A proposito di Artemisia, una nota di Elisa Castagnoli

.Artemisia GentileschiA proposito di Artemisia Gentileschi, una voce al femminile nell’arte

 

 “Artemisia Gentileschi, pittrice guerriera”, il nuovo film documentario di Jordan River uscito recentemente sulle piattaforme streaming nella Giornata internazionale contro la violenza alle donne, illumina e apre un squarcio poetico sulla vita e le opere di Artemisia Gentileschi, pittrice italiana del ‘600 di scuola caravaggesca, figura eccezionale per la propria epoca_ una tra le  prime donne ad essere ammessa in una accademia di disegno_ artista di rilievo e precorritrice di un’arte al femminile e delle future poetiche femministe.

Come afferma il regista Jordan River: “Penso che la vita di Artemisia e le sue opere possano oggi immergere la potenza dell’arte su un piano emozionale e farci comprendere ciò che vive nell’animo un artista a tratti oppresso dalle circostanze quotidiane che a volte la vita può riservare a un essere umano”. Il documentario mette in luce, in particolare, questa commistione profonda tra la vita e l’opera della pittrice, la sua personalità artistica e stile espressivo intimamente connessi alle vicende esistenziali. Orfana molto giovane di madre, Artemisia era figlia del noto pittore Orazio Gentileschi, che nella sua casa-bottega a Roma ne valorizzò il talento precoce, la condusse passo a passo sulla via della pittura mettendola  in contatto con maestri influenti e noti come il Caravaggio. L’evento dello stupro giovanile subito dal Tassi, l’umiliazione del processo che ne seguì e il matrimonio riparatore con un mediocre e quasi sconosciuto pittore  segnarono tutta la sua giovinezza proiettandosi con veemenza nella sua opera fino a renderla senza dubbio il simbolo di un’arte inequivocabilmente femminile. In definitiva, è la dimensione interiore e esistenziale dell’artista, nello specifico il suo essere donna in un mondo dominato da leggi e gerarchie di potere a lei precluse, e riflettersi in queste opere di matrice classica, a sfondo mitologico o religioso, tanto da renderle per noi estremamente espressive e attuali oltre il tempo e la storia.

 

Artemisia, privilegiata dalla protezione di committenti e mecenati potenti, appare nel ‘600 l’eccezione in un mondo dominato da sole presenze maschili; è tra le prime donne a combattere contro cliché e discriminazioni di genere per affermarsi professionalmente grazie al suo talento e alla sua formazione artistica.

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Vorremmo soffermarci qui su tre opere in particolare di Artemisia appartenenti a epoche diverse del suo lavoro ma certamente abitate  da un’imponente energia femminile comune a queste figure mitologiche e drammatiche che in qualche modo si integrano con la sua vita nutrendosi della sua personalità.

 

Giuditta che decapita Oloferne ( 1620)

 

Colpisce la violenza del gesto in Giuditta, esasperato, irreversibile, visto come una rivalsa, una vendetta, un’esplosione di rabbia culminante nel taglio sanguineo della testa di Oloferne mentre la serva è complice nell’immobilizzarne il corpo. Che un’artista donna esasperi a tal punto una passione violenta fino a riversarla con tale energia, incontenibile, sulla tela è quantomeno sorprendente per l’epoca. Al momento del dipinto Artemisia non è più all’inizio della carriera ma pittrice sicura della propria tecnica e in connessione profonda con la propria interiorità attraverso la pittura. E’ la donna che aveva fatto fronte alla violenza subita e all’umiliazione del relativo processo  un anno prima, che screditata si era poi trasferita a Firenze con un matrimonio riparatore per voltare pagina alla vicenda. Nella Bibbia Giuditta è una vedova ebrea coraggiosa che salva il suo popolo dall’assalto degli Assiri seducendone il generale a Betulia per poi tagliargli la testa. Caravaggio, uno dei grandi maestri,  aveva già dipinto questo tema biblico ma Giuditta nel chiaroscuro estremo delle figure caravaggesche appariva ancora a una certa distanza da Oloferne. Nella versione di Artemisia il corpo dell’uomo è coperto da un drappo rosso, disteso trasversalmente sul letto, la testa in primo piano prossima agli spettatori e vicinissima a Giuditta. Il corpo è braccato, tenuto fermo, immobilizzato dalla complicità delle due donne con vigore, nella freddezza programmatica che precede l’esecuzione. Un bracciale scintilla verde smeraldo sul braccio sinistro fermo e poderoso di Giuditta, la sua figura statuaria, l’abito scollato, i capelli neri raccolti sulla testa. Lì, con quella lama affilata e sottile sulla gola di Oloferne pronta a inciderla da parte a parte attraverso la pelle. In quel brivido che precede l’atto omicida, il gesto irreversibile, forse il piacere di una crudeltà restituita mentre fiotti di sangue già sgorgano sui drappi bianchi dei lenzuoli. Tutta la scena è avvolta da un profondo chiaroscuro di influenza caravaggesca ad eccezione dei volti; le figure emergono da quel fondale nero con una luminosità intensa, calda che mette in evidenza in modo drammatico l’esecuzione. Artemisia ritraeva spesso tra i suoi soggetti scene violente o crudeli di uccisioni là dove l’urgenza poetica si avvolgeva a stretto contatto con il dramma esistenziale. Qui sembra che l’una nutra e raccolti l’altra come per esorcizzarla, sviscerarne la memoria e insieme liberarne l’energia distruttiva e rabbiosa sulla tela. Giuditta come carnefice dalle braccia robuste e muscolose  compie l’esecuzione senza timore né pietà ma con fredda, calcolata determinazione in una sorta di rivalsa esistenziale: la brutalità di un gesto riversato con arte sulla tela.

 

 

Autoritratto come allegoria della pittura ( 1638-39)

 

La pittura per Artemisia è l’ autoritratto di sé; lei è la pittura e viceversa. E’ una donna che dipinge sé stessa al centro della scena, sempre e comunque, nonostante lo sguardo scelto non sia mai narcisistico; il suo volto non è frontale a noi spettatori quanto proiettato insieme al corpo verso ciò che sta cercando, un altrove o un aldilà non visibile e non manifesto, oltre la realtà apparente e l’orizzonte del quadro. 

Cerca, forse, il segreto della pittura in quell’oltre a cui tende con l’intera figura, tutto il corpo carnale, massiccio, rapito verso quell’interrogativo, una mano sollevata verso la tela con un pennello , l’altra serrando la tavolozza con forza. Il corpo si volge verso e oltre quell’orizzonte della tela per meglio guardare; appare intenso, rapito in maniera quasi mistica. Tutto in lei tende verso quell’altrove della pittura, lo sguardo con stupore là si proietta come se là fosse il segreto del suo quadro.

 

La vergine e il bambino con il rosario ( 1650-51)

 

Negli ultimi anni il pennello diviene nelle parole di Artemisia “un’oggetto sacro”, un’estensione del proprio pensiero, una cura per la propria anima mentre l’artista sempre più consapevole della propria tecnica e potenzialità espressive intreccia in maniera istintiva e  serrata arte e vita, lo stile pittorico sempre più audace e consolidato,  la sua forte personalità artistica e i temi della tradizione sacra . Nella “Vergine e il bambino con il rosario”, una donna nobile, alter-ego di sé stessa, tende un rosario al bambino sulle sue ginocchia  in una visione mistica della maternità in altre tele già rappresentata in forma molto più carnale e umana. Il rosario, in tale simbologia, è ciò che chiude il cerchio tra divino e umano, che ricollega i due piani, quello della concezione divina e della maternità umana; ciò che connette e vincola la figura femminile al figlio, che è anche il Cristo Salvatore e sé stessa verso il mondo divino e spirituale dell’arte.

 

Perché infine, il suo fare artistico così unico ed espressivo è, inevitabilmente, una lotta  tacita e costante contro i pregiudizi e le riserve dell’epoca rivolti alle donne, in particolare alle donne nell’arte, lei forse unica eccezione del suo secolo .  (Elisa Castagnoli)

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