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Alfonso Guida – L’acqua al cervello è una foglia

Alfonso Guida - L'acqua al cervello è una foglia - Edizioni dello straniero, 2023Alfonso Guida – L’acqua al cervello è una foglia – Edizioni dello straniero, 2023

 

Un libro cospicuo (quasi 280 testi, fatto insolito nella produzione poetica attuale, assiepati in 150 pagine) questo di Alfonso Guida, lucano classe 1973, vincitore nel 1998 del Premio speciale Dario Bellezza opera prima e nel 2002 del Premio Montale e autore di svariate raccolte. Si tratta della riedizione, voluta dai curatori della collana Controfiato che lo ospita Antonio Bux e Carlo di Francescantonio, del volume dallo stesso titolo uscito nel 2014 per Lietocolle, un’operazione di recupero dettata soprattutto dalla convinta stima degli stessi per l’autore.

Guida è poeta lirico fin nel midollo, e in effetti, quanto meno nell’ambito di questa opinabile “categoria”, come qualità di scrittura uno dei migliori che abbia letto ultimamente. Il libro è un’ininterrotta serie di testi, senza titolo, senza data e senza divisione in sezioni, cosa che probabilmente ha un senso (o un filo, che si scopre solo leggendo), ma che comunque permette di percepire una certa libertà, come lettori, davanti alla mole della raccolta. Non dico che si debba spigolare (non si dovrebbe mai fare, e certo ci sarebbe l’imbarazzo della scelta), ma certo sembra legittimo pensare il libro come un insieme in cui il tempo ha un valore o relativo o nullo, sia come tema poetico, sia come elemento “ordinante” dell’esperienza, del ricordo, dell’ “evento” o dell’occasione (diciamo in senso montaliano). Non cito a caso queste cose perché in effetti la poesia di Guida (come in molti lirici) sembra cibarsi di quelle che ho sempre chiamato occorrenze, emergenze, elementi che entrano nel campo visivo del poeta indipendentemente dalla loro supposta importanza, che anzi assumono importanza proprio per quello, cioè colpiscono l’occhio, vibrano come un diapason, innescano immaginazione, descrizione, correlazione e così via. Di questo tipo di poiesis Guida è esemplare, si mostra permeabile alle suggestioni, le rende subito in scrittura, senza però che questo significhi, a quanto sembra, fare una poesia effusiva, meramente sentimentale, o relazionata a una sorta di elegia dell’attimo, del momento occorrente. Anzi, quando c’è, l’elemento oggettivo, il concreto (un uccello, un fiore, una foglia, innumerevoli altri) diventano presto non tanto gli sciacalli al guinzaglio di Montale quanto delle direttrici prospettiche di un pensiero, spesso malinconico, denunciato nella maggior parte dei casi da aggettivi o sostantivi semanticamente rivelatori, un pensiero tra sé e sé e il resto del mondo (molto del quale naturale). Il campo arabile per questo “sconfinato monologo intimista”, come lo chiama di Francescantonio in un risvolto di copertina, è il reale, per lo meno il reale percepibile dalla posizione defilata e provinciale (sia detto sine iniuria) che Guida sembra essersi riservata, in cui ad esempio non c’è accenno a nessuna contemporaneità, a nessuna complessità attuale (ma Guida non è, ci tengo a dirlo, uno strapaesano paesologo). E tuttavia è un reale appunto “sconfinato” (e forse è una delle ragioni della prolificità dell’autore, quasi un libro all’anno, almeno dal 2011) e nel contempo consapevole di una serie di limites, di un robusto e ineludibile genius loci che è linfa, ispirazione, archivio memoriale ma anche invalicabile orizzonte ultimo (“oggetti che non lasciano cambiare la rotta”), e perfino invenzione, proiezione di un arcaico rimpianto, o addirittura di un sogno. Continua a leggere

Cristina Annino – L’udito cronico: il poeta siate voi che parlate, nota di Pietro Roversi

L’udito cronico: il poeta siate voi che parlate, di Pietro Roversi

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L’udito cronico” di Cristina Annino apparve nel 1984 nell’antologia “Nuovi poeti italiani 3” (Einaudi) con un’astuta introduzione di Walter Siti [1]. Quest’anno è stato pubblicato per la prima volta in volume autonomo, grazie alla scelta ispirata di Roberto Russo e Antonio Bux a Graphe [2]. Il titolo è servito anche per l’antologia delle traduzioni di Adria Bernardi dall’italiano all’inglese dei testi del poeta 1977-2012 [3].

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Letto oggi, nel contesto di più di cinquant’anni di poesia di questo autore, il libro è una felice occasione per partire all’esplorazione e al godimento dei libri precedenti e dei successivi. In particolare, muove dai modi colloquiali de “Il cane dei miracoli” (Bastogi, Foggia, 1980) e getta le basi naturali della grande suppurazione/deflagrazione dell’io maturo e del suo zenit ipertrofico e sopra le righe che fu “Madrid” (Corpo 10, Milano, 1987).

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I testi mappano modi dell’ascolto che stanno tra quello dell’introspezione:

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        Non so; ma forse, per quanto

bravo sono e per come

mi giro esatto su me stesso, sopra,

sotto, dentro

il continente, in mare; anche

se rido astutamente. Io

non ho la chiave. (Hamsun)

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a quello delle figure familiari (il padre morto, la madre vedova, la sorella Paola, la suocera (Vu):

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        Poiché dobbiamo metterle al muro

e fucilarle, un giorno o l’altro, le nostre

braccia anteriori; prima ascoltarle

come i rumori di un bar. (Album di famiglia)

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a quello della folla (conoscenti, amici spagnoli e non, ma anche sconosciuti):

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È salito sul tram col suo udito

cosmico; il bianco timbro

del viso ha fatto un crac orrendo

allorché s’è piegato. (Come una città, Titro)

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fino alla ricezione del messaggio del mondo, dell’universo:

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        Ogni rumore del mondo

lo tiene nel rosso timpano delle

orecchie; lo decifra e rende dalle nere

labbra come un robot

la cartolina di risposta. (Il cane dei miracoli)

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A quest’età e con i tempi che corrono,

io siedo al bordo dell’orecchio

universale. (Caos)

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Leopoldo Maria Panero – Contro la Spagna e altri poemi non d’amore

Leopoldo Maria Panero – Contro la Spagna e altri poemi non d’amore – Nessuno editore, 2020 – trad. di Antonio Bux

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Un post su FB dell’amico Antonio Bux mi ricorda che questo libro ce l’ho, me l’ha certo mandato lui. Grosso modo dovrebbe essere ad altezza di ginocchio nella pila di volumi che purtroppo ho lasciato accumulare nel tempo. Lo cerco. Insomma un repêchage.

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L.M. Panero (1948-2014) un anarchico nichilista, se non per ideale politico certo per convinzione intima e filosofica, un poeta che come pochi ha riscattato dal luogo comune l’aderenza della scrittura alla vita e viceversa. Il che ha voluto dire attraversare per decenni l’amata odiata Spagna e i suoi rivolgimenti politici e sociali, passare per la droga, l’alcoolismo, 14 anni di manicomio orrendo, esperienze di tutti i generi senza mai smettere di scrivere, anzi travasando nella scrittura queste vicissitudini. Nella sua poesia c’è tutto questo e molto di più, che ne fa uno degli autori più rappresentativi (e scomodi) della poesia iberica contemporanea. Come scrive benissimo Antonio Bux nella prefazione, la sua è “poetica impregnata di rimandi storici, letterari e mitici, [a cui] fa da contraltare una quotidianità fatta di morte, sangue e desiderio, dove il poeta si regge in bilico tra ciò che è vero (il bene) e ciò che è reale (il male). Così è la vita stessa di Panero a trasformarsi nella sua opera, quella di un uomo che si pone l’eterno interrogativo di chi sia la vittima o il carnefice, il vincitore o il vinto, però sostenuto sempre dalla fede nel puro nulla in cui sacrificalmente scivolare, con la consapevolezza del proprio desti-no. Eppure nelle sue poesie si potrà anche cogliere il barlume di una rivendicazione al divino, evocato dall’oscurità metaclassica che in Panero è risonanza allucinata del passato, quasi una radiazione che trascende i luoghi del vivere (famiglia, carcere, manicomio) e che è a suo modo una forma di preghiera, di sottomissione del reale al mito, tuttavia vilipesa dal sostrato inferiore dove l’autore dapprima si riflette, poi affonda presagendo la barbarie, l’eterna umana sconfitta; come accade nella pittura di Francis Bacon, dove lo scavo per sottrazione porta impietosamente al punto di partenza, tra quelle radici da cui uscimmo urlanti”. Ed è per tutto questo che i versi di Panero restituiscono al lettore un’inquietudine antica e moderna insieme, l’incertezza dell’individuo, la solitudine di fronte al nulla, il costo delle scelte, la brutalità di certi accidenti della vita, tutte cose che in fondo non sono affatto singolari e riguardo alle quali ci si illude di essere al sicuro, di essere osservatori defilati. (g.c.)

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Antonio Bux – Sasso, carta e forbici

Antonio Bux – Sasso, carta e forbici – Avagliano Editore, 2018 

 

Ogni tanto, per fortuna, capita di leggere qualcosa che vale la pena. In questo caso un libro dal titolo curioso, che rimanda alla morra cinese, a mosse che sono azioni lasciate all’alea, a conseguenze che in questa alea possono essere di riuscita o sconfitta, di guadagno o perdita, ma che appartengono non solo al destino, ad una Ananke inconoscibile, ma anche ad un arbitrio tutto umano, ad una scelta di fatto irreversibile. E forse possiamo assumere con qualche certezza che questa morra voglia essere una metafora della vita in cui si gioca.

Le tre mosse sono le sezioni che compongono questo libro corposo (circa 190 pagine), ambizioso, articolato, costruito con un disegno preciso e con un evidente lavoro di cucitura (“una fine costruzione architettonica”, dice in una nota Alfredo Rienzi), e che dà l’aria di essere un traguardo, se non proprio una autobiografia, o se vogliamo una autoantologia di cose ancora non scritte. Insomma qualcosa di importante per l’autore, forse più di quanto normalmente lo sia una propria opera (e questa non è la sua prima). E’ inevitabile pensarlo perché la materia in gioco, l’ispirazione, o la necessità se volete è in primis quella di ripercorrere molte tappe della propria esistenza, una specie di risistemazione della memoria, una acquisizione agli atti non solo di evidenze del vissuto ma anche del loro senso, della loro rilevanza per così dire unica e universale insieme. E’ anche un ritorno a casa, ma privo di un nostos drammatico o elegiaco o lamentevole, perché privo di eroi (c’è semmai un uomo “normale” e poco egotico, e con uno sguardo orientato anche altrove, ad altri lidi, anche culturali) e privo di agnizioni (non si tratta di riconoscere, semmai di “riconnettere”) e forse, alla fine, è più un passaggio che un ritorno. Una visita nel tempo, una chiamata in causa di ricordi e anche di anime, una evocazione complessiva con qualcosa di apotropaico dentro. Non è un caso che tutto inizi con un testo, Quasi genesi, che contiene una insistita allusione ad “altri” (“Ed io non so chi siate, quando dormo / e sogno di poter baciare anch’io / come voi il sogno di essere umani. / Non so chi siate ma siete qui dentro, / come me contate distanze / e occhi di altri esseri attraversare / i nostri corpi quando passiamo”). Chiunque essi siano questi (ma preferisco pensare, forse errando, a qualcosa di ancestrale) è necessario allora pagare un tributo, ai morti forse, a chi c’era prima, a chi c’è stato. Lavorare con la memoria è sempre aprire una porta, rivangare una storia, come suol dirsi, ed è un dialogo aperto perché “i morti fanno finta di morire”. Ed è sempre sottoporsi anche qui, ce lo dicono i cognitivisti, ad un che di aleatorio, ad un dato “fluido” che si riorganizza costantemente.

La mossa del sasso, la prima, porta subito chi legge in un’area che è doppiamente fondante perché è quella dell’infanzia o della prima giovinezza – cioè la radice della storia, del tempo personale – e insieme quella del “luogo” o dei luoghi – cioè le regioni di un primo imprinting esistenziale, e là dove in una geografia si diventa un nome. Intendiamoci subito, qui c’è poco cedimento al rimpianto elegiaco (e qualche traccia è inevitabile, è il tema che chiama il tono), c’è semmai riconoscimento/riconoscenza: comunque è da lì che io, come mi sento e mi rappresento, provengo, ci dice l’autore. E’ il luogo poetico in cui “siamo capaci di avere soltanto sei anni”, in cui le stagioni come l’autunno non sono segnacoli cronologici ma “proprietà” di momenti specifici, in cui le figure che più rappresentano la formazione sono i nonni, una cosa che ci riporta a quella ancestralità di cui parlavo, ad una tradizione e, di riflesso, anche ad un’aria che non è tanto “di una desolata meridionalità”, come annota Enrico Testa, quanto forse di un assolato paesaggio dell’anima. E se a volte si ha l’impressione, ad esempio in testi come “Lettera ad un uccellino”, che il recupero dell’infanzia si porti dietro l’infantile come scoria di quella discesa al profondo, tuttavia bisogna capire, come avviene nella poesia seguente, “Acquario”, dedicata alla madre, che si tratta di un metaforico ritorno al nido. C’è qualcosa di più radicale del nido, più agli antipodi rispetto alla morte? Ma infine il “sasso”, come si intuisce dalla bella sequenza/poemetto dallo stesso titolo, è proprio la materia petrosa della morte, che è immutabile ma che permette una specie di colloquio di spiriti, come una preghiera a senso unico di fronte ad un muto altare roccioso.

“Sasso” chiude la mossa omonima, ne apre un’altra, “Carta”. Non so se l’ordine scelto da Antonio, di questa carta che viene dopo il sasso e che di regola lo avvolge vincendolo, sia casuale o meno. Qui però c’è qualcosa di più forte o maturo, anche in senso biografico. L’età è un’altra, è quella dell’amore, così tante volte menzionato e descritto in questi testi, un amore che esiste e non esiste, che si incarna e che svanisce, che è rosa e che è mare, e soprattutto che mantiene un’aura tra il vago e il sacro quasi stilnovista, anche quando in qualche verso prende concretezza. Non ha un nome e forse nemmeno un volto, e talvolta sembra manifestarsi come amore/idea tanto indefinito che è quasi necessario un eccesso di parole per dargli immagine e consistenza di pensiero. E’ forse, ad usare un superlativo biblico, l’amore degli amori, cioè un’essenza difficile da superare, difficile da ricreare, forse perfino contenere in un ricordo. Forse, ci si chiede come lettori, è una donna, forse è una somma di donne. Forse è l’ipostasi di una stagione importante della vita, anch’essa con la sua parte di alea, con cui un uomo deve (può) fare i conti. Ma poi andando avanti ci si rende conto che tutte queste domande trovano una brusca risposta e ci si rende conto che tutto quanto abbiamo letto finora non è che una ricostruzione dei fatti, di fatti sentimentali, di quello che è stato e di quello che avrebbe potuto essere di un amore per una donna che è morta. E’ una drammatica cesura del libro, come un burrone a cui chi legge si trova davanti, ed è inevitabile leggere il resto della sezione come un lamento funebre, un rimpianto, un tema dell’addio a cui le molte, moltissime parole non riescono a dare sollievo, a farsene ragione. E’ in effetti la parte più “pesante” del libro, di un peso specifico che a volte sembra sovrastare la misura, nel senso che talvolta, a mio modesto avviso, molti dei testi di questa sezione danno l’impressione di un eccesso verbale, che corrisponde nell’autore alla comprensibile necessità, per così dire, di bere un amaro calice fino in fondo. E’, in altre parole, una questione di “distanza” dalla propria materia poetica (“più se ne distanzia più [il poeta] la fa sua e la rende infuocata”, dice Massimo Sannelli).

La “distanza”, quella distanza necessaria, sembra riprendere nell’ultima sezione “Forbici” il suo ruolo, anche per via di uno sguardo che si è spostato sul mondo, sulla realtà circostante, su di un orizzonte più lontano e più ampio, ma anche molto vicino però non lacerato, su una natura esplorabile con una mente meditativa ma forse più quieta, fosse anche la natura contaminata di Chernobyl (a cui è dedicato un bel poemetto), su qualcosa di “bello e irreale”, come è intitolata una poesia. A tratti lo sguardo sembra quasi extracorporeo, come quando con un interessante artificio Bux disarticola il nesso soggetto-predicato verbale (“Io che legge il libro, e il libro / è biondo, suona per lui fanfare“), ed anche questo in qualche modo aumenta una distanza, l’osservazione acquista in forza connotativa, anche se l’autore non esita comunque a mettersi in gioco, a nudo, a parlare di sé scopertamente in sequenze in cui viceversa l’io è martellante. E’ questa, a mio avviso, la sezione più matura del libro, più meditata, più lirica ma di un lirismo senza compiacimenti, la sezione in cui meno si manifesta una certa coazione a dire, una certa supremazia della parola che genera parola e un po’ se ne innamora procedendo in lunghe cascate sintattiche (e a volte mi viene in mente Rosselli), una parte del libro in cui si registrano punte molto alte, di un sentire profondo forse più di quanto fosse profondo in “Carta”, come ad esempio tutta la sequenza di undici brani del citato “Il bello e irreale”, assai suggestiva.

Certo un libro che presenta molti punti di interesse, a cominciare da una lingua davvero effusiva, magmatica, labirintica (come viene notato nelle postfazioni di Rienzi e C. Annino) e fortemente icastica, fino alla stessa costruzione complessiva che mette in evidenza una meritoria attenzione ad un discorso poematico articolato, con un altrettanto meritorio ricorso al poemetto o alla sequenza in maniera decisamente antirapsodica e quindi di conseguenza fortemente “narrativa” di sé. Insomma un libro che per una volta rende evidente un impegno, il fatto che non c’è scrittura poetica vera se non si mette insieme (e si forma) il ferro poetico di cui si dispone con il duro lavoro da fabbro. Una notevole generosità compositiva non messa in discussione dal fatto che, a mio parere, talvolta si manifesta con qualche eccesso verbale e che andrebbe forse messa un po’ sotto controllo operando in autonomia qualche editing, cosa a cui mi pare alluda anche Rienzi quando parla di “muraglie della didascalia assertiva” che il lettore deve “diroccare”. Ma a parte ciò questo di Bux è un libro di sicuro interesse. (g. cerrai)

Di seguito alcune tra le poesie che preferisco: Continua a leggere