 7,65 caricata a dovere”; “tuo fratello Luciano, / per un finocchio nascere tra questi ingorghi di degrado / è un viaggio d’ematomi”; o Erminia, a cui è dedicata una delle poesie più significative – v. sotto). Quello che interessa di Lena è da una parte lo sguardo smagato ficcato sulle cose e sulla gente, su una assenza di paesaggio ovvero di una natura che non sia quella complessa e insieme elementare dell’umano; dall’altra una scrittura serrata, che nota anche Tomada, che è così perché è una copia a contatto del tempo veloce e serrato che la sostiene, del tempo/vita che non concede troppa requie né di concedersi, nell’immediatezza della comunicazione, troppe retoriche (ed è quindi anche una questione di ritmi, di costruzione di scene per frammenti iconici ecc.). Cose quest’ultime che ci portano anche ad un preciso carattere di “presenza” dell’autore, che potremmo definire di tipo “altruistico”: anche dove emerge l’accento lirico/elegiaco Lena non si pianta al centro del testo, evita che esso ruoti su di lui, il suo non è il lamento per un dolore esclusivamente privato, è semmai un compianto (con quello che di etimologicamente collettivo comporta) sull’assenza, sulla cesura della morte (“dopo ogni morte / la frattura è un tramonto / che non puoi condividere”) o sulla sconfitta. E’ in questo sentimento del tragico, a suo modo classico, che troviamo in molti testi significativi di questo libro, che sta forse il suo carattere più forte. (g. cerrai) 

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Giampaolo De Pietro – Dal cane corallo, con una lettera di Nadia Agustoni

dal cane corallo - foto chiara gini

Pubblico qui una nota/lettera di Nadia Agustoni su Dal cane corallo di Giampaolo De Pietro (Arcipelago Itaca, 2019, disegni di Francesco Balsamo). Conosco Giampaolo da un po’, tanto da poter dire che ha una visione poetica più ampia  di quanto possa apparire dai versi di questa raccolta, la cui ispirazione comunque è tutt’altro che occasionale o minimale, ma risponde semmai ad un atteggiamento interlocutorio con la realtà ed una curiosità di fondo che ho sempre riscontrato in lui. Basti dare un’occhiata anche soltanto a quanto è apparso nel tempo su questo blog (v. QUI). Vi si nota sempre una disposizione – più che intellettuale – d’animo, un animo per così dire – appunto – “ben disposto” verso il presentarsi, l’affacciarsi di quel quid di realtà che ci è concesso, per immagini e coincidenze, o “refoli” (Agustoni). Che Giampaolo reputa per lo più fortunati, e per ciò stesso rilevanti, esemplari dal punto di vista poetico, portatrici in ogni caso di un valore, di una percezione, come in certi scatti fotografici che ama, nei quali più che una presenza umana c’è un incrocio di linee che in fondo, come quelle della mano, sono simbolicamente destinali. E allora i fatti, le immagini o – perché no – un cane, sono per il poeta media interpretabili, segnali o messaggi non dissimili da una aruspicina, ma per fortuna spesso ilare e ottimista, o in fondo accolta, come scrive Nadia Agustoni, “con grande innocenza” (g.c.)

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A proposito del tuo libro Dal cane corallo

Una lettera

Caro Giampaolo,

questa non è una letterina di Natale, porta solo qualche parola, qualche impressione. Poche frasi insomma.

Siamo tutti un po’ obliqui o forse c’è in noi un’incrinatura rispetto agli animali. Li comprendiamo si e no. Nel tuo tenerissimo libro parli con Tobia il tuo “cane corallo” con parole vicine a un ideale di fanciullino. Aggiungo subito, per evitare equivoci, che il richiamo a Pascoli si ferma qui. Tu vai per la tua strada di poeta e di ragazzo, lasciando in sospeso molte cose, lasciandole intuire:

“l’alba ha dato/ una febbre al mare/ e lui l’ha scaldata in/ un soffio a bocca aperta/ col suo vento di primizia/ del suo fine agosto/ non triste” p.19

Vivi – da terra/ vivo – il col-ore. Da/ quando ti ho/ conosciuto sono/ prato…”p.22

mi faccio passeggio coinvolto/ dal fiuto del cane Tobia ma/mi distraggo per mano dell’aria…”p.26

E’ questa realtà a colpire, quel lasciarsi portare da un refolo, trascinare dal cane alla soglia del suo mondo, riconoscendo infine, ma con grande innocenza, che oltre un certo punto ci si arrende all’umana indecisione o al comprendere che ci manca una dimensione più naturale o se preferisci terrena. Dimensione che appare e scompare nelle nostre vite e se non ancora del tutto dissolta, pure è subordinata a internet, al lavoro alienato, alla sorpresa dei viaggi su Marte coi robot e all’avvento dei droni. Viviamo con le macchine e comunichiamo tra noi con i computer e gli smartphone, il libro stesso oggetto di lusso rispetto alla velocità con cui si invia un PDF, un SMS o un ebook.

Se ci pensiamo c’è un notevole smarrimento. Incontrare un’altra dimensione, con gli animali, gli alberi, la montagna o il mare ci ridà fiato: “tu non sai/ quanto fiato mi dai” è il tuo incipit. Tutti quanti, quando perdiamo qualcosa di essenziale e profondo, anche quando non riusciamo a capire cosa sia, cerchiamo questa cosa ovunque, magari in modi inusuali. La ritroviamo solo in certi momenti, come il tuo libro trasmette, poi di nuovo azzoppati torniamo a noi stessi, ma con un po’ di realtà in più.

Allora anche le parole sono un esperimento, i frammenti toccano linee da esplorare e strati di mondo si muovono, perfettamente in sintonia con una voce attenta, capace di rischiare e di ricrearsi.

Con affetto. Nadia Agustoni

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Anna Maria Curci – Nei giorni per versi, nota di Rita Pacilio

Nei giorni per versi di Anna Maria Curci – Arcipelago Itaca Edizioni, 2019anna maria curci - nei giorni per versi

Le quartine in endecasillabo di Nei giorni per versi di Anna Maria Curci tracciano una mappa poetica che indaga meticolosamente la parola per aprire strade al lettore – oserei dire, voragini – nella conoscenza e nell’inconoscibile. Ciò accade sapientemente sfrondando le interpretazioni dei segni superflui che oscurerebbero la direzione verso la verifica dell’animo umano e si compie con estrema lucida sintesi per afferrarne la sostanza. Figlia adulta della Poesia, l’autrice, mette le mani nella sua coscienza pensante (nell’introduzione ci parla di un percorso intimo, un diario dal 2013 al 2019), in un lasso temporale in cui l’illuminazione del senso riconosce alla memoria la verità fragile degli accadimenti esistenziali (… mutevole com’ero e come sono). Il ritmo metrico delle centosettantatré poesie diventa l’espressione limpida di ogni cosa a cui viene assegnato un posto agibile, un nome alternativo, uno sguardo garbato, un luogo di esecuzione devoto all’arrivo e alla partenza dell’esistente: Un file sbagliato annesso ad un messaggio/mi porta indietro all’epoca glaciale./Indietro o avanti? Mentre righe scrollo/m’avvedo: pozza immota è quello spazio. Il segreto delle parole forgiano la struttura linguistica custodendo l’ideale del reale e i fondamenti invisibili. Le chiuse sono tuoni che risuonano la necessità di una condizione umana non riscattata (… la bottega di sogni a cielo aperto), una dimora esistenziale mai definitiva (… saprai che la tua casa non è il mondo), il rovesciamento feroce e universale di un’attesa (… è l’allarme perpetuo e ignorato). (rita pacilio)

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Gianluca D’Andrea – Forme del tempo (letture 2016 – 2018)

Gianluca D’Andrea – Forme del tempo (letture 2016 – 2018)Gianluca D’Andrea – Forme del tempo (Letture 2016-2018) – Arcipelago Itaca 2019
Pubblico qui alcuni brani tratti dall’ultimo lavoro di Gianluca D’Andrea, un libro singolare e assai godibile in cui l’autore collaziona versi e brani in prosa, in forma di particolare prosimetro. Particolare quanto può esserlo una personalissima wunderkammer, nella quale non tutti i versi sono suoi ma quelli che non lo sono, spesso sotto forma di citazioni di varia misura, fungono da spunto, ossatura, sostegno di “meraviglia” per le riflessioni – in forma di critica, in forma di arte, in forma di nuovi versi – con cui “si tenta una ricognizione sul presente, ma non solo, che prende avvio dalle esperienze di lettura per incrociarsi con altre esperienze, assolutamente personali, dell’autore” (D’andrea nella Premessa minima). E dove comunque – forse il tratto più interessante – “indistinto è il margine che dovrebbe separare il soggetto della percezione dalla realtà percepita e dagli strumenti che consentono l’accesso al contesto”. Un “margine sfumato”, anche graficamente, che caratterizza al lettore questo libro come unitario pure nei “prestiti”, che appaiono come assimilati, divorati quali elementi dialettici forti dalla riflessione stessa di D’Andrea. Che non ha nulla di aforistico o frammentario, per quanto il frammento sia un genere nobilissimo, ma che esercita semmai una raffinata arte del leggere pensoso e appassionato (o del vedere, qui si parla anche di cinema, ma in modo alquanto inaspettato), lavorando soprattutto sulla profondità dei concetti che si sviluppano da quegli spunti, sulle idee anche apparentemente collaterali o trasversali (e quindi di una certa dimensione filosofica, rizomatosa) che da quella riflessione scaturiscono. La forma migliore di critica, perfino quando si scrive di sé, del proprio lavoro o semplicemente di quanta influenza la scrittura abbia o abbia avuto nella propria vita. Ne esce un libro che per così dire non si chiude, non si chiude al lettore, che da quasi ognuna delle 140 pagine può trarre spunti e suggestioni preziose da approfondire ulteriormente. (g. cerrai)

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