Archivi categoria: poesia di ricerca

Letizia Polini – Subsidenza

Letizia Polini – SubsidenzaPuntoacapo, 2024

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Opera vincitrice di Bologna in Lettere 2024, sezione Opere inedite, questo libro di Letizia Polini rientra nella categoria delle raccolte poetiche problematiche, poco “confortevoli”, nel senso che ti danno sempre da pensare più di quanto ti confermino in qualche logora aspettativa da lettore. È quello che dovrebbe fare la poesia, spostare, magari di poco, un limite o, come dico sempre, darti un’idea dell’aria che tira.

Un libro dalla rigorosa struttura, un percorso con poche deviazioni, un’idea di fondo forte e convinta che parte da un’immagine principale, una visione “geologica” dell’esistenza e dell’io (il nucleo drammatico dell’opera, per quanto astratto e un po’ sine causa manifesta, è questo), una surmetafora che principia con il concetto del titolo, la subsidenza, fenomeno che consiste nel lento e progressivo sprofondamento del terreno, per via antropica o naturale, per cause interne o esterne. Una sorta di proemio, cinque sezioni, alcune “tregue”, alcune “intrusioni” (altro termine geologico), qualche “fossile” scandiscono una inusuale mise en abyme, non tanto narratologica quanto intrametaforica, intersoggettiva e multilivello. Il punto di partenza, come ricorda l’amico Daniele Poletti nella sostanziosa prefazione, è il corpo, corpo rappresentato “che parte da una condizione più estrema, in senso nichilistico, quella dell’annientamento causato dalla gravità. Che poi sia una “gravità” declinabile come denuncia politica o esistenziale o entrambe le cose, starà al lettore deciderlo”. Va bene, accetto il legato. Intanto, condizione più estrema rispetto a che cosa? Come acchitto ideale mi paiono giusti i richiami, sempre del prefatore, sia al Bernard Noël dei clamorosi – anche perché era il 1956/8 – Extraits du corps, dove la carne è “la carne del mondo”, il suo prolungamento come dice mi pare Merleau-Ponty e il corpo, secondo Noël, è “l’imbuto interno” che introietta, distrugge, soffre e produce scorie, metafora e “correlativo oggettivo, di pura marca modernista, di quelle figure dell’ansia che presiedono al senso di finitudine dell’uomo contemporaneo” (Poletti); sia rispetto, negli anni Sessanta, al corpo antagonista “con[tro] le modalità di rappresentazione del soggetto nella nostra tradizione poetica” (sempre Poletti), ovvero come spostamento dell’io in una posizione decentrata e recessiva (ma potremmo ricordare, tra gli esempi, il corpo feroce di Bataille e quello come doloroso campo di battaglia della poesia femminista e post – ma certo si parla di un’altra generazione). Naturalmente non si tratta di stabilire confronti o paralleli, essendo che ogni opera, poi, è prodotto del tempo e del talento individuale e perciò bisogna unicuique suum tribuere. Continua a leggere

Carlo Gregorio Bellinvia – Lascio isola ben arredata…(inediti)

Carlo Gregorio Bellinvia – Lascio isola ben arredata con fantasia di navi lontane alle pareti, inedito

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Dal prossimo libro di poesie di C.G. Bellinvia, attualmente in via di revisione ed editing, pubblico un estratto di testi non definitivi (dalla prima e dalle ultime sezioni), e come ogni estratto non del tutto esplicativo, perché il libro ha ambizioni che non possono esaurirsi nella lettura di qualche frammento.

Già il titolo prefigura uno scenario, proprio in senso teatrale, uno sfondo, volutamente incoerente sia in sé che rispetto alla storia (c’è una storia) che nel libro si svolge. Il fondale, per così dire, suggerirebbe di non prendere sul serio tutta la faccenda, perché ogni libro si comincia dal titolo, e siamo già fuori gioco, scopriamo che forse non c’è nessuna isola, forse nessun io e che il titolo medesimo, fuorviante, non è che la battuta di uno dei personaggi. Già, i personaggi. Il primo che incontriamo e il principale è un essere (un bambino? un animale? un alieno?), che così a braccio mi ha ricordato, con tutte le differenze, l’allegro leprotto di Andrea Raos (Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali, Arcipelago Itaca, 2017). Si chiama Cildreno Bambi, invenzione nominale di Bellinvia che crea un figlio (children) che si chiama Bambi e ne fa il protagonista di una serie di traversie. Possiamo senz’altro immaginare il riferimento al Bambi di Felix Salten, più che a quello sdolcinato della Disney. C’è anche una Mòtera (mother, ovvio), che però al momento della storia è già morta, a differenza del libro di Salten, e un Fàtero (father, certo) che c’è e non c’è, come in certe famiglie disfunzionali. Sulla base di questi e pochi altri elementi Bellinvia costruisce una sorta di favola feroce e insieme un romanzo di formazione, un percorso di maturazione di una identità inquieta, incerta, a volte irrelata, che stenta a trovare una propria unità (e i titoli dei brani, come mi dice l’autore, sono quasi sempre indicati come numeri decimali minori di 1 proprio in questo senso). Possiamo assumere che il Cildreno sia una metafora o forse meglio un’allegoria, come uno degli esseri di Bosch, o un freak alla Tod Browning, una figura dotata di una “ombra impressionante” e di strane conformazioni fisiche, allegoria di una metamorfosi, forse un Gregor Samsa che torna a un’umanità che più che somatica è esistenziale. Lo strumento principe di questo progredire è una macchina per scrivere Olivetti, “sua vicina di casa” che Cildreno Bambi sente battere oltre un muro e che, è sicuro, “sta scrivendo riguardo alla sua vita”. In essa, “macchina ribelle”, il Cildreno Bambi “avverte il regalo per un compimento”. Lo strumento emancipatore, quindi, è la scrittura, la regolatrice di un disordine, l’allineatrice di parole. E lo è, immagino, sia per il personaggio che per l’autore, che in questo libro mi paiono assolutamente inseparabili. Ma la macchina non è raggiungibile, rimane inizialmente un desiderio al di là di un ostacolo, qualcosa che “suona” la casa, mentre il muro “separa la carne col mattone in due berlino organiche all’interno”. Fino a che, scavando un pertugio, Cildreno non riesce a raggiungere (e siamo alla seconda sezione del libro) l’appartamento centoventuno, dove sbuca in “un salone dal mobilio d’oro”. Qui inizia una specie di viaggio esperienziale, a cominciare dal fatto che “non è oro, ma pirite, falsità”, dall’incontro con una “venere dal naso bollente”, con una realtà meccanica e commerciale (“eccolo, il fresco operatore mobile tim del novantasette proporre a chiunque…”) di cui lo stesso Bambi entra a far parte come oggetto e destinatario. L’appartamento, a simbolo di una realtà mondana in cui però tutto sfugge e tutto torna, appartiene a un personaggio nominato Nuovodottore, proprietario della Olivetti che, come in una visione alla Burroughs, sembra avere una vita autonoma. Il nuovo personaggio è forse demiurgo, forse curatore, forse torturatore, somministratore di farmaci dai curiosi effetti collaterali, ma in ogni caso mi pare rappresenti l’elemento catalizzatore della metamorfosi a cui accennavo prima. Dopo una fugace riapparizione del Fàtero, Nuovodottore ricovera il Cildreno in un ospedale, in quella che è la quarta sezione del libro. La scrittura, indicativamente, si fa io, prima persona, in un lungo testo dagli accenti a tratti anche lirici, segno di una sorta di appropriazione della storia, di avvicinamento all’identità e alla propria lingua, di riuscita all’aperto, al mondo esterno, per quanto esso sia “nero”. Questa sorta di rinascita, di conquista dell’unità di sé, simboleggiata dal ritorno nei titoli a “numeri interi e positivi” conclude una lunga elaborazione del dolore (anche di non conoscersi), del lutto, in quello che ho già chiamato un bildungsroman in versi.

Libro non facile, certo non perfetto e anzi forse bisognoso di qualche aggiustamento, ma capace di ironia, di critica, di ricognizione sociale, nel cui linguaggio le contraddizioni, la messa in mora dei modi di dire, la torsione lessicale, l’accostamento analogico (compresa qualche ingenuità), contribuiscono alla creazione di un oggetto letterario che potremmo forse semplicisticamente definire surreale, ma nel quale la cosa più importante è la sinergia attiva tra ricerca espressiva e concetto ispiratore e il tentativo ambizioso di creare un ambiente poetico inusuale, sperimentando senza rinunciare a comunicare un’idea. Quando uscirà nella sua stesura definitiva credo che sarà un lavoro di sicuro interesse. (g. cerrai)

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Note a margine: Chiara Serani ovvero Dā mihi sellulam, ubi cōnsistam

Chiara Serani - Dialoghi della sedia, Anterem Edizioni 2023Note a margine: Chiara Serani ovvero Dā mihi sellulam, ubi cōnsistam

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A distanza di alcuni giorni dalla presentazione fatta con l’autrice a Livorno (6 giugno, presso la Galleria d’Arte Extra Factory, a cura de Le cicale operose), e un po’ col senno di poi, vorrei mettere insieme qualche osservazione, forse esposta in quella occasione, forse no, sui Dialoghi della sedia di Chiara Serani, Premio Lorenzo Montano 2022 (Anterem Edizioni/Cierre Grafica, 2023). Lo dico subito, un lavoro particolare, potente, che richiede innanzitutto di mettere da parte distinzioni di genere, dicotomie letterarie e roba simile. È un’opera di poesia perché non è scritta in versi ma della poesia ha tutto il bagaglio metaforico, polisemico e quella ricerca sulla lingua che la narrativa ha abbandonato da tempo.

Di certo la prima cosa che salta all’occhio è la struttura di questo lavoro. Che forse non è poesia, forse non è prosa, forse non è teatro, per quanto ci assomigli parecchio. È quest’ultima una caratteristica, anzi direi un aspetto, che molti commentatori hanno tenuto a sottolineare. Ma parlare di aspetto, per parte mia, non è un caso. Direi che è l’approccio, lato lettore, più confortante. Vediamo perché, partendo dalla base organizzativa di questa opera. Diviso in sezioni (12) di varia lunghezza e brevissimi interludi (5), il lavoro è composto di quadri nella stragrande maggioranza dei quali agisce un io narrante e agente, collocato in uno spazio vago e tuttavia materiale. Lì – ci si immagina al centro – è collocata una sedia: “Sono seduta su una sedia. Sono nuda”, “Sono seduta su una sedia, la mia. Indosso…”, “Sono seduta su una sedia, la loro. Disposti tutto intorno…”, e così via. Facile per chi legge farsi un’idea “teatrale” della faccenda, qualcosa di performabile su una scena. Altri commentatori si sono soffermati su questa forma teatralizzante del testo, e leggendo viene quasi naturale immaginare un beckettiano palco vuoto, con al centro una sedia, con quadri a tratti illuminati in cui la protagonista è davvero, ipotizziamo, nuda. Un Living Theatre, ma anche, diciamo, Grotowsky. Ma io credo che si tratti di un artificio, proprio nel senso etimologico del termine, una mise en scène di una mise en scène, un contenitore di contenuti che può essere inscenato e non essere mai uguale a sé stesso, come le tre sedie di J. Kosuth ogni volta che vengono esposte. Inoltre, i frammenti testuali o annotazioni o citazioni che accompagnano le “scene” come pensieri apparentemente peregrini o avulsi dal contesto (ma che invece sono radicalmente culturali) creano una crasi della voce narrante, una specie di sospensione temporale e appunto scenica, rimandando peraltro a un dialogo ipotetico, a una voce “altra” di cui non si sa nulla ma che è “possibile” e presente. Continua a leggere

La discarica fluente – Giovanni Fontana a Pisa

Giovanni Fontana - La discarica fluente - Diaforia

In occasione della  presentazione a Pisa del volume di Giovanni Fontana “La discarica fluente” (Dreambook ed. / [dia*foria, 2023), ripropongo l’interessante articolo (corredato da testi e immagini) apparso sul vecchio sito di “Imperfetta Ellisse” nel 2013, per l’uscita all’epoca di “Questioni di scarti”. Torna a proposito perché quel libro è oggi ricompreso in questa nuova pubblicazione che include altri quattro importanti testi tra cui proprio “La discarica fluente” del titolo, nonché numerose tavole riproducenti i lavori grafici e verbovisivi di “Polluzioni”. L’articolo torna utile a chi non conoscesse Giovanni Fontana per farsi un’idea di uno dei più importanti artisti italiani, e anche a chi già lo conosce.

L’appuntamento è per il 29 maggio 2024 ℅ Libreria Tra le Righe, Via Corsica 8, ore 18,00. Intervengono Marcello Sessa, l’editore/curatore Daniele Poletti e l’autore che leggerà/performerà brani del libro. Da non perdere. (g.c.)

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Giovanni Fontana – Questioni di scarti – Edizioni Polìmata, 2012

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Cos’è uno scarto? E’, in questo libro di Giovanni Fontana, il protagonista principale, l’obbiettivo di una invettiva, un ragionamento politico, una visione del baratro, l’esplorazione di un territorio artificiale, un guardarsi allo specchio. Lo scarto siamo noi, senza dubbio, noi ne siamo gli artefici, poiché senza di noi il rifiuto, la scoria non avrebbero ragione di esistere. A noi è ascrivibile questo gigantesco ready made, così difficile da trattare artisticamente se non come citazione o simbolo o trasfigurazione (basti pensare, a titolo di esempio, a tutto il lavoro concettuale intorno alla cosiddetta “arte povera”, o all’arte in sé, implicita in una “merda d’artista” di Manzoni). La scoria, di cui siamo produttori e vittime, come elemento costitutivo (ma in molta produzione letteraria solo collaterale, scenografico) di una attuale poetica della crisi. (continua a leggere QUI)

Nanni Balestrini – La poesia fa malissimo

Tra qualche giorno saranno cinque anni dalla morte di Nanni Balestrini (19 maggio 2019). Mi anticipo un po’, non che ami particolarmente gli anniversari, solo perché riordinando mi è capitato tra le mani uno dei volumi delle Poesie complete pubblicate da Derive Approdi nel 2018 (precisamente il volume terzo / 1990-2017), Caosmogonia e altro, introduzione di Andrea Cortellessa più vari interventi critici in allegato. Inutile ricordare qui la persona di Balestrini e che cosa abbia rappresentato nel panorama letterario e culturale del nostro Paese, a partire dalla sua presenza fondante nella Neoavanguardia e come cofondatore e ideatore di storiche riviste letterarie come “Quindici” e “alfabeta”, ci sono centinaia di post, articoli, saggi utili allo scopo a cui rivolgersi.

Mi limito a riproporre un testo tratto dal libro citato, testo che unisce secondo lo stile del nostro ironia e pensiero, metodo critico e sberleffo, immediatezza e profondità, suono e significato, nonché vari livelli di linguaggio e, che non guasta, un po’ di sana ferocia. Si tratta di “La poesia fa malissimo”, una composizione inedita fino alla pubblicazione in questo volume, una sorta di invettiva che vuole ricordarci che la poesia è o dovrebbe essere “un affronto all’esistente per mezzo della parola”, una “interminabile apocalisse”. E quindi, perchè no, uno strumento politico.

Fa da contraltare all’ironica “La poesia fa benissimo”, del 2010, che lo segue nella sezione Intermezzo. La poesia fa male dello stesso volume (di cui forse parleremo un’altra volta) e nella quale molti poeti, lettori e frequentatori di reading certo si ritroveranno. Anche questa appartiene a un discreto gruppo di testi sparsi nei quali Balestrini si occupa tematicamente della poesia, della parola, del linguaggio, ci ricorda Cortellessa, come “movimento” da contrapporre alla sua stessa “inerzia”, come oggetto di scandalo (inteso nel suo etimo più radicale), come “opposizione” (“Linguaggio e opposizione” è il titolo di un suo noto intervento programmatico (v. QUI). Ricordando che Nanni Balestrini, più che un eversore della poesia e della lingua italiana “è in realtà un costruttore, un ingegnere o se si preferisce un architetto della poesia” (Fausto Curi). Buona lettura. (g.c.)

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Alessandro De Francesco – e agglomerati, degli alberi o

Alessandro De Francesco – e agglomerati, degli alberi oArcipelago Itaca, 2023

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Ci sono oggetti poetici di non facile manipolazione, almeno al fine di una nota, di una recensione, o solo quando si voglia citarne degli esempi. Ci sono oggetti poetici complessi, di non facile definizione, alla quale – forse – semplicemente vogliono sfuggire (“È un aereo? È un uccello? No, è Superman![1]“), giacché mettere in discussione il definibile fa parte del loro gioco. Parlare di oggetti poetici non è un vezzo ma una precisa intenzione. Specie nel caso di questo libro di Alessandro De Francesco, che è un libro, su questo non ci sono dubbi, ma forse non è alcune altre cose e altre  cose vuole diventare. Non è una desueta raccolta, non è una silloge, non è (ma forse forse) un prosimetro, non è, non mi sembra, una installazione, e volerlo relegare nell’ambito  della scrittura di ricerca o sperimentale sarebbe tanto generico quanto lapalissiano (oltre ad essere, dice l’autore, “un formalismo fuori tempo massimo”). Certamente è un oggetto che sembra soffrire di dover essere stampato su carta, di diventare statico, non interattivo, non ulteriormente deformabile (come vedremo). È proprio con questa materialità “definitiva” che ho avuto il primo approccio quando ho pensato di farne una piccola recensione, ricevendone di che riflettere. È vero che tutti i libri sono materiali e concreti, ma è anche vero che questo in particolare tende a rappresentare, di questa materialità, una vis insieme centrifuga e ineffabile, come un “prigione” di Michelangelo.

Per consuetudine di questo blog quando scrivo una nota su di un libro aggiungo anche, ad usum lectoris, qualche testo esemplificativo. Col cartaceo si lavora di scanner e OCR, con i pdf si fa una semplice estrazione dei brani che interessano, tutto lì. Ma il lavoro di De Francesco è un particolare assemblaggio di testi tipografici “originali” (che si presume abbiano avuto una stesura, digitale o analogica, precedente alla stampa) e frammenti, estratti, specimen di opere (libri, siti, documenti) diverse ed  aliene. I primi corrispondono ad un testo in varia misura “leggibile”, di cui cioè trasmettono un senso interpretabile mediante una qualche verbalizzazione (ma non necessariamente parafrasi), ancorché sia esso sottoposto talvolta a torsioni, sovrascritture, rovesciamenti speculari, cancellazioni, abrasioni o “danneggiamenti” di qualche tipo (v. esempi più avanti); i secondi sono “citazioni” (presenti peraltro anche nei primi) o copie, per lo più di dati, elenchi, nomenclature o – appunto – agglomerati. Sono questi ultimi, come vedremo, ad aver subíto la maggiore de-formazione, almeno finché andando in stampa sono sfuggiti alla ulteriore “violenza” dell’autore (ma va detto che quella dinamica, come suggestione di un moto inerziale, è destinata a perdurare). Continua a leggere

Mario Lunetta – poesie da L’allenamento è finito

Mario Lunetta – L’allenamento è finito

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Alcuni testi tratti da L’allenamento è finito – Poesie 2006-2016 di Mario Lunetta (1934-2017), edito da Robin Edizioni di Torino, che Giorgio Patrizi nell’introduzione definisce “un canzoniere matto e disperatissimo, giocato a ritmo, furia e invettiva dall’abilissimo mestiere dell’autore, qui al meglio delle sua tonalità narrative ed espressive”. E, aggiungerei, un libro pensoso ma divertente, nel quale la ricerca stilistica e linguistica non esclude mai di farsi capire alla prima, anche in questo che credo sia l’ultimo pubblicato in vita da Lunetta. Una scrittura, scrive Patrizi, “inconfondibile, ricca, lutulenta, che fa tesoro delle esperienze centrali della modernità (…), che appare immediatamente come un’arma foggiata per un duello finale”, magari, come suggerisce lo stesso Lunetta, contro la morte stessa, un avversario che non fa mai autogol“. Se così è mi pare che il tempo sia decisivo. È anche per questo, credo, che – annota Patrizi giustamente – “la costruzione testuale di Lunetta è sempre più fluviale: un fiume in piena che, se scendendo, rovinosamente, raccoglie detriti e scorie di ogni genere, d’altra parte abbandona, ai propri margini, gli sconfitti di ogni genere, diversi, devianti, inadeguati. È di costoro che poi Lunetta racconta la vicenda, attraverso gli archetipi del linguaggio, i miti un po’ decaduti e ridimensionati – come un Golem, pieno di millenaria malinconia – le tipologie degli eroi o dei protagonisti contraddittori del secolo”. Sono “le riflessioni instancabili sulla sorte di una contemporaneità che non dà speranza ma solo ancora l’indignazione che spinge a guardare avanti: chi scrive/ questi versi maledetti è un clandestino che parla col vento niente/ vittimismi ma ancora progetti folli sorsate di delirio“. E tuttavia “la voce di Lunetta non può rinunciare al proprio essere partigiano, non può non ricordare come la poesia possa ancora essere l’arma con cui tentare di spezzare il silenzio su quel fantasma che ancora si aggira per il mondo (…) quell’altro quid / che nessuno ormai si prova più a nominare / e che ha ancora il giovanissimo nome di comunismo“. Con buona pace di chi è convinto che le parole siano un medium esausto. Ma anche quando parla d’amore Lunetta ha la forza di una parola, vecchia o nuova non importa, che ha ritrovato il suo senso, ma senza lirismi o elegie (del resto Baudelaire diceva che “tutti i poeti elegiaci sono delle canaglie”, ricorda Lunetta in una intervista di qualche anno fa). Un libro da leggere. (g.c.)

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Altri testi di Lunetta, usciti sulla rivista “Lo stato delle cose” ma peraltro poi compresi in questo volume, sono rintracciabili QUI, dove è anche possibile leggere qualche interessante osservazione di Francesco Muzzioli.. Continua a leggere

Mario Diacono – Cos’è una poesia

Un testo di Mario Diacono, tratto dal prezioso libro Mario Diacono – THE OCCULTA POESIA, tre libri, pubblicato nel 2021, da [dia*foria / dreamBOOK Editore (pag. 156, Euro 25,00 ISBN 9788899830496), che collaziona le oggi introvabili raccolte DENOMIsegniNATURA (1962), MYSTICFICACTIONS (texti 1962-1967) e r:Esistenza (testi 1975-2007).
Impossibile definire Mario Diacono (Roma 1930 – ): è poeta lineare e visuale (v. immagine in fondo all’articolo), artista sperimentale, mercante, critico d’arte e saggista (autore tra l’altro del primo saggio su Vito Acconci), gallerista scopritore e sostenitore di figure cruciali dell’arte contemporanea, traduttore tra gli altri di Joyce, Artaud e Michaux, amico di Emilio Villa e Sandro Penna, amico (e segretario per anni) di Giuseppe Ungaretti, autore teatrale, docente universitario, promotore di riviste d’arte e altro ancora.
Il testo qui riportato è tratto da r:Esistenza. Dire cos’è una poesia è forse dire ciò che contiene o non contiene, potenzialmente tutto e nulla, ed è dire anche – forse – chi è il poeta che la produce, che tuttavia ipotizzo sia per Diacono (o è auspicabile che sia) un poeta che deve evitare “la luce filosofica”, un “poeta sconosciuto”, come dice il verso “dem unbekannten Dichter”, espressa citazione del “dio sconosciuto” di Nietzsche, poeta a  cui l’autore sembra indicare una strada, non escludendo, io credo, che la poesia, parafrasando il filosofo, debba essere conosciuta e servita. Evitando però “il significante della Mitteleuropa latente che si traduce in un binario morto”.
Un testo assai articolato, non facile e ricchissimo di giochi semantici, di riferimenti e incroci culturali, come quello appena citato. Ci si potrebbe divertire a rinvenirli, dai più “bassi” come il “kitsch Lorrain” che sbeffeggia la quiche lorraine ad allusioni più colte come il Caspar David Friedrich del “Viandante sul mare di nebbia” o l’Adorno del “dopo Auschwitz” o scenette surreali come quella di Freud che fa il “mind driver” su un bus della Quinta strada o diversi accenni alla cultura pop o agli artisti (come, mi par di capire, Ana Mendieta) di quella metà degli anni ’80. Buona lettura. (g.c.) Continua a leggere

Augusto Blotto – Ragioni, a piene mani per l’ “enfin!”

Augusto Blotto, Ragioni, a piene mani, per l' "enfin!" (fronte / retro)L’uscita, avvenuta nell’aprile 2021, di Ragioni, a piene mani, per l’ “enfin!” di Augusto Blotto ([dia*foria / dreamBOOK, ISBN 9788899830519, pagg. 260, con  interventi di Giacomo Cerrai, Philippe Di Meo, Chiara Serani, Stefano Agosti) tenta con la speranza di qualche successo non solo di ampliare la conoscenza di questo grande vecchio (Torino, 1933) della poesia italiana, ma anche di riaccendere l’attenzione su di un autore forse appartato ma certo non più adeguatamente analizzato, con rare eccezioni, dopo la giornata di studi a lui dedicata a Torino il 27 novembre 2009 (ora in Il clamoroso non incominciar neppure – Atti della giornata di studio in onore di Augusto Blotto (Ed. dell’Orso, 2010, con quattordici saggi di vari importanti autori).

Incominciamo col dire che questo volume non è una delle opere di Augusto Blotto, per il quale non vige affatto né il concetto di compiutezza “finita” né quello di un determinarsi conseguente e successivo del lavoro poetico né, forse, nemmeno quello ancora di tempo lineare, sebbene ogni suo libro abbia poi una sua precisa identità, una “aura che vi circola” come dice lui. È semmai una delle “emergenze”, degli affioramenti dell’inesausto lavorio blottiano. Blotto infatti è autore di un lavoro sterminato (circa ventisei opere a stampa e materiale per ipotetici almeno altri ventinove volumi), e anche questo libro è una sorta di carotaggio, una ricognizione campionaria per “estrazioni dai giacimenti” di quella che possiamo chiamare d’ora in avanti l’Opera, ovvero “l’enfin”, attualmente composto da oltre 2700 cartelle. Blotto, come scrisse uno dei suoi estimatori Giovanni Tesio, è un poeta “di sfide e dismisure”, un ricercatore indefesso che scava nel corpo immenso del linguaggio e della realtà che esso rappresenta, ne rivoluziona la sintassi, rivede senza patemi gli schemi metaforici, gli accostamenti di senso, le immagini che ne derivano, insomma un osservatore acribico del mondo che egli, grande camminatore, percorre come uno specialissimo flâneur ricevendone stimoli fluviali che l’autore organizza ed ha organizzato nel corso del suo lavoro in quello che Daniele Poletti nell’introduzione definisce un mastodontico iperoggetto letterario, uno spazio vasto che ricomprende tutti i paesaggi in cui Blotto ha fatto irruzione ridefinendoli in una nuova matrice. Ed è il linguaggio una delle maggiori peculiarità della sua poesia, una lingua non meramente strumentale né mimetica del caos del mondo, della sua incomprensibilità, ma intesa – tra le altre cose – come manifestazione del tempo (letterario ed esistenziale) quale “visione sincronica ed onnivora della realtà”, ove “il tempo è momento, o un luogo quasi topologico in cui precipitano le cose, gli oggetti, gli “accidenti” – nonché il linguaggio che li determina – e che ha una durata pari a quella del testo che li contiene, ma che non ha altra rappresentazione per così dire “lineare” o analogica, non fluisce, non ha nemmeno la figurazione di un prima e di un dopo attraverso la sintassi, la cui mobilità è segnale semmai che la realtà “avvenuta” è soggetta a una continua (finché il testo lo consente) revisione testimoniale”[1]. Ma “il linguaggio sembra avere per Blotto un peccato originale, una tabe, variamente connotata, in primis dalla rigidità del codice, con il quale tuttavia, in quanto materia, dobbiamo avere a che fare (non dimenticando che il linguaggio nella sua essenza è sempre “narrativo”, sequenziale, ordinatorio, e vive nel tempo che il testo si è dato, come abbiamo detto). E poi connotata da un comfort associativo, con cui la mente giunge a conclusioni “economiche”, in qualche caso anticipatorie, “usabili” e quindi in varia misura scontate”[2]. È l’ “ordine costituito del linguaggio” che viene da Blotto rivoluzionato, anche spessissimo sotto il profilo sintattico, cose che non impediscono però a Blotto di attingere vette anche liriche, anche umoristiche e sempre di altissimo valore descrittivo e iconico. Perché “l’atteggiamento di Blotto non è puramente contestatorio: la distruzione (la messa in crisi) dei meccanismi è in realtà la ricostruzione delle loro macerie sotto altra forma, con altri mezzi, è la proposta (peraltro un po’ imperiosa) di non lasciarsi intimorire dal sublime, nel senso di gettare uno sguardo su di una vastità impressionante, che riguarda, come un Caspar David Friedrich delle parole, quella delle possibilità del linguaggio”[3]. Blotto è poeta ricchissimo, non solo della cultura che dimostra e trasfonde nei suoi versi, ma anche di una infinità di dati informativi, sensoriali, eidetici, linguistici, oggettuali e ideativi che fornisce al lettore. Il quale, se può essere soggetto ad un “sentimento di instabilità, di non comfort (concetto tutt’altro che peregrino, basti pensare al barthesiano “piacere del testo”)”, è perché viene “condizionato” anche cognitivamente. “Condizionamento” (usiamo ancora le virgolette) che, nel suo caso, “non riguarda soltanto l’espressione di una sua realtà, ma anche come questa realtà debba essere riformulata, tramite il linguaggio, nel pensiero, anche di chi legge”[4]. Non è una semplice seduzione, è la più alta corresponsabilità del lettore. Una esperienza che possiamo definire assoluta. (g.cerrai) Continua a leggere

Laura Liberale – Unità stratigrafiche

Laura Liberale - Unità stratigrafiche - Arcipelago Itaca 2020Laura Liberale – Unità stratigrafiche – Arcipelago Itaca 2020

 

Per una felice coincidenza ho avuto tra le mani questo ultimo libro di Laura Liberale dopo aver letto su La balena bianca la sua interessantissima recensione di Legati i maiali  di Teodora Mastrototaro (Marco Saya 2020).
La cosa c’entra  perché questo è il primo libro di Liberale che leggo, lo ammetto, e quella recensione in qualche modo mi aiuta a capire, per quanto sia sempre stato convinto che già il testo parli a sufficienza per sé. Ma a quanto pare anche le recensioni ci dicono qualcosa di chi le scrive, senza contare delle affinità di cui parleremo. In quel libro, opera singolare di poesia militante (non tanto e non solo nel senso poetico quanto in quello eticopolitico e ambientalista) si parla di morte, di morte procurata agli animali per farne cibo, di efferatezze crudeli nei loro confronti. Un libro che per quanto mi riguarda definirei disturbante (sebbene “davvero notevole”, come dice Liberale), anche per chi non sia, diciamo così, un convinto animalista. Verrebbe da ricordare (ma Liberale non lo fa) il Macello di Ivano Ferrari, un’opera che tuttavia – anche se per molti versi così simile a questa – mi pare da ascrivere ad un altro livello, quello di “un poeta fuori parametro e fuori asse” (Antonio Moresco),  nonché di un antesignano (Macello vede la sua prima apparizione nel 1995). Ma che cosa sottolinea Liberale del libro di Mastrototaro? Essenzialmente che la morte non ha una sua unicità, se solo la si considera da un punto di vista “altro”, di un altro, sia pur esso un animale deprivato della supposta coscienza della morte stessa, perché “per l’umano, il criterio ultimo di dignificazione del vivente è l’evidenza di quella parola-pensiero che, inutile dire, egli attribuisce a sé stesso”. Dal punto di vista del poeta, la questione è restituire a questa materia poetica “animale” o, come vedremo, disanimata, “il diritto alla parola, al nome, al verbo, all’attributo, al linguaggio delle parole” (Liberale cita qui il Derrida de L’animal que donc je suis) che l’uomo – direi io biblicamente – ha arrogato a sé stesso, e farlo senza tuttavia banalizzare, cioè “debordando nell’antropomorfizzazione, appellandosi a immediate ‘risposte’ viscerali prive di un profondo pensamento a monte”. Sull’altro versante, dalla parte opposta, sta – anche come rischio – una “reificazione totale” – per difesa dal dolore – dell’oggetto/soggetto senza che si lasci poeticamente aperto uno “spiraglio di relazione” con esso. E’ importante sottolineare che Liberale parla di Mastrototaro ma parla anche per sé, perché questa etica del linguaggio fa da pivot all’intero Unita stratigrafiche, traspare dalla cura significativa che Liberale mette nella scelta delle parole che usa, si sostanzia nell’approccio creativo alla sua propria materia poetica. Che è la morte, la morte osservata (Liberale è, tra l’altro, tanatologa, termine che ha peraltro diverse implicazioni), analizzata come compresenza ed esito (destino) di tutte le creature viventi, cessazione e tuttavia permanenza, fenomeno che travalica le dicotomie uomo/animale, vivi/morti, uccisori/uccisi, immagine ed estinzione di essa, conservazione e oblio, fascino e timore. Ed anche come non-comunicazione (comunione) o altresì  comunicazione “altra”, almeno quanto lo è una contemplazione, che necessiti in qualche misura di un “mezzo”, come vedremo. E tuttavia da tenere a debita distanza, poiché la morte è anche, da sempre, un altro mondo, più prossimo al metafisico, e perciò perturbante.

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