Ando Gilardi, “Food”, Foto-industria 2021 (al Mast di Bologna), nota di Elisa Castagnoli

Ando Gilardi, “Food”, Foto-industria 2021 (al Mast di Bologna)

 

“Il bisogno primario di cibo si sovrappone oggi a quello delle immagini” scrive Francesco Zanot nell’introduzione alla Biennale di Foto Industria 2021 a Bologna; esiste una stessa voracità nelle società consumistiche di oggi nel consumare cose, alimenti, cibi e i loro profumi non solo con il gusto ma con tutti i sensi allo stesso modo in cui desideriamo vedere, scambiare e ricevere sui nostri canali di comunicazione digitale, foto o video condivisi_auto-rappresenzioni di noi stessi_ ed ancora essere parte di quel fiume di immagini e messaggi che ci arrivano dai social. Una narrativa delle immagini si crea in questo modo, allo stesso tempo raccontando sé stessi e un’epoca nel suo scorcio sociale e culturale in atto. Oggi a ridosso di due anni di pandemia si lotta con i vaccini per tenere sotto controllo il nuovo propagarsi del virus e le festività si situano come una parentesi lieve, una sospensione in cui si è avviluppati dal cibo e dal calore di una casa, riportando al centro ancora una volta il consumo esasperato di cibo e di immagini. Tale, il tema “Food”, scelto per la recente Biennale foto/industria tra cui spiccano le fotografie di Ando Gilardi esposte al Mast ancora per pochi giorni.

Gilardi si avvicina alla fotografia nel ’45 all’indomani del conflitto bellico, inizialmente con un intento documentario e politico in immagini che costruivano prove legali contro i crimini neo-fascisti commessi durante la guerra. La sua produzione fotografica si realizza prevalentemente negli anni ’50 e ’60 sui temi del lavoro, dell’industria, dell’agricolture, dell’etnografia e della società. Alla fine degli ’50 Gilardi collabora con la rivista “Lavoro” e inizia a raccontare la quotidianità di contadini e braccianti sottopagati nei campi al nord, di venditori ambulanti, donne sfruttate al sud nella raccolta delle olive e altre simili realtà sociali agli albori del boom economico italiano.

Taglienti e permeate di un forte impegno ideologico le fotografie di Gilardi si vogliono strumento di testimonianza e di lotta politica a favore delle classi più esposte a miseria e sfruttamento nell’Italia post-bellica agli inizi ancora del processo di industrializzazione. D’altro lato, come scrive Francesco Zanot nella prefazione della mostra: “Il cibo si consuma con il cervello, con gli occhi, con tutti i sensi”; allo stesso modo sono le immagini che riceviamo, che assorbiamo involontariamente o che decidiamo di incorporare nel nostro immaginario collettivo. Al di là dell’aspetto documentario esse giungono a noi con la portata espressiva di un racconto, con il loro potere di fascino e verità venendo a illuminare quella società italiana immersa ancora nella cultura rurale, sorridente e lieve all’indomani della guerra; forse lì sorpresa a guardare avanti verso un futuro speranzoso nell’avvento della nuova era economica.

Nella mostra bolognese, in particolare, il tema del cibo permane come filo conduttore nella sezione propria alle fotografie e in quella della Fototeca Storica Gilardi. Si tratta di un archivio di innumerevoli materiali sapientemente catalogati e raccolti a partire dal 1959 e, in seguito “ri-fotografati” nel suo grande inventario personale tra cui figurine, incarti illustrati di cibi , scatole, pubblicità, riviste, erbari ecc.. Come suggerisce Zanot: “Il cibo è un linguaggio. Come la fotografia, gli alimenti incorporano e diffondono messaggi. Il risultato è un corto-circuito : qualsiasi fotografia del cibo è il frutto di un processo di ri-mediazione”. Gli alimenti dal loro primo livello di esistenza divengono agli inizi del marketing moderno rappresentazioni in una vera e propria “iconografi del cibo” nel momento in cui vengono esibiti, pubblicizzati e investititi di un desiderio o necessità addizionale all’oggetto primario. Il lavoro di Gilardi qui, anticipando l’arte concettuale, è a sua volta “immagine di altra immagine”: il suo modo di vedere e restituire i materiali catalogati o le loro immagini. E tale inventario arriva a noi oggi come il vero e proprio ritratto etnografico di un paese attraverso il cibo che ne è elemento costitutivo per il potere della fotografia di ampliarlo e renderlo manifesto.

Foto-inchieste

Nelle fotografie in bianco è nero di Gilardi degli anni ‘50 è l’Italia delle grandi tavolate all’aperto nei giorni di festa nell’assetto famigliare patriarcale ancora. E’ lo spostarsi in bicicletta, le raccoglitrici al sud e le mondine nelle risaie al nord, i volti sorridenti, gli abiti consunti dal lavoro nelle campagne, i piatti colmi di pasta asciutta e le mani annerite dal lavoro. Sono i mercati rionali, i piccoli venditori ambulanti, i bambini cresciuti in strada, le campagne ampie e piane, i raccolti e le messi, le botteghe artigianali per un’Italia ancora povera, semplice e rurale.

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“Ritratto della giovanissima vendemmiatrice” (1954)  

“Dai primi di settembre alla fine di ottobre sulle colline abruzzesi quindicimila donne con un lavoro faticoso e da pochi conosciuto raccolgono, imballano e spediscono la nota uva da tavola Regina.   I primi piani di Gilardi sui volti di queste giovani donne appaiono permeati da una sorta di aurea luminosa di giovinezza e candore. Un’inevitabile intuizione estetica illumina la bellezza dei volti nonostante la denuncia sociale o la presa di consapevolezza politica cui mirava il reportage. I volti in primissimo piano permangono nella loro genuina, autentica presenza, mentre l’elemento rigoglioso della natura, i lussureggianti vigneti, i grappoli ricolmi d’uva e irradiati nella piena luce del mezzogiorno si stagliano verdeggianti di fronte ai nostri occhi. Il cibo resta il filo conduttore delle foto che pur perseguendo nel loro intento documentario non possono fare a meno di rivelare la portata sensoriale e dunque la bellezza o l’autenticità dell’immagine.

“Addetta al riempimento delle sardine” (1965)

Questa operaia è ritratta simbolicamente al centro di una montagna di scatolette di “sardine all’olio d’oliva” pronte per essere imballate. Sullo sfondo è una parete di scatoloni contenenti gli imballaggi di un’altra specialità della casa. Negli anni sessanta e già nel pieno processo di industrializzazione in corso l’immagine appare in technicolor in una voluta saturazione del colore. Una marea di scatolette, l’acciaio luccicante del loro contenuto, la massa indistinta del loro accumularsi sullo sfondo beige dei cartoni appare in contrasto con la sola presenza femminile al centro della foto. Lei sommersa dal processo di produzione industriale, dal lavoro a catena, lei cosa tra le cose, quasi ingurgitata, riassorbita dalla massa anonima degli oggetti, quasi sopraffatta dal loro scatolame. Qui non è più il cibo autentico ovvero la natura a comparire ma nel suo involucro svuotato, la sua rilucente corazza di anonima produzione. Una critica sociale è implicita nella foto di Gilardi come la necessità di una nuova consapevolezza per la classe operaia ma, ancora una volta è, prima di tutto, il rilucente sfolgorare delle cose, il loro darsi a noi nella loro portata immediata e sensuale di “immagini” a emergere in primo piano: consumare cibi e consumare immagini, ovvero divorare con i sensi, mangiare con gli occhi.

“Raccoglitrici di olive in Calabria” (1957)

Le mani annerite dalla scorza verdastra delle olive sono esposte senza pudore alla macchina fotografica; e, ancora, sono le schiene piegate per ore nella raccolta, i fazzoletti per proteggersi la testa, gli abiti macchiati o consunti dal lavoro. Eppure i volti di queste donne appaiono fieri, nitidi, nella loro luminosa semplicità. Si espongono con orgoglio, nella dignità della loro presenza, della loro fatica, denunciando forse le condizioni estenuanti del lavoro ma senza perdere o negare la propria umanità, il proprio essere femminile. E nelle serie fotografiche di Gilardi le donne o le bambine della classe sottoproletaria compaiono come soggetti privilegiati. Una bambina di otto anni sorride all’obbiettivo mentre stringe tra le mani una ciotola colma di minestra; un’altra è vista in primo piano impiegata a lavorare come venditrice in un piccolo chiostro. Altrove, sono donne al lavoro, cuoche delle mense o addette al servizio fotografate nelle cucine; poi madri che stingono i figlioletti tra le braccia sullo sfondo di dimore miserrime in pietra, vicino al focolare, e decenni più tardi,nel pieno del boom economico, casalinghe a fare la spesa nei primi supermercati. Sempre e comunque le donne sono sorprese con grande spontaneità nel lavoro quotidiano, loro fulcro al centro del reportage documentario, restituendo piena dignità alla soggettività femminile anche quando oggetto di sfruttamento denunciato. Loro, queste donne, agli occhi di Gilardi appaiono in un’epoca in cui ancora non esiste tale riconoscimento pubblico femminile, al centro del processo produttivo e insieme portatrici di un’intrinseca bellezza; ciò che fa appello ai sensi e accomuna, ancora una volta, il tema del cibo e quello dell’immagine fotografica. (Elisa Castagnoli)

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