Massimo Pastore è un autore da quel che so per lo più auto-prodotto, che ho ospitato sul blog due o tre volte nel corso del tempo (v. QUI). Si potrebbe definire un poeta essenzialmente lirico, a volergli male, ma sarebbe riduttivo se non si accompagnasse l’aggettivo con qualche altra qualifica. Che sia in fondo un romantico apparirà evidente fin dai primi versi, ma uno di quelli che conservano qualche conto aperto, che ci sono passati e che forse non sono tanto contenti di mettere la testa a posto, così che conservano nella scrittura un modo un po’ arrotato e fauve di vedere le cose, e che – rimbaudianamente – tendono a considerare le loro piccole o grandi saisons en enfer un bagaglio non sacrificabile in nessun caso; chiaro anche, io credo, che sia in fondo un narratore, che cerchi cioè quasi sempre di raccontare, più che di descrivere, un pezzetto di vita, un meccanismo emotivo, e in effetti in passato avevo scritto di lui come “poeta figurativo e cantastorie”. La sua è in effetti una poesia performativa, ‘da voce’, ed ha certo qualche affinità, come avevo già notato, con una qual linea ligure che però ha nella canzone i suoi esponenti più illustri. Una scrittura che sembra spiccia, a volte eccessiva, anzi esagerata, specie nella costruzione di similitudini e metafore molto “americane” di cui, indubbiamente, non ha paura (“il supermarket è una piantagione rettilinea”), ed è in questo “spontaneista” o lo fa credere bene, come il suo amato Bukowski. Ma (avevo scritto) “è questo filo diretto che la parola, senza troppi infingimenti o concettualità, mantiene con l’esistere ad essere la vera sostanza della poesia di Massimo, la sua ragione, e forse anche il suo potere salvifico” (e però, per non smentirsi, “il poeta stupra avidamente la poesia”). Naturalmente crescendo un po’ è cambiato (“5 anni fa ero un uomo folle e gentile”) e su questa salvezza, che – anch’io romantico – avevo tirato fuori, non so davvero se ci si possa fare affidamento, nel senso che il tempo aggiunge, non solo a Massimo, un quid di disillusione, un fiducioso appoggiarsi a certezze, a valori come l’amore che non hanno (più) bisogno di essere presi a morsi (e tuttavia “amore è una parola coi denti”, lui ci dice). O forse è tutto il contrario, vai a sapere, perché il tempo ha mescolato questo mucchietto di poesie che mi ha mandato (che, proprio come scrissi a suo tempo “sono molto buone, altre meno – ma solo perchè, mentre tutto fila liscio, ogni tanto d’improvviso ci infili qualcosa come per dispetto o per posa – , altre no”) ed è difficile capire cosa ha scritto prima o dopo o chissà quando. Ma nella scrittura il dolore, anche il dolore tossico, che aveva e che aveva visto rimane perché è anche memoria del corpo, non c’è niente da fare, e ogni tanto ha ancora bisogno di infilarsi le unghie nella coscia, per ricordarsi chi era, chi è. (g. cerrai)
La tristezza cade come pelle bruciata,
vi ho chiamato con i vostri nomi da bambini
per ricordare la lucertola
a cui abbiamo tagliato la coda
come piccoli delinquenti
e non eravamo null’altro
che centri elementi poetici
con le nostre canottiere
dove l’unica fodera per la spada
era la vena…
vi sto chiamando per augurarvi del bene
o forse per sbattere ancora sul terreno
con occhi di scritti perduti
la mia tempesta elettrica
l’h che non vuole saperne di stare al suo posto
i padri che avremmo voluto essere
il segno del vino sulla tovaglia della domenica.
***
Se solo avessi la scienza e la delizia
di un nuovo altrove, l’altrove che tu morto mi donasti
nei miei giorni, quei giorni
del mio personale inferno
quando rifiutai la poesia, l’arte
ed il socialismo
per la tua biblioteca africana;
I testi di geografia,
i compendi di geometria e algebra,
le tecniche di costruzione per binari ferroviari.
Se solo l’eroe di questo sogno,
l’altrove che ci canta e guida
nelle comete abissali
delle nostre profonde
scialuppe
mi desse il coraggio di gridare
adesso,
che tutte le fanciulle
hanno le labbra d’arancio.
***
Io credevo di riscattare un’ anima,
saccheggiare oro liquido,
ordinare spritz per sette notti,
liberare mutande
e conversazioni falliche,
credevo nell’esistenza di Dio e dei poeti,
nella fica
e nella dietilamide dell’acido lisergico,
credevo nella monogamia
leggendo la storia sui libri
nella forte aria esplosiva.
Avrei dovuto essere un uomo fortemente religioso
lasciare perdere tutto
crescere e venire da un fuoco
come un gatto che esce di corsa da un mare.
Resta, per un attimo, il desiderio della pelle bagnata,
il ricordo di mia madre
che mi teneva ai suoi piedi come un piccolo di uomo
smarrito,
gli occhi di mio padre, un falco ignorante,
il più buono tra i bambini.
Questa notte proverò a dormire un sonno tranquillo
senza sogni,
ho lasciato un biglietto fuori dalla porta:
“ paura della toilette,….perdona ti prego.”
***
Ricordo tua madre, il modo in cui mi guardava
solo perché ti scopavo forte:
-Giuro- avrei scopato anche lei
se avesse smesso di guardarmi così,
come un negro.
La Brianza è un posto orribile di domenica mattina,
ti puoi infilare in una chiesa
o al massimo in un bar tabacchino.
A quel tempo giravo con un tubo del gas nei pantaloni
avevo quindici anni
e molte più vite di adesso.
Che stupido che ero, a mangiare risotto giallo
e pollo in gelatina,
a non sorridere mai alla tua cameriera,
a vomitare nel tuo bagno,
ad annusarmi le mani sotto al tavolo,
a dire grazie e buongiorno,
a cercare di tenere in equilibro gli occhi,
ad ascoltare alla radio quelle preghiere del cazzo.
La notte, arrivavo come un gatto silenzioso
ed eccitato
alla tua finestra
sognavo tua madre che ci spiava da dietro la porta,
sono stato gentile con te,
ti ho fatto tutto quello che mi passava nella testa,
ti ho scritto porcherie,
ho sopportato tuo padre e tua sorella,
e quando mi hai chiesto i miei appunti di poesia
ho sputato sangue sul tuo cuscino
una macchia marrone simile ad un sorriso,
tua madre aveva ragione, sono filato via dalla finestra.
Tanto ci sarà sempre un verme di editore
a stampare poesie sotto forma di morfina.
***
Il vento, con i suoi pollici azzurri
si rifiuta di uscire dal canneto,
sulla tua schiena le mie dita convergono
come tante formiche di mercurio,
dalle mie labbra fuoriesce il sapore di un culmo legnoso,
mi manca l’aria.
Le tue cosce mi ingoiano
come minuscoli morti intorno alle rive,
l’ultimo atto di pietà
il mio sperma
sul collo del tuo utero.
***
Una nuova vita,
una dannata vacca con le tette piene di latte,
a fracassare ampolle di mare contro i tombini,
i tombini sono le bocche di Dio
ma si doveva morire sul posto,
allora, nel tempo.
le mie parole sono la ruggine delle stelle,
e cade,
sempre di notte,
la ruggine delle stelle.
Un ragazzo dovrebbe diventare uomo!
Le riviste porno nascoste dietro il calorifero
come un desiderio da apostolo,
la sigaretta rollata dietro l’orecchio,
le mattine in cui ci miravano:
– andiamo a dare gli spintoni agli ubriaconi ma
si doveva morire sul posto,
allora, nel tempo.
Ci siamo parlati troppo a lungo
le mani si sono ossidate
come ferro,
– che cazzo di poeta che sei-
No, Dio buono!
Vorrei essere una star del fisting
e farmi venire il cervello,
invece resto per il dopo cena,
ringrazio per il caffè,
e ti scrivo sullo specchio del bagno
che si doveva morire sul posto,
allora, nel tempo,
quando eravamo giovani di tutta questa maledetta merdapoesia…
***
Ho lasciato negli angoli minuscoli di una città
i resti di una testa di gabbiano,
sui muri dove le bambine vanno ad orinare,
nei portafogli dei baristi,
sulle insegne delle farmacie notturne,
nelle profonde isole dei sodomiti,
in occhi incontrati per caso come un lago
di immutabili coltelli d’acqua.
Le mosche dell’inverno si abbeverano dai miei piedi,
mi gelano le mani,
tremo come una soffitta di bambini,
la scala è perduta, prepara il falò,
ho un uccello di carta nel petto…
***
Toccare con un dito la solitudine delle articolazioni,
( I biglietti di auguri mi fanno tremare come una linea
tracciata su una strada di campagna),
gridare- PIOGGIA- agli uccelli sotto le nuvole,
fare l’amore come un miracolo,
chiedere un passaggio ad un prete,
ad un rabbino,
una supernova
o ad un amico ubriaco
per trasportare blister di alluminio e tossicodipendenze
fuori da questo sistema solare.
Ho malinconia del futuro,
le mie speranze le ho appuntate dietro le ricette della farmacia,
voglio solo accarezzarti sui piedi, stasera,
e non avere paura della morte mentre ti lasci dormire,
così,
bella,
nella tua misericordia;
ed infine intonare un salmo di attenzioni
che tu non potrai sentire
nella notte, dentro al sogno…
***
È una stanza segreta
il tuo ultimo desiderio prima di dormire,
le finestre bianche sospirano
mentre attendono
la grazia dei tuoi sogni.
Sei un cavallo bianco
che corre senza padrone
nel nudo del mio destino.
Ti afferro, un seno per volta,
e cavalchiamo come due randagi.
La stella è una pupilla del cielo,
mi guardi
diventi azzurra e imbarazzata
poi mi metti di schiena,
sei il libro del mondo- dici- ti voglio bruciare.
Come un farabutto
l’amore
lascia sgomenti
di tanta impudenza.
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