Note a margine: Stefano Guglielmin e i dispositivi

Stefano Guglielmin - Dispositivi, Marco Saya Ed.Dopo la serata di presentazione qui a Pisa (21 luglio 2022, presso Libreria Erasmus) di Dispositivi (Marco Saya ed. 2022), raccolgo qui qualche appunto di lettura, cose di cui forse ho parlato con Stefano in quella occasione, forse no:
Consideriamo innanzitutto, per chi non la conosce, la struttura del libro. Organizzato in due sezioni, Dispositivi del poetico e Dispositivi della salute, il libro presenta in apertura due exerga di peso: il primo di Giorgio Agamben, l’altro di Amos Bianchi, due filosofi che affrontano il problema dei dispositivi come ideati da Foucault, il primo sottolineando la desoggettivazione che subisce l’individuo contemporaneo da parte del potere, l’altro la soggettivazione come modellazione che rende non unici ma singoli e perciò ininfluenti. Ma cosa sono i dispositivi? Tutto quanto, dalle norme agli oggetti agli strumenti, dalle istituzioni alle regole, da un computer a un cellulare, un giornale, tutto quanto instauri una serie di rapporti di potere e dipendenze non eludibili (V. anche la voce su Wikipedia, per quanto carente), non necessariamente tecnicamente chiaramente espressi (può essere qualcosa “tanto detto quanto non detto”, dice Foucault in una intervista del 1977) ma sempre aventi “una funzione eminentemente strategica”, che implica “una certa manipolazione dei rapporti di forza”.
Le due sezioni, come indicato dai titoli, prendono come “ispirazione” due aspetti che intersecano l’esperienza poetica (e filosofica) di Stefano e che diventano oggetto della sua speculazione (mi si passi il termine) in versi.

Quello che muove Guglielmin, non solo come poeta ma anche come filosofo, è quindi un’idea forte, un concetto importante. Forse è per questo che mi piace definire quella di Stefano come una poesia concettuale. Il concettuale come sappiamo è quella specifica (e insieme generica) arte nella quale l’intenzione (il pensiero) dell’artista tende a travalicare l’oggetto stesso prodotto, diventa evidente, cerca di mettere in risalto in percentuale diversa sia il significato che il significante. Dico questo non solo perché in questi versi la componente metapoetica, cioè della poesia che pensa e ragiona su sé stessa, è rilevante, specie nella prima sezione, ma anche perché parte da un pensiero, o forse lo ritrova, lo riscopre e poi ne fa oggetto di una “critica” (dei meccanismi, dei vizi, dei canoni, delle aspettative ecc.), ne fa un “commento” (nel senso di Foucault) cioè un non detto che “ritorna”, che di “dispiega”. E nello stesso tempo parte da un concetto forte, come quello di dispositivo, e lo riempie di significati possibili, in due ambiti che Guglielmin considera d’elezione, quello della scrittura, in questo particolare caso poetica, e quello della salute, nella sua accezione vasta di integrità, incolumità, e in qualche misura, direi, di corpo abitato. Non c’è tanto, qui, una dicotomia, un accostamento per così dire “facile” però antitetico tra spirito e corpo. C’è semmai tra loro un comune denominatore che mi pare di poter definire come quello della “cura”, cioè di un dispositivo “buono”, di una attenzione etica e morale che non esercita potere ma libera. Sono accorgimenti, quelli di Guglielmin, e indirizzi. È, in ultima istanza, una presa di posizione. Vediamo di fare qualche esempio.
Nel  caso della poesia generalmente intesa, come prodotto di scrittura e principale oggetto della prima sezione, quella di Guglielmin non è una critica come tante se ne possono trovare in certi dibattiti virtuali, ad esempio sui social media, che assuma cioè come vera una asserzione “di parte”, tra correnti o scuole, tanto per capirci, contro altre. La poesia, come linguaggio specifico e medium particolare che sovrasti divisioni categoriali – spesso inventate come certe antologie – è un elemento “aureo”, con un suo statuto,  non alienabile, soprattutto nel tentativo di farne “un dispositivo che mette in gabbia l’animale”.

La poesia, se male esercitata, diventa un dispositivo che si riproduce, anche nel senso di un suo piccolo potere extrapoetico, come strumento cioè per instaurare un hortus conclusus, un canone, una via facile, un modus autotelico di scrivere. Per Guglielmin è essenziale mantenere la coscienza etica dei limiti e delle contraddizioni (“si porta fuori un peso, con la parola”, e però “nemmeno scrivere guarisce”), della necessità di sporcarsi le mani, “amare quel buio infetto, rifondare”, “mettere le mani nel verminaio”, superare il refrain:

Da usare con parsimonia

Parole come amore, se non
disturbato, acido, salso.
Parole fiore o firmamento
e un tu, se fa da recettore.
E frasi prese per vere come
io sento, io vedo, io penso.
È una questione di tatto, piuttosto:
mettere la mano nel verminaio
aprire i pori, dimenticare.

o superare la Retorica dei contenuti, cioè altri dispositivi:

 

Retorica dei contenuti

Prendi a tema il disgelo
o l’Armata rossa o la rossa e viva
femmina in amore, vanti insomma
una militanza politica o un affetto fausto,
singolare, e chiedi realismo alla parola,
mimetismo. E se non funziona
fai leva sulla morte della poesia o sul fatto
che non ci sono più i lettori di una volta
i beati costruttori dell’impegno.

E tuttavia scrivere significa scrivere, ovvero significa  distinguere (è il titolo di uno dei brani, che in finale dice: “parlare rompe gli indugi e mette a repentaglio la vita. parlare espone al pericolo. parla il poeta, pensa”). Significa quindi, per Guglielmin, fare i conti, regolandoli, anche con quello che chiama il Dispositivo Deleuze, una scrittura rizomatosa che però va strettamente controllata, sottoposta al vaglio del vivere, perché altrimenti si rischia, con certi automatismi o con le sirene verbali, di creare un golem, “un orco senza organi”, l’informe:

 

Dispositivo Deleuze

Un orco senza organi, un arnese stercorario, un
collutorio per papille e inchiostro ossia scrivere
in debito d’ossimoro (o d’aria o soggetto) nel bulbo dell’evento
sperperario quando la talpa-tenebra percorre tutti i buchi
e fa la parola presta, molto: non c’è ospedale o lente non c’è
olezzo o stridore che soccorra, ma dissenso vero o dispersione
per moto involontario: scegliere al bivio un senso provvisorio,
crederci, oppure tornare all’infinita diversione
ossia vivere, appunto.

Non dissimile è il discorso sui dispositivi della salute, intesa in senso ampio, come abbiamo detto. Al centro mi pare esserci un corpo fàtico, che almeno chiede comunicazione, al di là delle convenzioni, delle dissimulazioni dell’ordine a cui certi dispositivi sono preposti, anche come corpo “abitato”, come dicevo prima, vedi ad esempio in Griglie di valutazione, ove il Prof. Guglielmin scrive di un corpo-studente a cui il dispositivo scuola – immettendolo in una griglia, uno schema – “spezza il corpo e la mente”. Oppure (e qui torna la “cura”) con lui si può fare ben altro: “prendi la mano da’ spazio alla sua mano, fa’ una pausa, poi, e lascialo parlare, siediti al banco, impara”. Perché, bisogna rendersene conto, “una fetta di mondo, conta, là fuori, / si dà una forma, la vuole e ti vuole / uguale” (in Conformismo). Ciò vale anche per il corpo-mente, “si porta fuori un peso, con la parola” (in Terapia, e qui mi è parso d’intravedere qualcosa di lacaniano), ciò vale per il corpo “binario” sede di affetti, di slanci lirici, di amore, di rinascita e insieme di impulsi ormonali, flussi endogeni, processi atavici e animali che Stefano chiama nome per nome, risemantizza in una breve serie di poesie che ho chiamato “chimiche”, come ad esempio:

 

Ossitocina

Credi che l’amore sia l’angelo che ti offre o rapisce Beatrice
che sia il meglio dello spirito umano, e invece, non è che l’unione
dell’ossitocina col feromone, una questione d’olfatto, l’inibizione
del demone limbico, prefrontale: l’amore, come il senno di Orlando,
sale, è un liquore sottile e molle che esala, una cura spray che si inala.
L’ossitocina, fra l’altro, induce il travaglio, mette l’utero in subbuglio.
La si inietta con una pompa d’infusione, graduando la pressione.
Prima però serve una prostaglandina dentro la vagina, il misopròstolo
per esempio, e un catetere: si prepara la pista d’atterraggio all’apostolo
che plana senza ippogrifo. Così l’amore è tutto terrestre, pedestre.

Tuttavia quello di Guglielmin non è un gioco, a parte quello sapiente di rime e assonanze diffuse nei versi lunghissimi, né di contrasti né di altro, e neppure si tratta di mettere in mora una tradizione perenne nella quale il corpo è una sede essenzialmente affettiva. Si tratta, modernamente, di rendersi conto che anch’esso, a suo modo, è  un dispositivo e proprio per questo fragile, prezioso ma esposto a diversi poteri anche manipolabili (uno dei quali, attualissimo, è quello del desiderio, del piacere, dell’induzione del bisogno: esemplare in questo senso la lunga poesia Incanto). Che fare, allora? Il poeta, abbiamo visto pensa, prende atto, scrive, tenta il rovesciamento del poetico, anzi ripoetizza l’impoetico (che davvero non esiste). Poi magari, alla fine della storia, come in Pasolini si siede all’ombra di una nuvola:

 

Buddhismo Zen

Senza dispositivo, sedersi
vedendo, nella gran nuvola che passa,
la gran nuvola che passa e le due virgole,
una in testa e l’altra in coda. Stare seduti
sullo scarto tra il corsivo e il tondo.

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