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Roberto Marcòni – Il paese invisibile e il passo per inventarlo, nota di R. Renzi

Roberto Marconi - Il paese invisibile e il passo per inventarloIl paese invisibile e il passo per inventarlo di Roberto Marcòni: un percorso attraverso la paesologia dello spirito

La presentazione che si è tenuta il 14 luglio 2023 presso la Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo, all’interno della rassegna Libri in Piazza, del volume di Roberto Marcòni (Arcipelago Itaca Ed., 2023), che avevo già letto negli scorsi mesi, mi ha spinto a preparare questo breve lavoro d’analisi.

Il livello della raccolta è altissimo, merce rara nell’editoria d’oggi, a garanzia di ciò la prefazione del professore universitario e poeta di fama internazionale, Umberto Piersanti, che ho avuto il piacere di avere come insegnante nel suo ultimo anno di docenza urbinate e della quale produzione poetica mi sono nutrito in particolar modo in questi ultimi anni[1]. Il paese invisibile e il passo per inventarlo[2]è in prima battuta un inno patrio, con tale termine si intende però la propria terra, quella natia, la terra dei propri padri, che è narrata dal conto mitico che spesso si fa leggenda. La patria di Marcòni non è l’Italia, ma la realtà microcosmica di Potenza Picena, che nel luogo il proprio io rispecchia e viceversa. I luoghi fisici, in Marcòni, sono anche i luoghi dell’anima, dove ogni componimento corrisponde quasi a un girone dantesco, sì, proprio dantesco, poiché il poeta spesso narra i fatti con un occhio da antropologo, quasi sociologo, ripercorre la storia di Potenza Picena, ricostruendo la storia del proprio io, attraverso il potente mezzo del ricordo, ove molti ricordi sono legati a personaggi, spesso caratteristici, quasi margutteiani, che però il poeta non nomina mai, per rispetto o forse per paura, indicandoli solo con le iniziali. Continua a leggere

Rilke e la ricerca introspettiva dell’io: tra religione e scienza

Rainer Maria RilkeRilke e la ricerca introspettiva dell’io: tra religione e scienza (nota di Riccardo Renzi)

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A mio avviso René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke, questo il suo nome completo, fu uno dei più grandi poeti ed intellettuali di tutto il Novecento, anche se spesso venne criticato e bistrattato, sempre costretto all’angolo nello stanzone dei grandi del suo secolo.

Rilke nacque a Praga, secondogenito di Josef Rilke e Sophia (Phia) Entz, nella casa di Heinrichgasse 19. Il padre era un amministratore che lavorava per i conti di Hartig, ex militare che però non aveva mai raggiunto il ruolo di ufficiale. La madre, invece, era figlia di Karl Entz, industriale e consigliere imperiale. Nel 1882 Rilke entrò nella scuola elementare tedesca a Praga, e la frequentò fino al 1886: durante quegli anni ottiene buoni voti. Nel 1884 i genitori si separarono, e Rilke fu affidato alla madre, che nel 1886 lo fece entrare nella scuola militare di Sankt Pölten: questo periodo fu per Rilke uno dei più bui e difficili della sua vita[1]. Già nel 1884 aveva iniziato a scrivere brevi poesie: a esse si aggiunsero, nel periodo alla scuola militare, anche un diario e un libro storico, intitolato Storia della Guerra dei Trent’anni. Fin dalla tenera età amò profondamente la storia e la poesia. Il 1º settembre 1890 venne ammesso alla scuola militare superiore di Mährisch-Weisskirchen, avendo superato l’esame iniziale, però già l’anno seguente chiese al padre di lasciare l’istituto prima d’aver conseguito il diploma, la ferrea disciplina militare era per il suo animo insostenibile. Il 10 settembre sulla rivista di Vienna Das interessante Blatt comparve una sua poesia, intitolata Die Schleppe ist nun Mode. Questa poesia costituì il suo esordio ufficiale. Continuò a studiare e si iscrisse a Giurisprudenza. In quel periodo conobbe Valerie von David-Rhonfeld, con cui intrattenne per due anni un intenso legame epistolare; le scrisse inoltre alcune poesie, per un totale di 130 scritti, tutti andati perduti. Il 29 aprile di quello stesso anno fu pubblicata la sua prima opera in prosa, intitolata Feder und Schwert. Ein Dialog, che apparve sul Deutsches Abendblatt di Praga[2]. Continua a leggere

Pasolini e la neolingua friulana, nota di R. Renzi

Pasolini e la neolingua friulanaPier Paolo Pasolini (fonte Wikipedia)

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Il rapporto tra la poesia e Pier Paolo Pasolini si caratterizza per la sua assoluta inscindibilità. Negli anni Quaranta del Novecento, il giovane Pasolini più volte tornò con saggi critici sulla tradizione della poesia dialettale friulana. Nei suoi scritti rivendica a sé stesso e ai suoi adepti dell’Academiuta il ruolo di iniziatori di una poesia in una lingua non ancora scritta, il friulano[1] di Casarsa[2]. In tal modo il giovane poeta si va immediatamente a contrapporre alla tradizione vernacolare di Pietro Zorutti[3]. Fin dalla giovinezza egli prese a modello il Sommo Poeta[4], questo lo si evince anche da fatto che egli abbia voluto rivendicare l’utilizzo poetico di una lingua non ancora scritta, proprio come aveva fatta Dante sei secoli prima[5]. Uno dei suoi primi scritti su tale tema comparve nel 1944 sul periodico Stroligut di cà da l’Aga. Il brano recava titolo: Dialet, lenga e stil[6]. Lui stesso ribadisce con forza nello scritto vernacolare che il processo di formazione dialettale friulano è paragonabile solo a quello compiuto dai poeti stilnovisti. Pasolini afferma che al friulano sono mancate quelle figure eccelse che hanno reso, ad esempio, il fiorentino lingua nazionale.

Per due anni il tema non venne più toccato, sino all’autunno del 1946 e poi nel 1949, quando Pasolini affermò a più riprese la necessità di fondare una poesia dialettale friulana[7].

Le prime sperimentazioni poetiche in dialetto friulano risalgono agli inizi degli anni Quaranta, di seguito alcune delle più celebri redatte tra il 1941 e il 43:

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IL NINI MUÀRT

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Sera imbarlumida, tal fossàl
a cres l’aga, na fèmina plena
a ciamina pal ciamp.

Jo ti recuardi, Narcìs, ti vèvis il colòur
da la sera, quand li ciampanis
a sùnin di muàrt[8].

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La poesia è ispirata all’uccisione di un giovane nei pressi della località Casarsa a causa dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Continua a leggere

La costante cristiano-cattolica nella poesia di Mario Luzi, nota di Riccardo Renzi

Mario LuziLa costante cristiano-cattolica nella poesia di Mario Luzi

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Mario Luzi nacque a Castello, in quel tempo frazione di Sesto Fiorentino, secondogenito di Ciro Luzi, locale funzionario delle ferrovie, e di Margherita Papini. La famiglia paterna era di origini marchigiane, di Montemaggiore al Metauro. Dopo una prima parentesi nel senese, Mario trascorre l’infanzia a Castello, frequentando qui i primi anni di scuola. Nel 1926, in seguito al trasferimento del padre a Rapolano Terme in provincia di Siena, si trasferisce a casa dello zio Alberto a Milano dove rimane per solo un anno; nel 1927 ritorna a Rapolano Terme dalla famiglia per poi, nel 1929, ritornare nella sua città natale e terminare a Firenze gli studi presso il Liceo Ginnasio Galileo[1].

A differenza del poeta francese Charles Péguy[2] la profonda fede religiosa lo accompagnò per tutta la vita, non ebbe mai dubbi. La sua produzione poetica copre più di cinquanta anni: la sua prima raccolta in versi, La barca, è del 1935, l’ultima del 1994, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. È ormai giudizio diffuso che Luzi fu il simbolo e il massimo esponente di quell’ermetismo poetico fiorentino degli anni Trenta del Novecento. Tre sono gli elementi di fondo che connotano la poesia di Luzi:

Un’assenza e una totale distanza dalla realtà contingente.
La costante presenza di preziosismi formali tipici della poesia ungarettiana.
Un forte fervore religioso che anima continuamente e ininterrottamente la sua poesia.

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Volponi: un narratore incastrato nella poesia – nota di Riccardo Renzi

Volponi: un narratore incastrato nella poesiaPaolo Volponi

La prima espressione letteraria per Paolo Volponi, fu quella poetica. L’argomento della mitopoiesi sociale nel romanzo volponiano e dall’approdo alla narrativa partendo dalla poesia è stato ampiamente affrontato in molti miei saggi, tra i quali in questa sede ricordo, Mitopoiesi sociale nel romanzo volponiano. Quando i temi della lirica giovanile diventano il sostrato di una vita da scrittore, in Riscontri[1] e La narrativa in Paolo Volponi, in Avanguardia[2], meno frequentato invece è stato il suo approccio poetico.

Paolo Volponi si affacciò con prepotenza nel panorama letterario italiano di fine prima metà del Novecento a soli 24 anni, con la raccolta Il ramarro (1948)[3]. Si tratta di quaranta componimenti scritti nell’immediato dopoguerra seguendo la moda ermetica del frammento lirico paratattico[4]. Lo spazio poetico delineato per successivi bozzetti e frammenti è un microcosmo naturale che si confonde, specchio del macrocosmo dell’io poetico. A tal proposito estremamente interessanti risultano essere le parole del Volponi sulla genesi della sua poesia in A lezione da Paolo Volponi:

.Perché scrivevo poesie allora, non ancora ventenne? Perché ero incerto, perché avevo paura. Ero folgorato da certe immagini, da certe visioni, filtrate attraverso il ricordo delle letture incerte e frammentarie della scuola, che mi portavano ad avere un rapporto con fatti lontani magici perenni quali gli astri, il paesaggio, le stagioni, le tempeste o le ragazze; o certe durezze della vita di allora, anche se già toccata dalle grandi speranze della libertà e poco dopo esaltata dagli effetti della liberazione[5].

 

La poesia per Volponi fu il mezzo tramite il quale riuscì a dare una forma alle sue irrefrenabili pulsioni, si trae dunque una forma da un magma cosmico di sensazioni giovanili. È infatti notevole, e non privo delle ingenuità e della meccanicità dell’apprendistato letterario, lo sforzo di appropriarsi di alcune costanti stilistiche e linguistiche tipiche dell’usus dei poeti più maturi. Nella poesia giovanile volponiana domina il sostantivo assoluto, con sospensione dell’articolo (tipo: «Vastità che soffro», R, 59), l’analogismo sviluppato mediante coppie inconsuete di aggettivo e sostantivo ed epiteti di tipo sinestetico. Continua a leggere

Ardengo Soffici: un’adesione incompleta – nota di Riccardo Renzi

Ardengo Soffici_Autoritratto_1946_49Ardengo Soffici: un’adesione incompleta

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Ardengo Soffici fu uno degli intellettuali più importanti e controversi del primo Novecento italiano. Nato a Rignano sull’Arno il 7 aprile 1879 da una famiglia di benestanti proprietari terrieri, nella primavera del 1893 si trasferì a Firenze con i suoi e assistette, senza nulla poter fare, alla rovina finanziaria del padre che condusse la famiglia alla povertà. A causa della precaria situazione economica della sua famiglia, fu costretto ad abbandonare gli studi artistici e letterari, e ad andare a lavorare presso un avvocato fiorentino[1]. Non abbandonò però il suo amore per l’arte, in quegli anni infatti strinse stretti rapporti con i giovani artisti che si muovevano intorno all’Accademia delle Arti e alla Scuola del Nudo. Dopo la morte del padre e il trasferimento della madre a Poggio a Caiano, egli decise, sul modello di alcuni suoi amici artisti di trasferirsi a Parigi[2]. Qui, Soffici lavora come illustratore su riviste importanti come L’Assiette au Beurre. La paga è misera e conduce una vita di stenti e rinunce. Qui però ha la possibilità di incontrare artisti emergenti e già affermati come Guillaume Apollinaire, Pablo Picasso e Max Jacob[3]. Inoltre qui iniziò a scrivere su riviste di primissimo livello e fece importanti incontri anche con gli artisti e scrittori italiani, come Giovanni Vailati, Emilio Notte, Mario Calderoni, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, con il quale, nonostante la diversità di carattere, al ritorno in Italia stringerà una forte amicizia. Proprio in questo periodo inizia a sorgere il Soffici scrittore. Dopo essere rientrato a Firenze nel 1907 e stabilitosi a Poggio a Caiano, egli consolidò la sua amicizia con Papini, che incontrava al caffè Paszkowski. Di quell’epoca è anche l’amicizia con Giuseppe Prezzolini, col quale fondò La Voce nel 1908[4]. Nel 1910 Soffici ritornò a Parigi per studiare la poesia di Rimbaud, poeta quasi sconosciuto in quel periodo in Italia. Tornato in patria nel 1911 si scontrò con il movimento futurista per le grandi differenze di vedute. Nel corso del 1912 Soffici riaprì i rapporti con i futuristi e iniziò ad allontanarsi sempre di più da Prezzolini per la modalità scientifica con cui egli dirigeva la rivista La Voce, che assieme avevano fondata[5]. Così il 1º gennaio 1913 Soffici, insieme a Papini, fondò la rivista Lacerba, che divenne l’organo ufficiale del futurismo. Nel 1915 giunse la guerra, che Soffici aveva con forza auspicato sui fogli del Lacerba come reazione contro la “Kultur” germanica. Egli vi partecipò. Conclusa la guerra Soffici divenne collaboratore de Il Popolo d’Italia, del Corriere della Serae di Galleria[6]. Col passare degli anni lo stile del Soffici mutò radicalmente, dai grandi elogi alla poesia rimbaudiana si andrà verso uno stile decoroso e foscoliano classico, e in politica aderisce al fascismo. Nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti, e l’anno dopo iniziò la sua collaborazione a L’Italiano di Leo Longanesi. Ricevette il “Premio Mussolini” dell’Accademia d’Italia per la pittura nel 1932[7]. Nel 1937 si allontanò definitivamente da Mussolini, ma rimase fedele al regime sino alla sua caduta. Continua a leggere

Baudelaire e Les fleurs du mal: un legame inscindibile, nota di Riccardo Renzi

Charles BaudelaireBaudelaire e Les fleurs du mal: un legame inscindibile

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Pensando alla letteratura francese dell’Ottocento, la prima figura che verrebbe in mente ad un medio lettore, nel 90% dei casi è quella di Charles Pierre Baudelaire. Ma perché proprio Baudelaire? Perché la sua figura ha ormai subito una canonizzazione all’interno dei vari sistemi scolastici europei e da cinquant’anni a questa parte e impressa nella memoria dei più. A tutto ciò si aggiunga che il suo spirito rivoluzionario lo rende assai attraente, in particolar modo appetibile per ragazzini in piena età dello sviluppo[1], con la loro voglia innata di cambiare il mondo.

Baudelaire nacque a Parigi, in Francia, il 9 aprile 1821 in una casa del quartiere latino, in rue Hautefeuille nº 13, e venne battezzato due mesi dopo nella chiesa cattolica di Saint-Sulpice. Il padre si chiamava Joseph-François Baudelaire. Era un ex-sacerdote e capo degli uffici amministrativi del Senato, amante della pittura e dell’arte in genere, e come prima moglie ebbe Jeanne Justine Rosalie Jasminla, dalla quale ebbe Claude Alphonse Baudelaire, fratellastro del poeta. La madre di Charles era la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays, sposata da Joseph-François dopo la perdita della prima moglie[2]. Suo padre morì quando egli aveva soltanto sei anni e il matrimonio della madre, che si risposò poco dopo, determinò in lui una profonda sofferenza destinata a durargli tutta la vita, camuffata spesso da cinismo e spavalderia. Dopo aver conseguito la licenza liceale, Baudelaire cominciò una vita sregolata; il patrigno, il generale Auspick, sperò di ottenere un cambiamento persuadendolo ad un viaggio nelle isole dell’Oceano Indiano, ma al suo ritorno, ormai maggiorenne, Baudelaire riprese la vita stravagante, dissipò rapidamente il patrimonio ereditato dal padre, si avvilì sempre di più nell’alcool, nella droga, nella frequentazione di ambienti malfamati e di personaggi sempre più equivoci. Per vivere fu costretto a fare i più strampalati lavori, ma continuò sempre a scrivere e a lavorare per giornali e case editrici. Agli inizi del 1857 pubblicò I fiori del male, raccolta che gli procurò subito un processo per alcune liriche considerate immorali,fu dunque, pubblicato in seconda edizione, riveduta e purgata, nel 1861. L’opera non ebbe risonanze e il poeta, amareggiato e prostrato nel fisico e nel morale, si allontanò da Parigi la cui atmosfera gli era diventata insopportabile, e andò a vivere a Bruxelles[3]. Il cambio di città non gli giovò, nel 1866 ebbe il primo attacco di paralisi e l’anno dopo morì in una clinica di Parigi[4]. Continua a leggere

Per una poesia della resistenza: nota sulla poetica di Luigi Di Ruscio

Luigi Di RuscioPer una poesia della resistenza: nota sulla poetica di Luigi Di Ruscio, di Riccardo Renzi

.Luigi Di Ruscio attualmente può essere considerato il più grande poeta che il fermano abbia avuto e sul panorama nazionale, sicuramente uno dei più grandi del Novecento.

Luigi Di Ruscio nacque a Fermo il 27 gennaio 1930. Di origini umilissime, autodidatta, conseguì infatti soltanto la licenza di quinta elementare, svolse diversi mestieri, e studiò da solo classici americani, francesi e russi, la filosofia greca, saghe della mitologia nordica e tutta l’opera di Benedetto Croce. Nel 1953 una giuria presieduta da Salvatore Quasimodo gli assegnò il premio Unità. Nel 1957 si trasferì in Norvegia, dove lavorò per quarant’anni in una fabbrica metallurgica, e si sposò con una norvegese, da cui ebbe quattro figli. Rimase però sempre legato alla città di Fermo, presso la quale quasi tutte le estati vi faceva ritorno. Morì il 23 febbraio 2011 e fu sepolto ad Oslo[1].

Tra i suoi recensori più illustri, su riviste di primissimo piano, si ricordano Aldo Capasso, Enrico Falqui, Eugenio De Signoribus, Paolo Volponi, Angelo Ferracuti, Massimo Raffaeli, Roberto Roversi, Sebastiano Vassalli, Biagio Cepollaro, Stefano Verdino, Francesco Leonetti, Silvia Ballestra, Andrea Cortellessa, Flavio Santi, Goffredo Fofi, Giulio Angioni, Massimo Gezzi, Walter Pedullà, Giorgio Falco, Emanuele Zinato. Continua a leggere

Acruto Vitali: tra poesia e amicizie illustri, nota di Riccardo Renzi

Acruto Vitali: tra poesia e amicizie illustri

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Acruto VitaliAcruto Vitali fu uno dei maggiori interpreti di quella temperie culturale che tanto animò il territorio fermano[1] tra gli anni quaranta e sessanta del Novecento.

Era nato a Porto San Giorgio il 5 ottobre del 1903 da Primo, uno dei più grandi industriali della zona, proprietario di una fabbrica di ghiaccio tra le più grandi delle Marche, e da Ada Cestarelli. Frequentò l’Istituto Tecnico Industriale di Fermo. Agli inizi del 1926 si trasferì a Milano per studiare musica e canto. Qui fu allievo di Alessandro Bonci[2], mentre a Roma di Sammarco. L’esordio avvenne nel 1929 ne I Pescatori di perle di Bizet, nel ruolo di Nadir. Negli anni Trenta si esibì come tenore nei maggiori teatri nazionali e internazionali, ma lo scoppio della guerra interruppe le sue attività. Nel 1940 si vide costretto a tornare a Porto San Giorgio, dove aiutò il padre nella gestione dell’azienda di famiglia[3].

Risulta assai difficile parlare di Acruto Vitali poeta e pittore, senza parlare di alcune amicizie illustri che ebbe nel corso della sua vita e che condizionarono il suo gusto poetico e artistico. Per quanto concerne la poesia, la coltivò fin da adolescente assieme a un suo caro amico, Sandro Penna[4]. Il poeta perugino trascorreva infatti tutte le estati con la famiglia a Porto San Giorgio e proprio sulle spiagge di questa cittadella dell’Adriatico i due fanciulli strinsero una salda amicizia. Vitali, anche in tarda età, ancora raccontava di quello splendido periodo della sua vita trascorso con l’amico Sandro a leggere Rimbaud sulla spiaggia. Fu proprio Vitali nell’estate del 1925 a far conoscere la poesia di Rimbaud a Penna[5]. Spesso i due discutevano anche di letteratura francese, in particolare di Gide e Proust[6].

Gli amici illustri di Vitali però non si esauriscono qui. Egli parlava infatti dei poeti francesi anche con Ubaldo Fagioli e Franco Matacotta[7]. Mentre con uno dei più grandi pittori del primo Novecento, Osvaldo Licini, parlava di Leopardi. Continua a leggere