Valeria Rossella – Quello che vedo

Valeria Rossella - Quello che vedo - Interlinea Edizioni 2021Valeria Rossella – Quello che vedo – Interlinea Edizioni 2021
Ricevo da Interlinea Edizioni, certo su indicazione dell’autrice, questo bel libro di Valeria Rossella, già presente su questo blog (v. QUI), in particolare per la sua raccolta di poesie La città di Kitež, uscita per Aragno nel 2012. Rossella, va detto subito, non è solo poeta di grande raffinatezza, ma anche studiosa e traduttrice dal polacco, in particolare del Premio Nobel Czesław Miłosz (sua ad es. la cura del monumentale Trattato poetico, Adelphi 2012). Già all’epoca, cioè nel 2012, avevo rilevato alcuni elementi di interesse, a cominciare da una inesausta fonte lirico elegiaca a cui Rossella attinge senza intellettualismi, forte della convinzione che la poesia, alla fine, appartiene solo a sé stessa, libera da correnti, schieramenti, rinnovamenti obbligati, modernismi. Così come avevo osservato a suo tempo, anche qui tornano protagonisti certi temi che appartengono alla natura stessa della poesia, al suo essere voce umana, pensiero, speculazione sull’esistenza (e tuttavia più della filosofia, giacché – dice Valeria – “i filosofi portano verità cariate nella bocca”): il tempo innanzitutto, topos tanto indefinibile quanto imprescindibile, matrice del flusso della vita e della memoria di essa, filza di attimi/coscienza in cui siamo stati, di cui abbiamo impronta (sia detto, ancora, senza scomodare filosofi); i sentimenti e gli affetti, compresa la mancanza, l’assenza, ma anche la persistenza che ad essi assicura il ricordo, sia pure nella sua poetica “inesattezza”, ovvero nella sua ri-creazione in versi, nella sistemazione di esso in un casellario privato; e c’è, in questa componente sentimentale/memoriale, naturalmente un sentimento del tempo, che scorre e forse ritorna come nelle piccole stazioni che “hanno due binari”, che in qualche modo  è un flusso ma “non sta su un piano cartesiano”, cioè non ha quella razionalità che alla poesia non può interessare, poiché semmai è (e il poeta lo sa) a rude stream di shakespeariana memoria. Va da sé che in questo repertorio tematico, qui come in Kitež, non possono essere assenti la morte e i morti. Rossella sa che “non si ritorna mai, non si ritorna”, la morte è un momento in cui “ciò che è lasciato è lasciato, il libro aperto / a pagina cinquanta”, il distacco anche improvviso da una concretezza di persone e cose, un precipitare “nel buio dove tutto è immoto, dove tutto è anemico”, ovvero un luogo scolorato e inerte. I morti, certo, ma anche coloro che si sono persi per strada, i lontani, i dimenticati, che cioè soggiornano in un limbo, quelli che solo grazie alla memoria, a un recupero poetico, “emergono dal permafrost degli anni”. Come un aruspice il poeta deve raccogliere i segni e risignificarli, siano essi cose concrete o memoriali o gli uccelli qui spesso presenti (civette, cigni, ballerine bianche, le mitiche Chere, storni o “uccelletti sconosciuti con la testa bianca”) oppure “gli oggetti-talismano, il Rocci, lo spartito / dell’Amore è blu”. È un procedimento creativo raffinato, in cui nulla va perduto e nulla è ridondante, e tutto o quasi, specie nelle poesie migliori, si ricombina in un testo poetico assai suggestivo, dove pensiero e immagine si abbracciano (v. ad es. più sotto Monadi nell’autunno del 2020). La poesia si ricompone, si ricuce. E sebbene Valeria ci avverta che “l’arte delle cicatrici non consola” tuttavia la poesia non può declinare certe responsabilità. Si tratta, come già accennato, di ricostruire, che è pur sempre un atto di speranza. O rimettere insieme i cocci, come suggerisce l’autrice nella sezione Kintsugi, ovvero, come annota Rossella, l’arte giapponese di restaurare oggetti rotti con lacche o metalli preziosi lasciando tuttavia visibili le fratture: poiché – aggiungo in generale – il testo, soprattutto in lirica, non nasconde (o non dovrebbe), semmai ricompone sotto altra forma i frammenti, crea un’estetica in cui il segno del tempo (che grida, “il tempo che piange ininterrotto”), forse l’imperfezione, forse un certo senso di impermanenza, o  l’impossibilità del ritorno all’inizio “per chiudere la vena” sono fondamentali (definiamolo, perché no, un wabi-sabi poetico). Alla fine, nella lingua colta ma cristallina, impreziosita spesso da lampi di metri canonici come certi endecasillabi, tutto trova la sua luce, c’è molto poco di fosco, niente di patetico, ma nemmeno niente di rassegnato. Perché, come già in Kitež, Rossella si pone saldamente al centro ma senza egotismi, confida solo (o spera) che la poesia, come i limoni dipinti da Francisco de Zurbaràn, nella poesia omonima, che non “patiranno le muffe e i saprofiti”,  riesca a ricreare una realtà che “cambia di grado”  sconfiggendo “la vociferante obsolescente acqua” del tempo. (g. cerrai)

Aubade

Il passo sciancato del vento tra le foglie
è simile a quello del mio amore è simile
alla morta farandola che i gusci degli insetti
danzano con le immagini dei ragazzi col piercing e l’aritmia cardiaca
negli specchi dei bar che chiudono alle quattro del mattino
quando tramontano gli occhi imperturbati della notte
gelidi sfaccettati occhi di mosca.
È ottobre:
il vecchio dio cieco ci vede come ombre.
Qualcuno smonta il turno con le ambulanze e i camion
della nettezza urbana, e il grido
che annuncia l’alba pare di un uccello
invece è il tempo che piange ininterrotto

 

***

 

Non si ritorna mai, non si ritorna.
Ciò che è lasciato è lasciato, il libro aperto
a pagina cinquanta, i due duellanti,
le tazze vuote sul tavolo e lenzuola
disobbedienti e tristi.
Non si ritorna mai, percorri
i viali trasformati in illusori
gioielli d’ambra, oreficeria autunnale,
nel trench sgualcito da una notte ventosa
e mai pacificata,
apri la porta di casa e come sempre
non è già più quella la tua casa.

 

***

 

Ianuaria

Danza la polvere una disordinata sarabanda, e l’ombra
di una coppia cammina lungo il viale,
annusa i muri l’ombra di un cane, e ombre
di storni ruotano le ali sui tralicci
tracciando nel cielo oracoli illeggibili.
Ianus governa il varco bisbigliando, e ognuno
volando o strisciando raggiunge la sua meta

Docili insetti che formicolate 
lungo la ferita
come l’etere il tempo passerà,
vi renderà immobili e perfetti 

Ma ora che la sera
del tredici gennaio
siede sul davanzale mostrando le ginocchia aguzze
nelle foto iniziano a brillare le pupille, astri
di un emisfero perduto
e il gatto rosso, che avevo tanto amato, (come ha fatto a passare?)
attraversa (sembra una fiamma) la cucina.

 

***

 

Dapalis Macrurus (Calcaires de Vachères, Alpes de Haute-Provence)

Nuotare nel tempo, Dapalis Macrurus, mentre le terre emerse
vanno come ogni cosa alla deriva, nuotare penetrando
fra gli scisti rocciosi delle Alpi, Alta Provenza.

Oligocene. Ancora fra le borre dei millenni
mancano tarsi e rotule umane,
solo emergono impronte tridattile, gli ovali
dei pesci e delle foglie, e le spirali.

E ora nella tua mattonella calcarea
sopra un ripiano della libreria
ti mostri come lisca, e improvvisamente
del tempo riluce la vociferante obsolescente acqua.

 

***

 

Gotico bretone (Mont-Saint-Michel)

Nel rosso inchiostro della scrittura carolina scorrono le vite
martoriate dei santi, gli occhi strappati, le graticole, scorrono
le leggi, le erbe, i farmaci e gli astri, le poesie,
al monaco amanuense gelano le dita per la dura
Regola benedettina qui dove l’inverno severo a lungo siede
nella magra gotica luce, ma
dalle miniature esce il profumo del lentisco, i palmizi
e un cielo mai visto se non nei lapislazzuli

 

***

 

Monadi nell’autunno del 2020

Portando sul capo la corona, api ronzanti, firmamento
di spine, io spesso cerco
le otto stelle del mio amore, l’uomo
che scrive, quattro stelle la sedia quattro
la macchina da scrivere e lui fluttuante nebulosa
nel cosmo speculare a questo di monadi intoccabili.
Piove, novembre ha fretta di sparire, l’angelo
del gelo spoglia i platani con dita smaniose e nelle pozze
alla fermata del sedici due donne uscite dal discount
attraversano il viale frastagliate e capovolte
in un esistere altro, sosia o gemello,
di questo più labile forse, o viceversa.

 

***

 

Le piccole stazioni hanno due binari
arrivi o partenze chi può dirlo, il tempo,
il vecchio angelo seduto
su una pietra a Staglieno, il tempo
non sta su un piano cartesiano
Per questo ora mi dici, qui, nel tuo cappotto fuori taglia,
nella sala d’aspetto della stazione di Verbania, mentre
due ragazzi sonnecchiano, la testa sullo zaino,
Temevo il freddo ma fu il calore a togliermi la vita
qui me lo dici ma senza partire né arrivare, solo
scorrendo fuori dallo spazio, oltre quest’erba fra i binari
diafana, le nubi spinte dal lago verso
le cave di marmo palissandro, scorrendo

solo nel tempo come fa la musica

 

***

 

Prendiamo un caffè? sento la tua voce
arrivare rugginosa di salsedine
in un bar a Camogli, e sono
di nuovo nel gennaio del novantasei.
Un vento cattivo scalcia un mucchietto d’immondizia
nel vicolo del porto, mentre le triglie danzano
nel magazzino del pesce il loro spettrale minuetto
e si fa beffe di me il primo lampo,
quello che ammonisce.
Forza, coraggio, su, tutto finisce
pioverà presto, sui gatti e sulle apparizioni
e non sarà più possibile distinguere acqua da acqua.
Metterò in tasca una pietruzza
raccolta sulla spiaggia, e la porterò sulla tua lapide,
o immagine graffiata di raucedine.

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