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Ugo Mauthe – Il silenzio non tace

Ugo Mauthe – Il silenzio non tace – Edizioni Ensemble, 2019Ugo Mauthe - Il silenzio non tace - Edizioni Ensemble, 2019

 

Ugo Mauthe (Palermo, 1953) è un pubblicitario con una lunga esperienza come copywriter, direttore creativo e docente di comunicazione. Nel 2017 con la fiaba Sem fa cucù ha vinto il contest “Racconti nella Rete” (pubblicata poi all’interno di un volume edito da Nottetempo). Ha pubblicato il romanzo Qunellis e la raccolta poetica Minuziosa sopravvivenza. Ha ottenuto riconoscimenti in vari concorsi, fra cui Albero Andronico, Argentario, Bukowski, Pietro Carrera, Città di Castello, Città di Cattolica, Fiabastrocca, Giovane Holden, Carlo Levi, Il Meleto di Guido Gozzano, Lorenzo Montano, Andrea Torresano

 

Una poesia dalla leggerezza ricercata, perennemente in bilico su molti equilibrismi, alcuni dei quali, specie quelli lessicali, scovati con una certa acribia, spesso con l’obbiettivo di raggiungere quella “funzione poetica” (l’eco, la rima, l’assonanza, la consonanza, l’allitterazione, la paronomasia) di jakobsoniana memoria che Mauthe, come pubblicitario, dovrebbe conoscere bene, e che non sempre ha a che fare con la poesia. La cifra formale è quella del testo brevissimo, a volte al limite dell’aforisma criptico o del koan buddista (“finché non cambiano i pesi nei piatti / è una schizofrenia ben bilanciata”), altre volte dell’haiku ridotto ai minimi termini e tendente ad una circolarità basata spesso sulla parentela sonora di parole in effetti diverse (es. la doppia significazione: “s’inspirano e si espirano / gli spiriti che mai spirano / e tutt’intorno spirano”). Spesso presente quindi il gioco di parole, al limite qualche volta del puro witz verbale  in relazione, diciamo, alla economia  totale del testo, meccanismi che ricordano alla lontana Perec, Queneau e che in effetti hanno una discreta parentela nella letteratura dove, insomma, c’è sempre qualche processo combinatorio in atto. Il lettore deve in qualche modo decidere se è l’approccio formale che si riverbera sulla materia poetica (diciamo sulla sua scelta, o se preferite l’ispirazione) o viceversa, se cioè è quel carattere epifanico e immediato delle “cose” che si realizza e non può che realizzarsi in quella forma, il più delle volte, secca. Quali cose? L’ispirazione – continuo a usare questo termine improprio – di Mauthe proviene da una serie di fatti, pensieri, altre emergenze. Sono per lo più epifenomeni del reale, nel senso di manifestazioni accessorie di qualcosa che c’è, è in sostanza avulso dal tempo e dal luogo, qualcosa che preesiste al poeta e alla poesia, che si palesa, si accende, dura qualche istante, qualche verso, quel che serve per dire al lettore pirandellianamente “così sono (se vi pare)”. Appunto, quel che appare, a chi scrive e a chi legge: immagini, colpi d’occhio, pensieri improvvisi, anche singole parole che innescano il gioco, tutto sembra appena trascritto da qualche bloc notes, e invece magari ogni testo è frutto di un accanito lavorio di limatura, non è dato sapere – e in effetti non si sa se scrivere (Fontane al vento) versi come “si sventaglia il tempo / in meridiane d’acqua”  è improvvisa intuizione ungarettiana o ricerca di un effetto lampo.
E però, al di là delle apparenze, la forma corta non si traduce (non sempre) in un testo chiuso e perentorio. Voglio dire che se l’aforisma per sua natura è apodittico e lascia poco spazio, queste poesie di Mauthe quando raggiungono la loro espressione migliore forniscono al lettore o un corto circuito significativo o una riflessione sulle prospettive, le ambivalenze, sull’immediatezza di certe percezioni, lavorando per omissione e allusione, per alleggerimento e sottrazione.  Altre poesie invece, (come ad es.: “si era lasciato scivolare / nei suoi occhi / e con un suo pianto ne era uscito”), in un libro che nella brevitas (intesa come concisione ma soprattutto  pregnanza) ha uno dei suoi punti di forza, a mio avviso probabilmente  andavano espunte dalla raccolta. (g. cerrai)

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Il corpo amato – considerazioni su Il tempo di una cometa di Stella N’Djoku

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Stella N’Djoku - Il tempo di una cometa – Edizioni Enseble, 2018Stella N’Djoku – Il tempo di una cometa – Edizioni Enseble, 2018 (nota di Fabio Prestifilippo)

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Stella N’Djoku nasce il 27 giugno 1993 a Locarno, da madre svizzera di origini italiane e padre svizzero-congolese ed è laureata in Filosofia, e Il tempo di una cometa è il suo esordio letterario. L’esergo di Rilke ci aiuta a decifrare una tratto fondamentale del libro: “Eppure la parola, quando fu detta, parve al di là di ogni sapere: incomprensibile.” Nella silloge la lacerazione tra scrittura e comunicabilità, di cui Rilke traccia un segno definitivo, si divarica al fine di comprendere il corpo come attore imprescindibile del linguaggio e quindi della vita stessa. Anche la poesia, la sua struttura, il fatto che sia un nero su bianco e si configuri come forma, se ci limitassimo all’essere che si palesa sul foglio, apparirebbe come un corpo colto di profilo, costituito dalle parole di un linguaggio che ha perso la sua durezza e come tale appare con appendici raramente antropomorfe. Mi permetto questo paragone azzardato perché nelle poesie di Stella N’Djoku il corpo è un fenomeno che non si può ignorare: “Non avessi avuto gli occhi\e queste orecchie\e ciò che mi rende pari a questa terra\sarei rimasto intrappolato in questo corpo”; “Oggi rimetto tutto alle radici\torno corpo\tra i corpi che non sono”; “qualcosa rimane del nostro essere\carne e muscoli in trecce\o siamo freddi sacchetti per ossa”. Il corpo è un apriori della parola, il fatto che sia l’ente ad abitare noi è l’unico varco nel reale che ci è concesso: “Non posso contenere/ciò che mi contiene.” Unicamente l’onirico permette al linguaggio un accesso all’inconscio senza l’ausilio del corpo e qui finalmente la parola può incidere la fine della frase del soggetto: “scoprire il valore\ del sonno, incidere la fine\ della frase”.

La seconda sezione del libro si intitola: “Congiunzioni”. Il termine rimanda insieme all’unione perentoria delle parti, e, se considerato il transitivo pronominale del verbo congiungere, a un avvicinamento in divenire. Su tale fluttuazione significante si configura la definizione d’amore: la congiunzione tra la parola che manca al suo scopo (comunicare) e il corpo come luogo prima del linguaggio. Anche in questo caso l’esergo alla seconda parte ci viene in aiuto; i versi sono di Mariangela Gualtieri: “L’amore è il tuo destino.\Sempre. Nient’altro.\Nient’altro. Nient’altro.”. Consapevoli di questo in che modo assegniamo alle cose il valore di “importanza”, se l’amore è il tuo destino? Se il corpo è vincolante e la parola è l’esperienza del non poter dire o scrivere allora solo attraverso l’amore/desiderio si avvera un effettivo avvicinamento. L’amore si gioca in vita ed è la possibilità di congiunzione tra corpo e parola: “Solo amare è per sempre\come il sangue\ che unisce.”.

In questa direzione i versi di Aprile-amore di Mario Luzi sembrano emblematici: “E’ incredibile ch’io ti cerchi in questo\o in altro luogo della terra dove\è molto se possiamo riconoscerci.\Ma è ancora un’età, la mia\che s’aspetta dagli altri\quello che è in noi oppure non esiste.”. La congiunzione è in prima istanza il desiderio di un incontro.

Abbiamo considerato la scrittura come l’esperienza finale di ciò che non si può scrivere, il corpo come l’ente prioritario e il desiderio come la possibilità di congiunzione tra corpo e parola e quindi l’accesso al luogo dove si può finalmente dire. Sebbene l’unione delle due sezioni potrebbe significare quanto detto, quindi una trama simbolica complessa che procede per indizi sparsi, la cifra stilistica rimane sul lato chiaro delle cose (per citare l’eccellente prefazione di Valerio Grutt). La scrittura di Stella tende all’immediatezza e, attraverso una certa perseveranza lessicale, ci restituisce una rappresentazione del mondo dove la possibilità di un incontro, sia esso l’incontro con l’altro da sé o con il ricordo, è la vera sostanza dell’esistenza. Sempre dalla prefazione: “Le poesie di Stella sono incisioni su un muro di nebbia sottile, versi che si dispongono delicatamente per avere il giusto peso, una misura che sia “pari a questa terra”. Sembrano voler trovare il proprio posto nella natura, come fiori disposti in un campo, polvere nel vento, conchiglie rotolate a riva nel movimento di sostanze e apparenze, e arrivare a noi così come arriva tutto, come passano i giorni”. (Fabio Prestifilippo) Continua a leggere