Yvonne Rainer: words, dances, films – nota di E. Castagnoli

Yvonne Rainer, Film About a Woman Who…, 1974Yvonne Rainer: words, dances, films (al Mambo di Bologna)


Parole, immagini e danza, tale il connubio tra la produzione coreografica, quella filmica e di scrittura teorica presentato per la prima volta in Italia al Mambo di Bologna dedicata alla coreografa e registra Yvonne Rainer da cui emerge una figura sfaccettata, complessa e poliedrica per la danzatrice della post-modern dance americana. Uno spazio particolare occupa nella mostra la sperimentazione filmica della Rainer che si staglia dai video sperimentali degli anni settanta, spesso oggetti di scena nelle performance, ai lungometraggi diretti dal 1974 al 1996 che come narrazioni autobiografiche intrecciano la storia personale al tema sociale e politico dando voce per la prima volta a una soggettività femminile; infine compare il video singolare Lives of Performers, serie di quadri viventi che precorrono in qualche modo un’idea di danza-teatro sullo sfondo di un triangolo amoroso soggiacente.

 

Il nome della Rainer resta legato al collettivo della Judson Dance Theater di cui fu una delle principali fondatrici agli inizi degli anni ’70 dove emerge come una delle più prolifere danzatrici della post-modern dance della quale è divenuta emblema per la portata innovativa delle sue coreografie nella nuova estetica post-moderna nonché per la stesura di un vero e proprio manifesto sulla nuova danza presentato ironicamente come il No Manifesto nel 1965. All’ingresso della mostra è ad accoglierci il video Trio A (1978) basato su una coreografia del 1966 che la rese nota a livello internazionale per la scelta di uno stile minimalista volutamente oppositivo alla danza moderna. Manifesto di un nuovo concetto di danza il corpo della Rainer esplora movimenti semplici presi dalla vita quotidiana nella totale assenza di dramma o di virtuosismi tecnici legati al balletto moderno. L’azione o il gesto nascono da un semplice compito di realtà (“task-like”) come camminare, correre, alzare un braccio o inclinare la testa ma il corpo mantiene una postura sprovvista di ogni intento scenico. Lo sguardo non si rivolge mai al pubblico e ciò che emerge, al contrario, è la dimensione del togliere l’eccesso, del liberare dalla teatralità del gesto per focalizzarsi sul flusso dell’energia e del movimento in una dimensione spazio-temporale propria. Tale il presupposto della nuova danza minimalista, impersonale e astratta creata da questa generazione di giovani danzatori e performer della Judson Church.

 

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Video sperimentali

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Attraversando la Galleria laterale della Sala delle Ciminiere ci si imbatte in una serie di video sperimentali realizzati dalla Rainer tra il 1966 e il 1969 che divennero parte integrante in dialogo con i danzatori in scena, definiti dalla coreografa stessa come “appunti visivi”, sperimentazioni in atto della sua riflessione sul corpo visto qui come strumento performativo e neutrale portatore di un’intelligenza propria, intrinseca al movimento nella svolta della nuova danza.

 

In Volleyball (1967) vediamo nella ripresa a camera fissa due gambe di bambina che calciano lentamente un pallone, poi la traiettoria del pallone rotolando da un angolo all’altro della stanza, infine scarpe da tennis al centro dell’inquadratura in primo piano. Hand Movie segue in dettaglio i movimenti lenti e significanti di una mano come fossero ombre cinesi: una mano che danza attraverso gesti semplici ed essenziali quasi volesse astrarre in quel fare la quinta essenza della coreografia.

 

Infine in Trio film (1968) assistiamo al dialogo muto tra due corpi nudi che si passano una palla tra un divano bianco e due sedie. I performer interagiscono in maniera minimalista utilizzando gli oggetti della stanza come fosse una scena mentre il fulcro dell’azione appare chiaramente essere non tanto nel fare quanto nel togliere, eliminare il superfluo per lasciare spazio all’architettura essenziale dei corpi visti in un contesto neutrale. L’improvvisazione qui crea azioni performative nella semplicità di gesti comuni come sedere, alzarsi, prendere qualcosa, passarlo all’altro ecc esplorando nel suo fare per la prima volta i principi fondanti della “instant composition”.

 

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Lives of performers”( 1972) visionabile al centro dell’esposizione resta il primo film in cui la danza-teatro fa da sfondo a una sorta di “melodramma” amoroso evocato dalle voci fuori campo attraverso i dialogo o i monologhi introspettivi dei tre personaggi. Volutamente appare il contrasto tra l’ambiente spoglio, l’apparente monotonia del parlato o di una scena riempita con elementi semplici del quotidiano – una sedia, un letto, una valigia – e invece la carica emozionale delle voci fuori campo dando corpo e densità al non-detto soggiacente. Su una scena vuota riempita di gesti semplici, pause, silenzi con una camera spesso frontale ai volti, i personaggi sono visti in una serie di still life, di pose immobili come abbracciarsi, sedere su una sedia, cadere a terra, restare uno sulle ginocchia dell’altro, distendersi su un letto ecc. Le voci staccate dai corpi raccontano frammenti di una storia sospesa, interrotta, incomprensibile se non per schegge impazzite mentre il monologo incarna le tensioni e i dilemmi della relazione a due nonché l’emergere di una nuova soggettività femminile liberata o in rivolta contro gli schemi patriarcali e repressivi del passato.

 

Nella produzione filmica della Rainer, infatti, l’ impronta socio-politica come l’opposizione all’establishment americano dell’epoca o ancora l’assunzione di un punto di vista prettamente femminista si associa alla ricerca formale della danza, divenendo uno dei caratteri distintiva della sua composizione coreografica.

 

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Il “No Manifesto” oggi

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“La nostra ultima e più forte arma sono i corpi, un’arma che abbiamo usato collettivamente”. In definitiva nelle performance della Rainer il corpo assume un inderogabile ruolo politico – primo lascito della post-modern dance – in quanto appare nella sua nuda verità, nella sua semplice ed essenziale densità di materia-pensiero per un sentire che è riportato dentro la pelle, i muscoli, la sua sostanza sensibile al di là di ogni finzione scenica o virtuosismo, ciò che era divenuta nelle sue estreme derive la danza moderna. Tale forse il lascito di questa generazione: da un lato sgombrare il campo dagli eccessi di forma o di teatralità impliciti nella codificazione del balletto moderno ricercando attraverso l’improvvisazione o la composizione istantanea quel “Momentum” di verità che è l’apparire stesso del grido del corpo come ciò che accade, che si rivela malgrado la volontà o l’intenzionalità dell’io. Di qui il gesto quotidiano, il movimento ordinario portato fuori dal suo contesto usuale nel momento o gesto performativo dell’improvvisazione. D’altro lato, la Rainer come tale nuova generazione di performer sceglie di partire dal linguaggio del corpo   per portare in scena conflitti sociali, discriminazioni di genere e soprattutto la repressione del soggetto femminile in una società ancora dominata da rigide strutture patriarcali o sessiste alla fine degli anni sessanta. Il suo No Manifesto riportato quasi integralmente in un pannello della mostra appare, per noi ancora oggi, come un’asserzione libertaria del corpo, un lascito di rivolta contro le precedenti strutture gerarchiche e repressive dell’io femminile in quella società, e ancora un ritorno alla dimensione umana, non eroica né spettacolare del movimento. Il “peso del corpo” porta già in sé, nella sua fisicità, nella sua traccia di energia e presenza sulla scena una propria veridicità, una propria intrinseca emozione. Tale la rivoluzione della danza post-moderna approdata fino agli esiti del contemporaneo di cui la Rainer appare ancora oggi come una delle figure più significative e innovanti. (Elisa Castagnoli)

 

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