Francesco Tripaldi – L’individuo superfluo

Francesco Tripaldi - L’individuo superfluo - Ronzani Ed., 2022Francesco Tripaldi – L’individuo superfluo – Ronzani Ed., 2022

 

Tripaldi, lucano di Tricarico, classe 1986, avvocato specializzato in protezione dati, è con questo libro alla sua seconda raccolta, dopo Il machine learning e la notte stellata (Lietocolle, 2019), che purtroppo non ho letto, a parte qualche estratto apparso in rete. Ma in quest’ultimo di certo c’è molto della presenza tecnologica che quel titolo sembrava supporre nella sua antinomia tra Turing  e Kant, tra la macchina e l’uomo e il suo ethos. C’è in quanto rappresentazione di un vuoto che in qualche modo in natura deve essere riempito, nella misura in cui l’individuo di cui parla il titolo non viene tanto per così dire espulso da un contesto, ma tende a diventare superfluo motu proprio. Voglio dire, se l’uomo recede, batte in ritirata, una diversa natura, sia essa tecnica o comunque artificiale, tende a prendere il sopravvento. Tripaldi in questo senso mi pare ce la metta tutta, come uomo e poeta. Intanto diciamo che il lavoro di Tripaldi si inscrive a pieno titolo in una poetica della crisi che dura ormai da un trentennio, ma che nel frattempo ha perso per strada quanto meno la sua carica di critica politica del mondo, della sua complessità e del come in questa complessità l’uomo  navighi. Parlo di critica politica (in senso lato, come habitat del cittadino) perché, per quello che può valere all’interno del discorso poetico, una critica del mondo non manca nei versi di Tripaldi. Magari sotto forma di ironia, magari sub specie di torsione della lingua, di gioco di parole che mette in mora una certa sintassi delle cose, di inserto culturale (citazioni, riferimenti, altro, a volte puramente nominalistici), di espressionistici quadri sociologici  alla George Grosz (v. es. La iena ridens piange), di accumulazioni sintattiche che tentano una mimesi del caos (ma con le accumulazioni bisogna essere bravi davvero). In effetti Tripaldi padroneggia bene la sua lingua, soprattutto sui temi che più gli stanno a cuore, sebbene tenda a un certo barocchismo, o quanto meno ad un effluvio verbale non sempre funzionale, come nei testi in prosa che intercalano la raccolta, che danno l’idea sia di essere dilatabili a piacere, e quindi irrelati,  sia di essere confezionati secondo una ispirazione per così dire randomizzata, legata cioè a volte al caso, ad una certa accidentalità verbale, a volte all’ovvia successione del pensiero, insomma, per citare l’autore, “storie vere[,] quelle che fanno scintille ma non riescono a scoppiare”. Tuttavia l’effetto complessivo che ne esce è interessante, coagulandosi qualitativamente in alcuni (non moltissimi) testi di rilievo, come la malinconica, forse leggermente scontata ma vera L’immortalità dell’identità digitale (v. sotto). L’impressione generale che se ne trae è che Tripaldi sappia di cosa sta parlando, ma che non se la senta di scendere più in profondità, in certi inferi in cui l’individuo superfluo è abbandonato da solo, preferendo in certi casi un’arrabbiatura verbale un po’ beat, ma non sufficientemente crudele, per dirla con Artaud (che poi come sappiamo vuol dire – anche – sacrificio del superfluo di una lingua). Anzi, spesso c’è una rilevante componente di gioco, che è divertente di certo, cosa che a suo modo (ovvero in modo diverso), può costituire un valore a patto di ricordare che la carica “eversiva” del divertissement, del paradosso, dello sberleffo ha un limite, specie per un lettore che nella sua testa deve leggere, deve “performare”, il testo a modo suo. Ecco, appunto: mi pare che molti di questi testi siano stati scritti per un palco più che per un libro, per uno slam o roba del genere, o  almeno dovrebbero esserlo. Certe poesie sarebbero da urlare, o almeno dovrebbero esserlo, in un ambito in cui la ripetizione, o l’innamoramento per una formula (“a questa poesia va aggiunta l’IVA”) avrebbero la loro giustificazione. Il che non è insolito, fa parte anzi di una scelta plausibile nel ventaglio delle tendenze della poesia nostrana, della sua comunicazione. Comunque sia, al di là dei bit, dei server che conservano la nostra identità, l’individuo (che è l’autore) che esce da questi versi appare essere una specie di flâneur tecnologico e postmoderno però ben inserito, contemporaneo, urbano, qualcuno in fondo non tanto superfluo, semmai in qualche modo funzionale testimone intento a inventariare i sintomi più che le cause di una complessità (compresa quella dei rapporti interpersonali) non governabile. Più che una protesta è un presa d’atto, un ubi consistam condiviso da molti autori della generazione di Tripaldi, per i quali la realtà è (e forse non può essere altrimenti) una rappresentazione dolente ma frammentaria del presente. Se c’è un’ E-tica in questa E-poca, ci dicono, è quella di una seppur parziale presa di coscienza di questa realtà. Forse col tempo ne potrebbe uscire anche una praxis. (g. cerrai)

A SIMONE DE BEAUVOIR

(Non c’è etica senza fallimento)

Inizia tutto dalle mani
che si cercano intrecciandosi e pungendo come rovi.

Poi, d’un tratto i cori,
elegie per lacci emostatici alla lussuria sdentata,
oscurità che inonda l’abitacolo dell’auto
bruciandoci il palato,
cucendoci strette le labbra
con catene di menzogne
con cui da tempo
siamo a nostro agio.

Fuori dal parabrezza
un’alba rottamata
sublima l’etica in estetica,
il fallimento in consolazione,
la condanna in benedizione,
il dubbio nella consapevolezza
che un errore ripetuto
è più simile a una scelta,
traccia una riga sopra il giusto
e sulla mia anima d’inchiostro.

Tu cerca di perdonami,
non è più notte
e quando parlo seriamente
do il peggio di me.

Stupidamente tuo
J.P. Sartre

 

 

***

 

 

DI LUDOPATIA, GRUPPI DI PRESSIONE
E SUCCO DI POMPELMO

Si può essere diversamente protagonisti della propria
vita, dipende tutto da quanto si è scommesso
con essa.

Io ho scommesso con la pioggia sui ritrovamenti
dei gatti scomparsi, con me stesso che non sarei
più arrivato con troppo anticipo in stazione, con
le lobby ambientaliste sulle dimissioni del ministro
giapponese Yoshio Hachiro, sull’emblematica
importanza della corretta accentazione della
parola “ancora” per i marinai, ed ho perso tutto.

Ho messo un giubbetto di segnalazione alla mia
solitudine affinché non finisse investita dai passanti
distratti e dagli sconosciuti e sono scappato
dai miei creditori.

Ho vissuto un anno da turista di me stesso, condannato
ad un vagabondaggio interiore senza precedenti.

Un anno di completa trash-endenza.

Un anno passato a rubare dalla dispensa di madre
natura i semi giusti per far rigermogliare la flora
intestinale, a cercare di mantenere il sangue ben
ossigenato nonostante il sanguinare, a disperare
il cuore a gettarlo in mare assicurandomi che non
riuscisse a risalire.

Non ho trovato né il posto né il momento giusto
ma ho pensato molto a me stesso pensante, come
avrebbe fatto forse Alda Merini oggi, ai tempi
dell’inter-compatibilità dei programmi per elaboratore,
come Alessandro Manzoni, se gli avessero
fatto notare che la slot-machine è l’emblema post
moderno della provvidenza.

Ho commissionato una perizia a Flaiano che asseverasse
la lassità dei tratti distintivi della mia personalità.
Ho iniziato un percorso di riabilitazione
che prevedeva un paio d’ore al giorno a stringere
con le unghie le viti dell’asse terrestre.

D’altronde pare perfettamente comprensibile: un
anno è un lasso di tempo discretamente lungo
anche per i turisti che l’avessero speso soltanto a
comprare ciliegie e a curiosare nelle botteghe degli
artigiani.

C’è bisogno di riaffermarsi.

Diversamente sopraggiunge l’alienazione e si finisce
per intravedere panorami mozzafiato persino
sulla tenda della doccia.

Un anno forse è un tempo discretamente lungo un
po’ per tutti, per quelli che sono soliti bere succo
di pompelmo a colazione, per i tassisti abusivi che
guidano a fari spenti nella notte trasportando il
tuo disagio ad un’altra festa di sconosciuti, per chi
non dimentica mai nulla – neanche gli ombrelli
dietro la porta prima di uscire.

Credo sia stato un tempo lungo anche per te che
ancora punti sveglie multiple ma con sempre
meno voglia di alzarti, che ti chiedi quanto detersivo
bisogna bere per ripulire l’intestino, che speri
che io torni per poterti insegnare a sbucciare la
frutta nel modo corretto, per occupare l’altro lato
del letto, quello in cui si fanno i brutti sogni.

Si dicono tante cose, anche che non si vede bene
che col cuore ma io ho conosciuto anche gente che
di pigro aveva il cuore, non l’occhio.

Anche ora, dopo aver pagato tutti i miei debiti di
gioco sono rimasto quello che avrebbe scommesso
su tutto.

In fondo si sa come vanno queste cose, nessuno si
ferma mai a pensare che la polvere da sparo è stata
inventata per confezionare fuochi d’artificio e non
per assemblare ordigni militari.

In fondo, non importa se hai trascorso un anno
come se fossi in coda all’Expo per il padiglione
del Giappone, se quando piove fai la spesa coi sacchetti
di cartone, se hai messo il rossetto ad una
scrofa sperando che assomigliasse di più ad una
principessa, l’importante è non rimanere troppo a
lungo da soli con l’essere più terrificante del mondo,
sé stessi.

 

***

 

 

LETTERA AL DESERTO

Il tempo è un volto nell’acqua,
l’acqua è tempo che scorre.

La natura solita delle nostre concezioni abituali
è talmente angusta e insufficiente
da farci credere che l’identità di ognuno di noi
sia funzione della nostra e dell’altrui percezione di noi stessi.

Non altro che un’ipostasi assiologica,
anodina,
consolatoria,
degna soltanto dei più ciechi amanti dello specchio.

Una lacrima segna una guancia come il Nilo solca le sabbie.

La mia immagine riflessa
è un aspetto che malamente mi definisce,
è la mia precarietà a rendermi così definitivo
che mi cataloga come chi ha sempre tentato
ma non è mai riuscito,
come chi potrebbe ma boh.

Sabbie, cristalli di vetro.
Io sono un “se”, un “se” di mille lettere
mille come gli indici puntati contro,
come le pietre scagliate nel lago del tempo,
come le risposte mai avute,
troppe
come i sogni,
infinite
come i granelli di sabbia in questo deserto dell’essere.

 

 

***

 

 

LA IENA ‘RIDENS’ PIANGE

Manica di manigoldi con troppi soldi
la cui formazione culturale
è colpevolmente carente
della conoscenza di De Sade
ignorano che la Netiquette
imporrebbe
di non scrivere in caps lock.

Cashless society
incazzati coi tassisti
privi di POS
inseguono il coniglio bianco
lungo wormhole urbani
fino allo schiocco secco
del fine corsa della bobina divina.

La iena ridens,
piange.

Feste selvagge,
albe in dissesto,
muri infuocati in aggiornamento,
donne con calzature orribilmente 2015
al Chinese Box,
in Isola,
nelle vecchie balere,

in Piazza Morbegno,
sempre più belle, bellissime
nascondono sotto un make up impeccabile
sofisticati tormenti ed un malcelato sdegno
prima in coda per ricaricare lo smartphone al cesso
poi in fuga dalle ennesime avances
del tizio sfranto che già puzza di morte;
pasto designato
di un branco di iene ridens
infinitamente tristi.
Se solo,
se solo una miliardesima parte
delle esistenze superiori
nominasse una task force dell’urlo
per arpionare i grigi cetacei della rete,
inondare di gameti i data center,
o insegnare
la lezione di sopravvivenza delle lucertole
che sacrificano la coda
lasciandola lì a dimenarsi
negli occhi millenari dei bambini
per salvarsi la vita,
avremmo iene di nuovo coerenti,
di nuovo felici.

 

 

***

 

 

POESIA + IVA

Se la mia mente fosse il vagone silenzio del Frecciarossa
potrei fare schhhhh ai miei pensieri
ed avere un confronto costruttivo
con la realtà che mi circonda.

 A questa poesia va aggiunta l’IVA.

Pensi che sia facile per me
vivere sereno sapendo che
tra preso e perso
tutto dipende dalla posizione della “erre”?
Soprattutto se parliamo di treni!

Pensi che sia facile per me
riuscire a tollerare
la sfrontatezza del piccione
che nella più tronfia inconsapevolezza
vive a petto in fuori in piazza Duomo?

Pensi che sia facile
hackerare la scatola nera di Dio
e sfidare la sua ira?!

 A questa poesia va aggiunta l’IVA.

Pensi che sia facile per me
vivere sereno conoscendo
le difficoltà degli asiatici
nella pronuncia della “erre”?

Soprattutto se si parla di lutti, soprattutto se si parla di elezioni

Pensi che sia facile per me
tollerare che la schiavitù
sia ancora il modello di business
più scalabile in assoluto e così sia!

 A questa poesia va aggiunta l’IVA,

Pensi che sia facile per me
gettarmi tra le braccia di una musa
o di una venere qualunque
per scrivere due frasi,
che tanto non significano niente,
e star qui, davanti a voi
a cercare comprensione?
Pensate che mi piaccia?

La mia venere è Afrodite,
ma di Milo,
e non ha braccia.

Perciò, se non riconoscete
il mio precipitare,
il mio bisogno di dormire
senza l’ansia di sognare,
se non riuscite a vedere
il mio corpo crivellato dai fori
che mi hanno fatto le parole
non avete capito che la poesia
è una cosa viva

alla poesia va aggiunta l’IVA,

e voi siete tutti evasori.

 

 

***

 

 

L’IMMORTALITÀ DELL’IDENTITÀ DIGITALE

Il tuo profilo
è ancora attivo,
anche alla morte
serve una password

ma tu, amico mio,
che da carbonio oramai sei silicio,
sii la notte che spopola il cuore,
l’arpione sul dorso dell’orca,
il sipario su luoghi d’altrove,
la funzione che sovrascrive
il protocollo centrale,
la mano che pianta
il primo seme
di una foresta di server
di questo camposanto digitale.

Tornerò a visitarti
ogni volta che posso,
mi basterà il cellulare

ma tu, amico mio,
che da carbonio oramai sei silicio,
sii la notte che spopola il cuore,
l’arpione sul dorso dell’orca,
il sipario su luoghi d’altrove
che anche lì,
nell’etere cosmico,
in qualche estensione di nomi a dominio
o in un blocco orfano di un registro diffuso…

… (non ti manchi
memoria
per ricordarti
di noi).

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