Un testo di Mario Diacono, tratto dal prezioso libro Mario Diacono – THE OCCULTA POESIA, tre libri, pubblicato nel 2021, da [dia*foria / dreamBOOK Editore (pag. 156, Euro 25,00 ISBN 9788899830496), che collaziona le oggi introvabili raccolte DENOMIsegniNATURA (1962), MYSTICFICACTIONS (texti 1962-1967) e r:Esistenza (testi 1975-2007).
Impossibile definire Mario Diacono (Roma 1930 – ): è poeta lineare e visuale (v. immagine in fondo all’articolo), artista sperimentale, mercante, critico d’arte e saggista (autore tra l’altro del primo saggio su Vito Acconci), gallerista scopritore e sostenitore di figure cruciali dell’arte contemporanea, traduttore tra gli altri di Joyce, Artaud e Michaux, amico di Emilio Villa e Sandro Penna, amico (e segretario per anni) di Giuseppe Ungaretti, autore teatrale, docente universitario, promotore di riviste d’arte e altro ancora.
Il testo qui riportato è tratto da r:Esistenza. Dire cos’è una poesia è forse dire ciò che contiene o non contiene, potenzialmente tutto e nulla, ed è dire anche – forse – chi è il poeta che la produce, che tuttavia ipotizzo sia per Diacono (o è auspicabile che sia) un poeta che deve evitare “la luce filosofica”, un “poeta sconosciuto”, come dice il verso “dem unbekannten Dichter”, espressa citazione del “dio sconosciuto” di Nietzsche, poeta a cui l’autore sembra indicare una strada, non escludendo, io credo, che la poesia, parafrasando il filosofo, debba essere conosciuta e servita. Evitando però “il significante della Mitteleuropa latente che si traduce in un binario morto”.
Un testo assai articolato, non facile e ricchissimo di giochi semantici, di riferimenti e incroci culturali, come quello appena citato. Ci si potrebbe divertire a rinvenirli, dai più “bassi” come il “kitsch Lorrain” che sbeffeggia la quiche lorraine ad allusioni più colte come il Caspar David Friedrich del “Viandante sul mare di nebbia” o l’Adorno del “dopo Auschwitz” o scenette surreali come quella di Freud che fa il “mind driver” su un bus della Quinta strada o diversi accenni alla cultura pop o agli artisti (come, mi par di capire, Ana Mendieta) di quella metà degli anni ’80. Buona lettura. (g.c.) Continua a leggere
Archivi categoria: poesia di ricerca
Augusto Blotto – Ragioni, a piene mani per l’ “enfin!”
L’uscita, avvenuta nell’aprile 2021, di Ragioni, a piene mani, per l’ “enfin!” di Augusto Blotto ([dia*foria / dreamBOOK, ISBN 9788899830519, pagg. 260, con interventi di Giacomo Cerrai, Philippe Di Meo, Chiara Serani, Stefano Agosti) tenta con la speranza di qualche successo non solo di ampliare la conoscenza di questo grande vecchio (Torino, 1933) della poesia italiana, ma anche di riaccendere l’attenzione su di un autore forse appartato ma certo non più adeguatamente analizzato, con rare eccezioni, dopo la giornata di studi a lui dedicata a Torino il 27 novembre 2009 (ora in Il clamoroso non incominciar neppure – Atti della giornata di studio in onore di Augusto Blotto (Ed. dell’Orso, 2010, con quattordici saggi di vari importanti autori).
Incominciamo col dire che questo volume non è una delle opere di Augusto Blotto, per il quale non vige affatto né il concetto di compiutezza “finita” né quello di un determinarsi conseguente e successivo del lavoro poetico né, forse, nemmeno quello ancora di tempo lineare, sebbene ogni suo libro abbia poi una sua precisa identità, una “aura che vi circola” come dice lui. È semmai una delle “emergenze”, degli affioramenti dell’inesausto lavorio blottiano. Blotto infatti è autore di un lavoro sterminato (circa ventisei opere a stampa e materiale per ipotetici almeno altri ventinove volumi), e anche questo libro è una sorta di carotaggio, una ricognizione campionaria per “estrazioni dai giacimenti” di quella che possiamo chiamare d’ora in avanti l’Opera, ovvero “l’enfin”, attualmente composto da oltre 2700 cartelle. Blotto, come scrisse uno dei suoi estimatori Giovanni Tesio, è un poeta “di sfide e dismisure”, un ricercatore indefesso che scava nel corpo immenso del linguaggio e della realtà che esso rappresenta, ne rivoluziona la sintassi, rivede senza patemi gli schemi metaforici, gli accostamenti di senso, le immagini che ne derivano, insomma un osservatore acribico del mondo che egli, grande camminatore, percorre come uno specialissimo flâneur ricevendone stimoli fluviali che l’autore organizza ed ha organizzato nel corso del suo lavoro in quello che Daniele Poletti nell’introduzione definisce un mastodontico iperoggetto letterario, uno spazio vasto che ricomprende tutti i paesaggi in cui Blotto ha fatto irruzione ridefinendoli in una nuova matrice. Ed è il linguaggio una delle maggiori peculiarità della sua poesia, una lingua non meramente strumentale né mimetica del caos del mondo, della sua incomprensibilità, ma intesa – tra le altre cose – come manifestazione del tempo (letterario ed esistenziale) quale “visione sincronica ed onnivora della realtà”, ove “il tempo è momento, o un luogo quasi topologico in cui precipitano le cose, gli oggetti, gli “accidenti” – nonché il linguaggio che li determina – e che ha una durata pari a quella del testo che li contiene, ma che non ha altra rappresentazione per così dire “lineare” o analogica, non fluisce, non ha nemmeno la figurazione di un prima e di un dopo attraverso la sintassi, la cui mobilità è segnale semmai che la realtà “avvenuta” è soggetta a una continua (finché il testo lo consente) revisione testimoniale”[1]. Ma “il linguaggio sembra avere per Blotto un peccato originale, una tabe, variamente connotata, in primis dalla rigidità del codice, con il quale tuttavia, in quanto materia, dobbiamo avere a che fare (non dimenticando che il linguaggio nella sua essenza è sempre “narrativo”, sequenziale, ordinatorio, e vive nel tempo che il testo si è dato, come abbiamo detto). E poi connotata da un comfort associativo, con cui la mente giunge a conclusioni “economiche”, in qualche caso anticipatorie, “usabili” e quindi in varia misura scontate”[2]. È l’ “ordine costituito del linguaggio” che viene da Blotto rivoluzionato, anche spessissimo sotto il profilo sintattico, cose che non impediscono però a Blotto di attingere vette anche liriche, anche umoristiche e sempre di altissimo valore descrittivo e iconico. Perché “l’atteggiamento di Blotto non è puramente contestatorio: la distruzione (la messa in crisi) dei meccanismi è in realtà la ricostruzione delle loro macerie sotto altra forma, con altri mezzi, è la proposta (peraltro un po’ imperiosa) di non lasciarsi intimorire dal sublime, nel senso di gettare uno sguardo su di una vastità impressionante, che riguarda, come un Caspar David Friedrich delle parole, quella delle possibilità del linguaggio”[3]. Blotto è poeta ricchissimo, non solo della cultura che dimostra e trasfonde nei suoi versi, ma anche di una infinità di dati informativi, sensoriali, eidetici, linguistici, oggettuali e ideativi che fornisce al lettore. Il quale, se può essere soggetto ad un “sentimento di instabilità, di non comfort (concetto tutt’altro che peregrino, basti pensare al barthesiano “piacere del testo”)”, è perché viene “condizionato” anche cognitivamente. “Condizionamento” (usiamo ancora le virgolette) che, nel suo caso, “non riguarda soltanto l’espressione di una sua realtà, ma anche come questa realtà debba essere riformulata, tramite il linguaggio, nel pensiero, anche di chi legge”[4]. Non è una semplice seduzione, è la più alta corresponsabilità del lettore. Una esperienza che possiamo definire assoluta. (g.cerrai) Continua a leggere
Laura Liberale – Unità stratigrafiche
Laura Liberale – Unità stratigrafiche – Arcipelago Itaca 2020
Ilaria Boffa – About sounds about us (Di suoni e di noi)
Ilaria Boffa – About sounds about us (Di suoni e di noi) – Samuele editore, 2019
Un libro interessante, questo di Ilaria Boffa, che pone delle questioni rilevanti (e anche dei problemi) che cercheremo di vedere. In versione bilingue, con testo a fronte in inglese, composto dalla stessa autrice e dalla medesima tradotto in italiano (con altre collaborazioni per alcuni brani), il libro parte dall’idea-progetto di una “poesia sonora”, come ricorda Patrick Williamson nella prefazione, ovvero di testi in cui l’elemento fonico, sonoro sia parte preponderante, sebbene non esclusiva, del significato, del livello comunicativo, almeno tanto quanto ciò che possiamo definire come “tema” o motivo dello scritto stesso. Dovrebbe essere, il libro, il punto di coagulo o di affioramento di un percorso artistico in cui è coinvolta l’autrice, che come si legge in una nota “dal 2018 produce lavori che uniscono poesia e field recording in collaborazione con musicisti italiani e stranieri”. Come avverte il prefatore, si tratta di mettere in opera una “forma poetica nello spazio sonoro tra i suoni, i versi e le lettere”, là dove “le parole sono macro strutture che contengono informazioni ma le unità verbali sottostanti agiscono semplicemente come elementi sonici”, raggiungendo (o tentando di raggiungere) “una messa in atto poetica di uno stato di consapevolezza non-duale che collassa la suddivisione soggetto-oggetto” (quest’ultima affermazione, per la verità, appartiene a Timothy Morton, teorico degli iperoggetti e della realtà “viscosa”). E’ questa l’ambizione di fondo del libro, anche se mi pare che alcuni di questi concetti in realtà appartengano da sempre alla poesia. Dico subito che in questa raccolta non c’è niente, nemmeno a livello di citazione, della poesia sonora come storicamente la intendiamo in Italia, almeno non quella che ruota intorno a nomi come Giovanni Fontana, Arrigo Lora Totino, Julien Blaine, Adriano Spatola, Gian Pio Torricelli e altri. Il suono in questa poesia deriva, come rimarca anche Williamson, in gran parte dall’uso abile di certi strumenti retorici e pararetorici, dalla selezione verbale per la quale “il suono si adagia su precisi schemi di vocali e consonanti tramite assonanze, allitterazioni, quasi rime e ripetizioni”, come annota Williamson, che di seguito porta l’esempio del primo testo del libro (The sounds of language/I suoni del linguaggio – v. sotto). A questo va aggiunto un uso esteso di “‘s’ sibilanti come suoni iniziali o terminali quasi ad incollare insieme i propri testi, in particolare in Sustain/Sostieni (v. sotto), e una terminologia sonora” (terminologia quale lo stesso sustain, come sa qualsiasi musicista. Andrebbe comunque marginalmente osservato che la citazione di terminologia sonora non è poesia sonora, è semmai metapoesia). Continua a leggere
Robert Lax – da Il circo del sole
L’uscita in Italia di un libro di Robert Lax (Il circo del sole, Ed. Il Ponte del Sale, 2020) è un avvenimento che va celebrato. Perché questa è la prima volta che un lavoro di questo grande poeta americano viene presentato nel nostro paese, colmando almeno in piccola parte una vera mancanza culturale. Questa uscita presso Il Ponte del Sale è il frutto dell’impegno congiunto di Giampaolo De Pietro (curatore, di cui possiamo leggere in calce una intensa nota di lettura, non presente nel libro), Graziano Krätli (curatore e traduttore), Renata Morresi (traduttrice), Andrea Raos (qui postfatore ma da tempo conoscitore e appassionato divulgatore di Lax) e Francesco Balsamo (autore delle sei tavole che illustrano il libro).
Lax è un poeta che, soprattutto in relazione alla produzione posteriore a questo libro, è annoverato tra le espressioni più significative della poesia concreta e minimalista internazionale (sebbene qualche critico lo consideri un “minimalista astratto”, forse perché capace di realizzare vertiginose visioni con poche semplici parole, come un percorso tendente, alla fine, ad una estrema rarefazione, quasi ad una aspirazione al silenzio bianco). Questo lavoro, che risale al 1959, è diverso, è per questo che, come suggerisce Andrea Raos, “questo libro di Lax va letto al contrario, a viceversa, mantenendo impresse nella memoria le poesie-immagine della sua maniera matura: due, tre parole ripetute in ripetute combinazioni e disposizioni, spesso pochi segni per pagina. (…) Così, letto al contrario, Lax rivela un’ebollizione di vita [per Lax il circo è metafora della Creazione] di una purezza che commuove, sapendo fin dove lo avrebbe portato. (…) La trasparenza di questa scrittura, che è già quella delle sue opere mature, è quella di un quotidiano che sprigiona senso, bellezza, culmine di esperienza anche quando, quasi sempre, non accade nulla di speciale”. E tuttavia “alcune poesie di Circus of the Sun sono così dense, così piene, che già per contrario prefigurano il vuoto delle ultime (sempre Lax scrive “in the beginnings, beginning and end were in one”), perché consistenti nella concentrazione e nell’intensificazione di un numero ridotto di elementi”. Sono dati più che sufficienti per leggere Lax con la necessaria attenzione e per attendere con ansia che qualche editore coraggioso (perchè – ancora Raos – “libri difficili, nel senso di costosi, da stampare: decine, centinaia di fogli per una manciata di parole”) si assuma l’onere e il merito di pubblicare le altre fondamentali opere di Lax. (g.c.)
Il varco nel muro – una nota su Afa epifanica dello steccato di Marina Pizzi
Pubblico qui l’articolo che appare sul n.4/2020 della rivista Menabò di prossima uscita, con il quale credo davvero di avere esaurito il mio lavoro su Marina Pizzi, autrice di cui mi sono occupato svariate volte nel corso del tempo (v. QUI e QUI). La nota riguarda il suo ultimo libro, Afa epifanica dello steccato – Terra d’ulivi ed., 2019.
Il varco nel muro
Conosco Marina Pizzi da un bel po’ di tempo, in tanti suoi libri, tanto da coltivare alcune convinzioni. Ad esempio, mi ero persuaso che l’acquisizione da parte sua di una voce e uno stile duraturi nel tempo fosse anche una sua maniera, un modo per radicarsi nel mondo con almeno qualche certezza. Ma con lei mica puoi sapere. Così, quando ero arrivato alla constatazione di stare contemplando una specie di monolite kubrikiano della poesia italiana, ecco che lei se ne esce con un libro che, sì, ripropone certi suoi stilemi, una sua ancora accanita propensione a mettere in mora le parole, discreditarle e riaccreditarle, a decontestualizzarle piantandole come menhir smemorati in mezzo al verso o facendole slittare di senso, a strapazzare la sintassi, tendere all’oscurità del dettato; ma qui, in questo ultimo libro, trovo anche una discontinuità, una specie di varco nel muro, la possibilità di gettare uno sguardo su uno spazio privato che per molto tempo era rimasto nascosto, non tanto o non solo perché custodito da un naturale riserbo, ma perché sommerso in profondità abissali della psiche, di un dolore dell’anima e un horror vitae su cui si scagliava il linguaggio duro e puntuto di Marina. Avvisaglie certo ce n’erano già state, ad esempio in Segnacoli di mendicità (CFR, 2014), ma anche, per indizi palesi, altrove. Tanto che qui non solo si evidenziano esplicitazioni del privato (“Ebbi un amore giovanile / Più giovane di me di sette anni”; “…Mia madre se ne andò / Con le preghiere in gola nel mormorio / Dei gatti nel cortile”), ma anche, come quasi richiede la materia, affioramenti di una liricità di assoluto livello, magari anche solo per pochi ma illuminanti versi (“In un registro di crisantemi t’amo / Vetusta andata della giovinezza”; “Aureole di baci ultimi sonnambuli / Nature fossili i tramonti”). Certo il nucleo centrale è ancora quello di una dolorante esistenza, nel quale i vuoti vengono colmati (o si tenta di colmarli) con un iperlinguaggio la cui principale caratteristica sono gli accostamenti radicali e apparentamente insensati, con una iperdescrizione di porzioni di realtà la cui esuberanza è direttamente proporzionale alla consapevole impossibilità di raggiungere una qualche pacificazione. In questo senso il linguaggio di Marina è una medicina amara ma irrinunciabile – e perciò il lavoro di Pizzi è potenzialmente infinito, proliferante, come ho scritto altrove – un inevitabile pharmakon, insieme cioè un curativo e un veleno (esattamente come, nel Fedro platoniano, è per Socrate il testo scritto). Lo è anche, ovviamente, per il lettore, al quale è richiesto di mettere in discussione quella parte di ordinarietà da cui è affetto il linguaggio di ciascuno e di accingersi ad una lettura non passiva, per quanto seduttivo possa essere il mero abbandonarsi anche al solo impulso sonoro che questa poesia, dove sspuntano metri classici, irradia. Insomma, come scrivevo in altra occasione, “la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E’ una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici”. Da questo punto di vista forse quest’ultimo libro, in qualche misura e nei limiti del possibile, è più “leggero”, anche per le ragioni suddette. Ma è indubbio che certi punti oscuri, che spesso assomigliano a quelli della poesia della Rosselli che reputo essere uno degli “antenati” di Pizzi, certe immagini perturbanti come un quadro di Max Ernst (non mancano tratti surrealisti in lei) debbano essere assimilati e accolti, come pure certi termini feticcio come “gerundio” (“gerundio di fallacia il mio tramonto”), che rimanda direttamente a qualcosa di indefinito, ad un processo o un sentire sempre relazionato ad “altro” o singolari metafore (“gheriglio amanuense il mio ceervello / vellutato dal soffio di amore”). Insomma il consiglio che mi sento di dare è cercare sempre, nel testo, di individuare un nucleo, una associazione per quanto astratta, una metafora in genere più concettuale o cognitiva che meramente retorica o analogica. E’ lì che tutto si svela. (g. cerrai)
Continua a leggere
Edoardo Olmi – Poesie
Ho sentito Edoardo Olmi leggere in occasione del reading “NO WAR – HUG PEACE” qui a Pisa, per il World Festival poetry del 21 giugno scorso. Gli ho chiesto di mandarmi qualche testo, avevo trovato dell’interesse nella sua poesia. Qualcosa di indefinibile al momento, perché la lettura da parte dell’autore, va detto, non sempre aiuta, e questo vale anche per Edoardo.
Insomma, eccole qua: la poesia letta in quell’occasione, un’altra inedita e altre tratte dalla raccolta R:exist-stance (Ensemble edizioni), per la quale ha avuto dei riconoscimenti. Leggendo e rileggendo, quindi, occorre trarne qualche osservazione, non necessariamente o non solo critica, o anche forse qualcosa riguardo a una fenomenologia di molta poesia attuale. Che è, volente o nolente, innanzitutto di confine, ma non uno culturale o geografico che ci regali “un homme de deux pays” come direbbe uno dei miei francesi preferiti. No, è il confine metaforico che sta tra stanziale e nomade (parlo sempre di poesia), tra parola scritta, e cioè in qualche modo definitiva, e parola detta, o che comunque come tale è sentita anche dall’autore, con tutta una sua fluidità, insomma una poesia che sembra destinata alla voce. Mentre l’orizzonte culturale, invece, è sostanzialmente stabile, legato per lo più ad un quotidiano “esemplare”. Confine che poi – tornandoci sopra – è vago, comunque attraversabile, interscambiabile a piacere, da un punto di vista stilistico, almeno nei punti in cui si affaccia il narrativo, l’allusione del parlato, il gergale, il flash quasi cronachistico, il rimando pop e, soprattutto, il sound urbano che sembra diventato un tratto generazionale, l’ipostasi di una relazione col mondo. Che mi pare sia, in Olmi e in altri, quella del tentativo di ricomposizione del senso per schegge e frammenti, senso che ha una sua sintassi che deve essere mimata e sovrapposta, un calco per strati ed eccezioni, per esemplari mineralologici e reperti viventi, per luoghi dove è possibile scrivere – forse con qualche angoscia ma fregandosene della Storia – I was here. In un tempo che “ha la durata che gli dai”, in relazione alla esperienza che lo connota. Un tentativo non passivo, che cioè non subisce del tutto le schegge ma opera una selezione, non descrittiva di cose ma di sensazioni, o espressioni se volete. In questa selezione l’interessante è la ricombinazione degli accostamenti, degli attributi, delle connotazioni visive, i salti di luogo e forse di tempo, uno sguardo sulle cose e sugli eventi – sempre comunque non troppo lontani – a spot. Il che non vuol dire che quelle cose (compresi oggetti anch’essi in qualche modo “esemplari”) e quegli eventi siano di per sé memorabili, ma che semplicemente sono coaguli o tangenti, punti in cui la pelle o l’interesse dell’autore sono stati toccati, e insieme ragioni necessarie e sufficienti a poetare. Possono anche sembrare una serie di momenti, elencati e denominati, che però non è detto che identifichino una linearità del tempo/narrazione, quanto una specie di presente congelato in cui viceversa come in certi film l’autore si muove a velocità accelerata. Lo stesso, mi pare, vale per il linguaggio che mostra qualche ingenuità, spesso apparente perché è impeto, freschezza, fiducia non intellettualistica nella parola, cioè una parola che vuole apparire più veloce nell’essere scritta che nell’essere pensata, e quindi più “vera” o, spingendo un po’ sull’acceleratore, più “bruta”. Naturalmente questa “spontaneità” è del tutto voluta, il che sarebbe un ossimoro, se non facesse parte del gioco creativo, nonché dell’adesione a moduli collaudati della poesia contemporanea (ma anche un po’ beat, almeno per il ritmo), ad una rivendicazione (giusta) di revisione di cosa sia o non sia poetabile della propria esperienza. Insomma è questo gioco di contrasti, di sbalzi, di piccoli glitch semantici, collegati tutti ad una visione disillusa ma comunque critica della realtà ad essere interessante in questi lavori di Olmi. (g. cerrai)
Simona Menicocci – Saturazioni
Simona Menicocci – Saturazioni – Diaforia 2019, saggio introduttivo di Luigi Severi
Scrive infatti Simona Menicocci in una nota: “In questo libro il lettore troverà testi difficili da maneggiare, difficoltà che vorrei non fosse intesa come una forma velleitaria e anticomunicativa postavanguardista, bensì come un’inchiesta sulla storia umana. Ogni testo, infatti, centripeta sulla pagina uno o più eventi della cronaca umana contemporanea, affrontati obliquamente; non esprime un’esperienza privata del male, ma problematizza le possibilità di costruire e organizzare, a partire dai materiali del mondo (eventi e discorsi), esperienze linguistiche e affettive che possano essere comuni. Un’inchiesta che quindi non può slegarsi da quella sul rapporto tra uomo e realtà, tra linguaggio e storia, tra scrittura e male, intesi in chiave materialistica e non certo ontologica.
Due i punti di riferimento, gli eventi storici centrali e paradigmatici attorno cui sono nati questi testi: Auschwitz e Hiroshima. Non interpretati come catastrofi eccezionali, parentesi in cui la storia si è interrotta, bensì come eventi iperrazionali e ripetibili, in continuità con lo sviluppo di una cultura fondata sul progresso tecnico-scientifico volto all’autopotenziamento costante, che, come ha brillantemente analizzato Gunther Anders, ha portato l’uomo dalla condizione di soggetto della storia a quella paradossale e tragica di soggetto antiquato a causa del suo gap prometeico rispetto alle conseguenze della tecnica, del «dislivello tra il fare e l’immaginare, l’agire e il sentire». Come si vede Manicocci ha perfettamente chiare le sue opzioni e le sue intenzioni, i suoi materiali e le sue tecniche, nell’ottica (e a conferma) di quanto dicevo all’inizio.
Gianni Toti – Chi è il poeta?

*) Il questionario fu utilizzato in quegli anni anche nell’antologia “Donne in poesia”, curato da Annamaria Frabotta nel 1976, una “inchiesta poetica” in quel caso orientata sul fare poesia femminile/femminista. E’ poi rispuntato sotto diverse specie in anni successivi.
(foto di Gabriella Maleti)
Segnacoli di Marina – una nota su Marina Pizzi
Un articolo su Marina Pizzi, apparso, salvo errori, sul n. 3/2018 di “Versante ripido”, non ricordo se con diverso titolo (*). Lo ripropongo qui, con alcuni inediti tratti da “Feritoie ogivali (2017-2018)”, a sigillo di quanto ho già scritto sul lavoro di Marina almeno nell’ultimo decennio.
Segnacoli di Marina
Conosco la poesia di Marina Pizzi da un po’, almeno dal 2006, quando pubblicai una prima piccola nota sul blog “Imperfetta Ellisse”. Dovrei averne una certa dimestichezza, quindi. Ma con Marina non si può mai sapere. Perché, non ostante la sostanziale invarianza nel tempo della sua scrittura, come stile e come “forma” delle sue parole, c’è qualcosa nei suoi versi che ogni volta apostrofa il lettore, richiamandone l’attenzione. Credo però che sia qualcosa che interpella lei per prima, qualcosa di necessitante che non ha trovato riposo in tutti questi anni. Perché è potenzialmente incessante, un flusso che trova la sua prima evidenza nella numerazione seriale dei suoi testi, e poi una sistemazione con la pubblicazione su carta, in diversi libri, una sistemazione che tuttavia sospetto essere inquieta, in teoria suscettibile di essere rimessa in discussione. Il suo lavoro mi è sempre parso, forse a torto, un unico work in progress, con un nocciolo tematico duro che riguarda soprattutto la domanda di una ragione, o una giustificazione se volete, della vita e dei suoi accidenti, cioè del suo perché. Una questione tutt’altro che generica, credetemi, tanto vasta quanto sufficiente ad innescare quel flusso necessitato di cui si diceva. Sufficiente cioè a generare quella pressione che si scarica da ultimo sulla lingua, ma prima ancora, per usare una metafora, nel cranio e sui denti dell’autrice. Una pressione fortissima che ha bisogno di essere verbalizzata, ma che prima ha bisogno di essere selezionata, di essere filtrata tra quei denti serrati. L’angoscia di Marina è, in fondo, che per questo scopo non ci sia altro mezzo che le parole. Quali parole? Scelte come? E’ questo, secondo me, l’atto doloroso della scrittura di Pizzi, l’emergenza creativa che nasce magari da una semplice scheggia, un’assenza, una domanda d’amore.
Pizzi rientra a buon titolo nel novero degli autori “difficili”, come Amelia Rosselli (forse suo nume tutelare), come in parte Antonio Porta, come Marco Ceriani o l’enorme ma poco noto Augusto Blotto, o come altri, alcuni dei quali per un po’ della loro carriera hanno “sperimentato”, approdando poi ad altri lidi. Marina non è così, è invariante, come ho detto prima, non sperimenta. La pressione, raffreddandosi, non può che solidificare così, in queste forme. Nel tempo mi è parso di rilevare alcuni snodi, che soprattutto con la lingua/parafulmine hanno a che fare. Se è vero che per Marina non c’è altro mezzo che le parole, mi pare anche vero che in lei c’è una sostanziale e contemporanea sfiducia nel mezzo, nella intrinseca ordinarietà della lingua. Che pertanto deve essere sottoposta, nell’atto di poetare, non tanto ad una torsione, termine quanto mai abusato, ma ad una lacerazione, una disarticolazione nei suoi tessuti connettivi, per andare a vedere se al di sotto di essi c’è un’anima, un significato coerente. Significato di che? Di quella vita che a Pizzi appare pesante, e forse poco felicemente abitabile, ma anche di una morte che viene costantemente “contemplata”. La lingua a volte sembra esserne mero epifenomeno, di una realtà che è troppo sfuggente per essere amata o compresa o rispetto alla quale ci si sente inadeguati; o sembra essere il rumore di fondo, l’ “ambiente sonoro” (G. Lucini) di una lontanissima galassia. Da questo punto di vista in passato avevo scritto che “la poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore, la sua scrittura e’ ego-centrata e in quanto tale e’ pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilità) cosi’ come lo vede l’autrice” e che “da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E’ una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici”. Codici che riguardano soprattutto quello che chiamavo il particolare sistema metaforico (o metonimico) di Pizzi, nel quale non vige tanto l’accostamento, la (vero)simiglianza, quanto la distanza siderale, e dove non c’è niente da confrontare perché le cose si sustanziano alla sua sensibilità di poeta di ben altre qualità, sono letteralmente qualcos’altro, qualcosa più concettuale o cognitivo che meramente retorico (“mia madre è stata un piatto / da schianto sulla terra / una leccornia di vita”, Plettro di compieta, 2015; “Arazzo di comete fu la fine / Del rantolo finalmente alato / Lì giù mio padre che chiama ancora / E la madre che d’improvviso si fa / Poliglotta. Miracolo d’andarsene / Cortesi oltre il cimiteriale corso”, inedito). Un linguaggio, come si vede, in larga misura economico, perché veicola molto con poco, pur dissipando in quel poco molta energia, un linguaggio molto vicino alla “sorgente” del pensiero, ma anche ad una percezione quasi nervosa del dolore e della “privazione” (intendendo questo termine in senso ampio). Paradossalmente, tuttavia, quella lingua “limitata”, tanto da doverla in qualche modo riformare, diventa materiale plastico, elastico, anche col ricorso a metri non proprio canonici (per quanto spesso si affacci l’endecasillabo) ma senz’altro fonici, e anche con una certa liricità connaturata ai temi più intimi, quando emergono (“essere in vita è un criterio sperduto / un alunno senza lavagna né voce / di maestro”, Segnacoli di mendicità, 2014, ma gli esempi possono essere molteplici). In definitiva ciò che serve nell’affrontare la poesia di Pizzi non è tanto una cocciuta richiesta di senso, o di comunicazione immediata, quanto essere disposti a quello sforzo supplementare di cui parlavo. Leggere, rileggere, individuare i temi, che invece sono chiari. Farsi domande. Queste domande, alle quali una risposta forse arriverà forse no, sono il senso della lettura della poesia di Marina Pizzi. (g. cerrai)
(*) il titolo in rivista è “Non c’è altro mezzo che le parole”, pag. 30 del numero citato di “Versante ripido”.