Archivi categoria: poesia russa

Daniil Charms – Incendio

Daniil Charms – Incendio – a cura di Simonetta De Bartolo, prefazione di Paolo Nori, introduzione di Valerij Sažin – Sandro Teti Editore, 2022

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Chi era Daniil Charms? Un personaggio complesso, il cui vero nome era Daniil Ivanovič Juvačëv, scrittore nato a Pietroburgo nel 1905, morto a Leningrado nel 1942, “realistico e surreale insieme”, dice Paolo Nori nella breve prefazione, perché in quel periodo in Unione Sovietica tutto era drammaticamente reale e surreale allo stesso tempo: “credo che, negli anni Trenta, in Unione Sovietica, quando Charms scriveva le cose che ha scritto, intorno a lui ci fosse pieno di uomini che non avevano occhi né orecchie, che non vedevano e non sentivano quel che succedeva intorno a loro”, proprio come – letteralmente – un personaggio di uno dei suoi racconti. Da un certo punto di vista è già abbastanza surreale (e molto russo) che sia vissuto in tre città diverse: “Al momento della nascita di Charms, la sua città natale si chiamava Pietroburgo da duecento anni. Il ragazzo non ha ancora nove anni che si “ritrova” a Pietrogrado – così la città viene ribattezzata alla maniera russa il 18 agosto 1914, per motivi patriottici (la guerra con la Germania). Nel gennaio del 1924 il diciottenne futuro scrittore viene trasferito dal potere sovietico a Leningrado. Senza muoversi nello spazio, Charms si è ritrovato a essere abitante contemporaneamente di tre diverse città e di tre mondi diversi!” (Valerij Sažin, nell’introduzione). In questi mondi Daniil era comunque fuori posto («Danja era strano. Era difficile, probabilmente, essere più strani di lui», Marina Malič, moglie di Charms), con il gruppo di avanguardia che aveva fondato, Oberiu, con le sue pose da dandy, le sue eccentriche letture poetiche, soprattutto con i suoi scritti, alcuni dei quali considerati pornografici e antisovietici, che lo portarono in carcere già nel 1931 e infine, nel 1941, nell’ospedale psichiatrico di Leningrado, dove morì l’anno successivo di stenti (la città viveva il tremendo assedio nazista e gli internati non erano certo una priorità). Aveva 37 anni e in vita aveva pubblicato solo dei libri per l’infanzia, alcuni dei quali ora tradotti in italiano. Il resto della sua opera è postumo ed è sufficiente a farlo considerare come “la letteratura dell’assurdo prima della letteratura dell’assurdo, vent’anni prima di Beckett e Ionesco” (ancora Paolo Nori). Ma con una sorta di fede nella scrittura e nell’arte, inscindibile dalla vita: “Un tema costante in Charms è il miracolo e colui che è capace di fare miracoli ma non li fa. Il miracolo sta naturalmente a significare la creazione di una vera opera d’arte, una poesia che, come dice Charms, se gettata contro la finestra, fa rompere il vetro” (Simonetta De Bartolo). Continua a leggere

Pavel Arsen’ev – Lo spasmo di alloggio

Pavel Arsen’ev – Lo spasmo di alloggio, a cura di P. Galvagni – Arcipelago Itaca, 2021Pavel Arsen’ev - Lo spasmo di alloggio, a cura di Paolo Galvagni - Arcipelago Itaca, 2021

Davvero interessante questo libro antologico curato da Paolo Galvagni, traduttore dal russo (e in russo) di importanti autori del Novecento e contemporanei (da lui tradotto avevo letto e recensito per la rivista “Menabò” il misterioso I frutti della meditazione di Koz’ma Prutkov, altrettanto interessante). Pavel Arsen’ev è nato nel 1986 a Leningrado / San Pietroburgo dove vive, a parte residenze di studio all’estero (è attualmente dottorando all’Università di Ginevra), è vincitore del prestigioso Premio letterario “Andrej Belyj”, ed è tradotto negli USA e in italiano nel volume Tutta la pienezza del mio petto, poesia giovane a San Pietroburgo (Lietocolle 2015, trad. P. Galvagni) e nelle riviste “Le voci della luna” e “Atelier”.

Lo spasmo di alloggio è un termine tecnico per definire una contrattura del muscolo ciliare che impedisce un corretto aggiustamento della visione oculare, inducendo una falsa miopia, un disturbo di cui soffre lo stesso Arsen’ev. La difficoltà di concentrare lo sguardo, un vagabondare dell’occhio dal vicino al lontano è per l’autore metafora, mi pare di capire, dello sforzo necessario per incrociare una visione poetica che comprenda quello che ci è prossimo, l’individuale, l’esistenziale e insieme il sociale, il politico, quello che riguarda tutti  o per intrecciare un ambito creativo all’altro. Come leggiamo nella nota curata da Galvagni, infatti Arsen’ev afferma: “Se l’arte è uno stile disordinato di vita, con tele e bottiglie disseminate in un laboratorio e la scienza invece è un’occupazione da studiolo, accompagnata da occhiali e calvizie, passare dall’una all’altra è praticamente impossibile. Io tuttavia credo che entrambe queste sfere nel loro aspetto trascurato risultino essere un tradimento: l’intero che si è disgregato; e noi siamo in grado di opporci alla disgregazione della pratica integra in specialità isolate. Nietzsche esortava a una “scienza allegra” (Le gai savoir), e Marcel Duchamp parlava dell’arte del pensiero (cosa mentale); a me sembra che occorra orientarsi verso questi ideali incrociati…”. È una decisa dichiarazione di poetica, decisamente contemporanea e convintamente “civile”, tanto che Arsen’ev si pone come “legame vivo tra l’arte dell’avanguardia sovietica degli anni ‘20 del XX secolo e il pensiero materialistico contemporaneo” (Galvagni), con un approccio complessivo che forse potremmo definire postmoderno, se questo termine avesse un senso nella realtà della Russia di oggi. Come annota ancora Galvagni, “Pëtr Razumov afferma che Arsen’ev non scrive versi, ma crea la poesia. Le sue “uscite” marxiste e le meditazioni ironiche non appartengono al corpus prosodico della lirica russa, ma appaiono simili a quanto è esposto in un museo di arte non conformista: sono bombe linguistiche destinate a diventare un’arma nella lotta sociale per l’esistenza. D’altronde non sono prive degli attributi tipici della lirica tradizionale: l’ironia e la malinconia”. Arsen’ev recupera e rinnova una poesia “politica” che dopo la caduta dell’URSS era andata scemando, forse nella dissoluzione delle ideologie e degli schieramenti netti. “Arsen’ev – annota ancora Galvagni – è un poeta impegnato che formula una critica alle numerose forme di alienazione sociale e politica nella Russia contemporanea. Tanto nella poesia, quanto nell’attivismo politico, egli tenta di superare la futilità dei metodi tradizionali di resistenza. I versi civili non sono più significativi, come un tempo, essendo stati modificati dallo Stato e dagli interessi commerciali. La risposta di Arsen’ev è tesa a convertire il ruolo del poeta, che agisce come “reporter sul campo”, che produce frammenti di lingua quotidiana. Non a caso il testo La nota del traduttore [v. sotto] consiste di frasi ricavate dalla traduzione russa di un trattato di Wittgenstein: in un contesto trasformato, questi brandelli assumono nuovi significati, costringendo l’autore a riconsiderare la nozione tradizionale di originalità”. (g.c.) Continua a leggere

Marina Cvetaeva – La principessa guerriera

Marina Cvetaeva - La principessa guerriera - Sandro Teti EditoreUn libro di Marina Cvetaeva è sempre una notizia. È da poco uscito (Settembre 2020), pubblicato da Sandro Teti Editore, La principessa guerriera, testo a fronte, traduzione, introduzione e note di Marilena Rea, postfazione di Monica Guerritore, con immagini originali dell’opera pubblicata a Mosca nel 1922 (edizione GIZ). Come si legge nell’introduzione di Rea:

“Nell’universo Cvetaeva il poema Zar-fanciulla (Car’-devica), una fiaba in versi (poėma-skazka, recita il sottotitolo), occupa un posto cardinale. Perché venne composto nel 1920, anno di enormi privazioni, di miseria, freddo e lutto: tra memorie tracciate febbrilmente nei diari e nelle lettere, guerra civile, mercato nero, un marito al fronte e la morte della piccola figlia Irina. Perché è l’espressione più complessa di quello che Cvetaeva chiama la sua «linea russa», cioè l’immaginario folclorico, epico e fiabesco – «Voi sapete quanto io ami l’arte popolare (NB! Io stessa sono il popolo!)». E soprattutto perché è sempre stato considerato da Cvetaeva la sua «cosa migliore». In un tempo astorico e ciclico, tipico della tradizione folclorica, ripartito in tre Notti e tre Incontri fondamentali (più una breve Notte ultima e una Fine), si consumano le vicende di quattro personaggi: lo Zar ubriacone, la Zarina di seconde nozze, lo Zarevič, e lei – la protagonista assoluta: Zar-fanciulla, la principessa guerriera, la gigantessa dal nome androgino, l’amazzone russa, insieme donna e re. Suo è il regno al di là dei mari, sua è la forza ignea, suo è il dominio sugli elementi del creato; di altezza smisurata e potenza da bogatyr’ (l’eroe epico delle byliny), principio universale maschile, simboleggia la forza attiva del Sole: ha il volto tondo e radioso che ustiona chiunque si accosti, ha una folta chioma riccioluta di un rosso infuocato, vive in un rosso palazzo, guida un Vascello di Fuoco, siede in un rosso padiglione; e, infine, agisce sempre di giorno, durante gli Incontri. Cvetaeva iperbolizza la principessa guerriera della tradizione, protagonista delle due fiabe russe (la n. 232 e la n. 233) raccolte in Narodnye russkie skazki dell’illustre etnologo Aleksandr Afanas’ev, un libro di fiabe ricevuto in dono nel 1915 dagli amici pietroburghesi Jakov Saker e Sofija Čackina, un libro amato, probabilmente uno di quelli con cui «mi bruceranno», scrive Cvetaeva nel 1926. Guerriera, eretica, santa, pellegrina, strega – sono tante le maschere in cui Cvetaeva racconta il suo rifiuto nei confronti del ruolo convenzionale della donna, a partire dalla lirica Se ti chiamo caro – non ti annoiare (1916), fino ai poemi coevi di Zar-fanciulla (Il Prode, Sul cavallo rosso, Vicoletti); un popolo di donne leggendarie – Pentesilea, Brunilde, Giovanna d’Arco – marcia in filigrana con lo stesso passo militare di Zar-fanciulla, finendo per sovrapporsi alla stessa Cvetaeva”. Continua a leggere