Domenico Brancale – Mal d’acqua, nota di Francesca Marica

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Domenico Brancale - Mal d’acqua (Modo Infoshop – fotocopie:27)Ciò che ora ti tortura è trasparente come l’acqua. L’acqua ci sdoppia, dice “ Io è l’altro”.

Per rimanere dentro te stesso devi assolutamente essere fuori.

La mia sete contiene più acqua dell’acqua. La mia sete contiene il vuoto.

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Leggo Domenico Brancale da molti anni e ogni volta senza l’imposizione di un dovere o di una direzione, mossa dalla curiosità di scoprire cosa nascondono i territori e le ombre che abitano le sue parole e i suoi silenzi. Leggo Brancale in modo teatrale, andando alla ricerca di una scenografia. Ormai lo so, ne ho consapevolezza e lo dichiaro apertamente.

Anche Mal d’acqua (Modo Infoshop – fotocopie:27), il libro uscito nel febbraio di quest’anno – a distanza di tre anni dall’ultimo lavoro in versi di Domenico, Per diverse ragioni (Passigli, 2017) – non si è sottratto a questo rituale di lettura.

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Ci sono diverse scenografie che fanno da sfondo a Mal d’acqua ma, che cosa sia veramente Mal d’acqua, che cosa Mal d’acqua rappresenti, lo chiarisce lo stesso Brancale nella breve nota iniziale con cui si presenta ai lettori. Mal d’acqua è un quaderno di appunti rimasti a lungo sott’acqua dove l’inchiostro ha trattenuto il respiro e, a partire dalla parola acqua, gli scritti hanno assunto una forma diversa. Ciò che mi ero prefisso non è stato raggiunto. Le parole non sono mai il fine. Qualche cosa galleggia. Qualche cosa affonda. Ce n’est pas fini la bête

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Ce n’est pas fini la bêteCe n’est pas fini. Mal d’acqua è un piccolo libro che sta dentro il palmo di una mano, un libro di quaranta pagina appena. La narrazione è fitta e organizzata in nove titoli che non rappresentano però vere e proprie sezioni o capitoli (La via delle sete; Rimane la fuga; Acqua alta, Diario di un’ora; Derive del tu; Il bene necessario; Il territorio dell’acqua, Ate ca tu; Una crepa nera). L’impressione è che all’interno di quei nove titoli si intreccino due narrazioni parallele: una più generale – volta a stabilire i confini e i contorni delle cose; e una più intima e più personale – che attinge a piene mani dalla vita e dalla biografia del poeta.

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L’acqua e la bestia percorrono tutte le pagine di questo piccolo libro. L’acqua e la bestia ne sono le due anime, le due colonne portanti e quella che si innesca tra loro è una lotta corpo a corpo, muso contro muso, che si gioca lungo un tempo dai perimetri sospesi.

La voce che parla, quella che cerca un avvicinamento e un contatto con l’altro, è la voce di una bestia ferita che non nasconde il proprio dolore, la propria paura, il proprio smarrimento. Quella voce, pur volendo avvicinare l’altro, parla essenziale a sé, rimane in esilio dal mondo (Non conosco niente. Solo il tu. Come dire: non parlo a nessuno, pag. 29).

Quella voce parla come riflessa davanti a uno specchio (Tracimare nell’esistenza. Mendicare il vuoto, pag. 27), si racconta e ripete antiche formule rituali che arrivano da lontano: Prima avevi delle certezze, all’improvviso le hai perse (pag. 19); Domenica 23 settembre 2018. Equinozio d’autunno. Saranno le tre, ora antelucana. Ricoverato. Equinozio del dolore (pag. 21); Non puoi parlare della malattia, al massimo potresti parlare la malattia (pag. 21), e ancora, C’è un io che soffre e un altro che rifiuta tutto ciò (pag. 21).

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La bestia ferita che parla e si racconta è una bestia scampata alle macerie, una bestia che sa che la rovina non è mai neutra (pag. 25) e vivere accanto alle macerie significa accettare la voce della polvere (pag. 30). Quella bestia cerca di resistere alle dichiarate ossessioni dell’io per portare alla luce una nuova fisionomia del linguaggio. Non c’è rassegnazione nel canto che quella voce intona piuttosto una consapevole accettazione degli eventi: Qualcosa muore dentro di te devi restare vivo. Restare vivo nella morte è il passo successivo (pag. 20).

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Ogni pagina di questo piccolo libro contiene una successione – apparentemente casuale – di versi brevi, aforismi, citazioni (tra le molte, Jullien, Quinton, Rimbaud, Bergamin, Lukàcs, Cocteau, Eraclito, Kafka) e diverse autocitazioni (da Per diverse ragioni, per lo più, di cui in parte, Mal d’acqua, raccoglie il testimone). Ogni pagina diventa un lascito testimoniale, un’eredità pensata per gli innocenti, – perché solo gli innocenti superano il dolore (pag. 12).

Eppure, per quanto suggestiva e potente, non è in quella successione la vera forza del libro. Ma allora, dov’è che quella forza si nasconde? Où se cache la force de la bête?

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Brancale che conosce e ama Paul Celan, sembra far sua in Mal d’acqua la lezione contenuta in Microliti. E questo non solo per il modo in cui in Mal d’acqua le parole si organizzano all’interno della pagina bianca ma, anche, per il ruolo che lì viene assegnato al linguaggio e alla ferita.

In uno dei passaggi che preferisco di Microliti, Celan scrive: Senza lingua, la ferita è anche senza memoria. In Mal d’acqua la ferita è onnipresente, abita la carne, il corpo taciuto delle cose, abita anche la luce. La ferita diventa un bene necessario, diventa creatrice (pag. 26).

La luce stessa – che per il poeta è la cosa più cara al mondo (pag. 30) – è una ferita nella notte della carne, (pag. 31). E l’animale è la ferita dell’uomo. Solo le braccia che toccano la terra possono scrivere. Recitare la parte eterna (pag. 18).

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In Mal d’acqua, l’elemento liquido si fonde nel linguaggio e nella ferita insieme, si fa direzione, diventa terzo paesaggio, mostra la sua superficie selvaggia (pag. 9). Brancale ci confessa che Il libro dell’acqua è trasparente. Non si legge. Si beve tutto d’un fiato (pag. 8) e, poco oltre aggiunge, che la Profondità chiama profondità. Ho sete della sete (pag. 10). Scopriamo in Mal d’acqua che Non bastano due atomi di idrogeno e un altro di ossigeno per fare l’acqua (pag. 7) e che Stringere l’acqua tra le mani è scrivere (perché) L’acqua è una realtà poetica (pag. 15). Scopriamo che esistono diversi territori dell’acqua e i grandi bacini d’acqua riscrivono la geografia del corpo.

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In Mal d’acqua, Brancale trova il tempo di indagare anche uno dei suoi temi più cari: il rapporto tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Va immediatamente alla ricerca di un bacio che possa mettere in fuga la morte (pag. 28) e diverse sono le riflessioni che si muovono lungo quell’abisso: Qualsiasi cosa muore dentro di te devi restare vivo. Restare vivo nella morte è il passo successivo (pag. 20), e ancora, Non puoi morire. Del resto non si muore mai quel giorno. Si comincia a morire prima, nel futuro anteriore (pag. 21), e ancora, Ognuno di noi ha in cuor suo una Ofelia che galleggia. Lungo la riva delle passioni tutto è chioma. Vivo nella parola morte (pag. 33), e ancora dopo, Il dialogo, il vero dialogo nella poesia avviene con i morti. Scrivere poesie è dialogare con i morti, con ciò che deve ancora avvenire. I morti sono più vivi di noi (pag. 35).

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Ma in Mal d’acqua, la novità, la vera novità, è rappresentata dalla comparsa inedita e inaspettata dell’esperienza della malattia: una malattia reale, con un nome esatto: sarcoidosi.

Brancale ci dice che la sarcoidosi ha il volto dell’enigma (pag. 21) e se è vero, che un uomo con un dolore è un uomo più elegante (pag. 15); in Mal d’acqua il dolore di chi scrive finisce per abitare una precisa grazia. E la grazia disarma (pag. 28). Sempre.

La sarcoidosi irrompe nella scrittura e nella vita di Brancale con la stessa potenza; l’evidenza è lampante. L’esistenza intera si fa urlo, il dolore si ramifica in ogni organo; si ripercorre un sentiero battuto, ci si consola con le briciole che abbiamo lasciato cadere quando non volevamo perderci – scrive Brancale (pag. 17).

In Diario di un’ora, viene raccontato l’esordio della malattia, non c’è nulla di dissimulato, l’esperienza si fa testimonianza. In Acqua alta si descrive il dolore che la malattia procura, in Rimane la fuga si cerca l’ora di vivere che non ha parola e in Una crepa nera ci sono diverse riflessioni sulla sofferenza e sull’impossibilità di ammettere una voce intima.

Mal d’acqua è una carrellata sui nervi scoperti del suo autore, uno sbocco di sangue della parola – come Domenico stesso ha avuto modo di raccontarmi qualche tempo fa.

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In questa carrellata di nervi scoperti, la scrittura di Brancale sembra omaggiare quella di due sue madri nobili: Alejandra Pizarnik e Clarice Lispector. Nel decidere di mostrarsi nudo, Brancale abbraccia il femminile, ritorna alla terra madre.

A Pizarnik, e alla sua sete di toccare, Brancale affida il compito di chiudere Mal d’acqua. Un frammento della lettera che il 17 dicembre 1971 Alejandra Pizarnik indirizzava a Jean Starobinski viene riportato da Brancale nell’ultima pagina di Mal d’acqua: la sete animale di Pizarnik diventa il congedo finale, l’urlo soffocato nella gola del poeta.

Lispector non viene mai espressamente citata eppure la si avverte, è presente in ogni dove. Come Lispector, Brancale dimostra di lavorare con oggetti smarriti e ritrovati. L’attenzione di Brancale per l’istante, il tempo che non si misura, il silenzio sottile, la misura del respiro e la verità che non ha bisogno di parole, fanno correre il pensiero alle irrequietudini di lei e al suo Acqua viva. Brancale, come Lispector, ama le intensità e la stessa scrittura quasi diaristica che caratterizza Mal d’acqua sembra confermare l’assunto di Lispector secondo cui Registrare l’ovvio fa parte del lavoro.

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Mal d’acqua è un piccolo libro prezioso. Un piccolo libro prezioso che sta nel palmo di una mano. La gestione riflessa della realtà, la presenza di un linguaggio anteriore all’esperienza storico-individuale, la ricerca di un linguaggio salvifico che possa fare di un gesto una carezza, la liberazione di un senso destituito di strutture e fondamenti autoescludenti, fanno di Mal d’acqua un piccolo libro prezioso.

I frammenti di mosaico che Mal d’acqua contiene, conducono Brancale verso un nuovo cammino dell’inconscio, sulle orme di Michaux. Brancale dimostra di compiere con questo suo ultimo lavoro ulteriori passi nella direzione della profondità e noi lo seguiamo, ci addentriamo negli abissi con lui.

Come mai era avvenuto prima, in Mal d’acqua è presente un atto di fede e fiducia totale del poeta nei confronti del lettore: Brancale si affida al lettore, è consapevole che solo tra innocenti ci si possa salvare (Soltanto la parola che ascolta può parlare in silenzio, pag. 28 e Una cosa vera puoi dirla soltanto a qualcuno che ti ascolta, pag. 17).

Ha ragione Domenico: La poesia ama nascondersie la parola che si pronuncia è spinta da una parola che non si sente. Da una parola che non si sente ma che è, da una parola che solo i simili possono davvero afferrare e fare propria… Similia similibus curantur, la storia si ripete… (francesca marica)

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– Mal d’acqua letto da Domenico Brancale, qui: https://www.youtube.com/watch?v=gE6OHKr88zA

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– Estratti da Diario di un’ora (pagg. 20, 21, 22), qui:

 

(…)

 

Forse la poesia è un gesto che ci permette di sfiorare quello che crediamo irraggiungibile. La parola è in cammino, assorbe in silenzio tutto ciò che si contrae nella profondità dell’essere. Scaglia l’urto.

 

Non riesci più ad addormentarti nel buio. Il nero minaccia. Il nero ti assedia. La bocca si svuota da dentro dei denti, della carne, delle ossa, del vuoto.

 

Qualsiasi cosa muore dentro di te devi restare vivo. Restare vivo nella morte è il passo successivo.

 

Qualunque sia stata la causa, una caduta fisica o mentale, una malattia vera o immaginaria, un dolore mai provato o una gioia inattesa sconvolgente, comunque si rilegga il proprio passato, quel momento rappresenta nella nostra vita una svolta radicale, costringe a una scelta che può risolversi nell’assunzione della nuova vita in un io reintegrato, o, all’opposto, nel totale rifiuto delle mutazioni fino alla morte volontaria. Celan chiamava questo momento Atemwende, svolta del respiro. Prima o poi tocca a tutti, anche a nostra insaputa.

 

Domenica 23 settembre 2018. Equinozio d’autunno. Saranno le tre, ora antelucana. Ricoverato. Equinozio del dolore.

 

Non puoi parlare della malattia, al massimo potresti parlare la malattia. Per questo occorre trovare un nuovo pronome che non sia personale, non possessivo, né dimostrativo, né riflessivo. Un pronome per nessuno. Un pronome segreto che non potrai mai pronunciare.

 

Non avere paura. Rimani per ore dinanzi al chiosco di un’edicola a leggere sulle pagine dei quotidiani i crimini che non hai avuto il coraggio di compiere.

 

Ogni gesto scava nell’aria il nostro destino. Ogni parola il silenzio. L’intruso che vive dentro di te e che ora ha un nome ti pone continue domande a cui il più delle volte non puoi rispondere. La sarcoidosi ha il volto dell’enigma. Riferirsi a se stessi è divenuto una difficoltà e per ora lo fai soltanto mediante il dolore e la paura. Non è più niente d’immediato e le mediazioni alla lunga stancano. C’è un io che soffre e un altro che rifiuta tutto ciò.

 

Non puoi morire. Del resto non si muore mai quel giorno. Si comincia a morire prima, nel futuro anteriore.

 

Ogni pensiero evapora nella presenza del soggetto. Ogni voce si sottrae al linguaggio.

 

«Edipo era cieco, nessuno poteva vederlo» Jean Cocteau

 

Scrivere è vedere il tuo corpo.

 

Non si può andare oltre nella disperazione. Ma abitare l’altrove della lingua ci restituisce alla poesia, a quella trasgressione necessaria senza la quale ogni gesto sarebbe vano.

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