Nadia Chiaverini – Notturni e ombre

Nadia Chiaverini - Notturni e ombre - Carmignani Editrice 2018Nadia Chiaverini – Notturni e ombre – Carmignani Editrice 2018

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La notte e l’ombra come luoghi fisici e metafisici, zone in cui avvengono i sogni, si elaborano desideri o dolori; ma soprattutto territori di confine e passaggio, zone franche nelle quali forse si liberano energie creative, si colgono barlumi di una realtà non sempre verbalizzabile, dove il corpo perde un po’ del suo peso, dove le parole assumono un altro senso, più acuto. Luoghi anche, ovviamente, di una solitudine cercata, là dove l’idea, o l’ispirazione se volete, non debba essere sottoposta, con le parole che trova, le “sue”, a nessun compromesso sociale, a nessuna “spiegazione”. Per Nadia Chiaverini direi un luogo privilegiato, paradossalmente “confortevole”, dove cioè si trova bene, che “funziona”, come lei stessa è disposta ad ammettere. “Il momento perfetto / è nel lento scorrere tra il sonno e la veglia / quando tutto si trasforma / così nitido e chiaro”, scrive, e altrove aggiunge “nel confine tra la coscienza e il sogno / dove tutto è già scritto”, là dove “galoppano le parole / di notte tra i sogni / sdrucciolano / lasciano segni”. Ecco, c’è in Nadia – come in altre poetesse ma non è una questione di genere – questa specie di fede laica in una scrittura sorgiva, naturale, in una sorta di serbatoio segreto nel quale le parole si conservano, dove tutto è già scritto, come un Logos che proviene dalla Creazione stessa, lasciato in eredità ai poeti destinati ad estrarle (un’idea che affascinava anche Borges). Naturalmente non è del tutto così, ma è bello pensare che il mestiere del poeta sia questa specie di rinvenimento del senso, sia la capacità di rimettere in funzione certi meccanismi onirici, metaforici, associativi, cognitivi che per il linguaggio comune non sono utili, non sono “economici”, cioè non abbastanza funzionali ad un risultato efficiente con il minor dispendio di energie. Nadia è perfettamente consapevole che la poesia, come diceva anche Montale (*), è un’arte inutile ma necessaria, di quella necessità intensamente spirituale (“angelica”) che il grande Wallace Stevens le attribuiva. Nella produzione di Nadia questo si risolve soprattutto in un incessante lavoro, anch’esso spesso notturno, di eliminazione del superfluo, di alleggerimento di un linguaggio che per scelta e convinzione è già privo di fronzoli o di ricercatezze lessicali, di allusioni fini a se stesse; quello che lei chiama il labor limae e che è a tutti gli effetti un processo, anche faticoso, di selezione e ricombinazione, che poi alla fine è ricerca della musica e del senso, della giustificazione anche etica, anche emotiva, anche politica, perfino – perché no – affettiva dello scrivere.

Ma scrivere di che cosa? Nella sua essenza la poesia di Nadia è un continuo agganciarsi a segnali dal mondo, apparentemente di diversa estrazione e tema, ma che sono tutti riconducibili al dato esistenziale, al quotidiano, al proprio essere donna nei suoi diversi aspetti e soprattutto alla ricerca del senso, dell’eco, del riflesso, del ruolo attivo, diciamo innescante, che questi segnali hanno sulla sua sensibilità. La poesia, non solo nel caso di Nadia, è riproduzione e amplificazione creativa di questi segnali, in un certo senso è scoperta di quello che c’è dietro, risposta alla domanda “perché questo mi colpisce, mi comunica (nel senso originario del termine)?”. Non è del tutto un caso che molto di questo lavoro poetico, di questa poiesis (letteralmente il creare dal nulla) avvenga in quella zona crepuscolare, tra luce e ombra, che Nadia frequenta e che è luogo deputato del disvelamento, incrocio tra diversi livelli di coscienza. Nell’identificazione dei segnali c’è anche il riconoscimento di sé, il capire come le “cose” costruiscono poi la propria identità. In altre parole, come diceva il filosofo, sei quello che percepisci. In questo agganciarsi a fatti, a cose, a un fiore, a un gatto, a un cigolare di cancello, a una scatola piena di vecchie foto, a dei vestiti, perfino agli “scarti” della vita quotidiana (è il titolo di una sezione), in tutto questo non c’è niente di occasionale né di epifanico (per quanto Nadia usi questo termine), cioè niente nel senso di una rivelazione che proviene dal fuori, da un ente, quindi niente di religioso (in senso lato), è semmai una continua scoperta laica di qualcosa che viene custodito dentro, di cui ci si accorge nel momento in cui viene esplicitato dal lavoro di scrittura, a cui anzi la scrittura dà forma, qualcosa con cui si avvia una conciliazione; oppure, se riguarda un evento doloroso, una elaborazione anche nella direzione di una difesa psichica. Anche il reale, l’oggettuale, le cose, il “fatto” subiscono un processo di questo tipo, nel giro di un testo vengono portati ad un diverso superiore livello, da semplici spunti di riflessione a metafore, molto spesso a simboli (nel senso originario di legame e/o segno di riconoscimento) o metasimboli (con trasferimento cioè dal significato originale ad un altro). Può accadere così (tanto per fare un esempio tra molti) che un’immagine votiva, di quelle che stanno agli angoli delle strade, venga per così dire “spodestata” (nell’immagine/poesia) dalle onnipresenti telecamere, un “dio” con cui non puoi parlare, che ti guarda soltanto e non sappiamo se con benevole intenzioni, quindi un ente astratto e freddo, da cui tuttavia ti senti chiamato a fare un esame di coscienza, perché “non bastano le buone pratiche” per essere a posto. E’ anche, se vogliamo, un  confronto storico, quasi surmoderno, tra un luogo (da cui in fondo si proviene) e il non luogo di una incerta e  ipotetica “sicurezza”. E però a quale occhio rivolgersi? Il dilemma è breve: se è vero che “c’è ancora tanto da dire”, se c’è da “ricordare le cose perdute / chiedere perdono”, allora bisogna tornare a quell’icona, a qualcosa che – le parole sono importanti – è “incastrato” in noi così come quelle icone – dice la poetessa –  sono “incastrate nei muri delle strade”. Nello stesso modo Nadia si pone in altre zone di passaggio, di tipo concettuale, che marcano cioè il fluire del pensiero, del lavoro mentale che incarna la poesia scritta, di un andamento anche sinuoso, all’interno dello stesso testo, tra concreto e astratto (un esempio: Non hanno fretta le stagioni, v. più sotto) o tra astratto e simbolico, tra vicino (dello sguardo, della psiche) e lontano, in un processo che in fondo mira, più o meno coscientemente, allo “sconfinamento” (altro titolo di sezione), cioè al superamento a cui tende sempre la poesia, quello di un legame troppo stretto, troppo limitante, poco evocativo e polisemico tra parole e cose. Se vogliamo – in una poesia che nella sua parte più suggestiva è insieme crepuscolare, lirica, simbolistaNadia svolge canonicamente un lavoro di condensazione, di spostamento evocativo, di rappresentazione plastica, di elaborazione di immagini, dolori, desideri non dissimile da quello del sogno. Là dove “appesi ai sogni i versi mai scritti / preziosi fantasmi folgorano la notte”. (g. cerrai)

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(*) “Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà” (Discorso per il Nobel 1975)

alla signora CB

Ho deciso / oggi mi sfratto da sola
scarico la zavorra dalla mia mongolfiera
e prendo il volo               indocile
lascio il branco                m’inarco
la sento la brezza leggera del vento

taglio i fili del bucato
mi sporgo dal terrazzo     barcollo
la testa pesa più del corpo
mi capovolgo
e finalmente cado

senza più radici                 affondo
oggi non è giorno di lutto
nell’assenza del confine
divergenti sintonie
ossessione d’impotenza / è il paradosso

***

Scalza vago di notte
nessun conforto
nessuna luce dentro
Troppe stanze in questa casa
scarpiere dietro le porte
ninnoli e scacciafantasmi
Sonnambula tormento lo spazio
ardo assetata
Lo sfioro con un bacio
e lui non mi saluta
– O mio capitano! –
Annego tra le buie onde
scivolo nella palude
affondo nei fondali del sogno
e mio malgrado risorgo
Lo sento / il battito del cuore
mentre m’afferro alla prua del vascello
                                                        e riaffioro

***

Cresciuti insieme
avvinghiati
nelle loro identità diverse
Il pino e la panchina
chi erano nella vita precedente?
Mistero
Il silenzio una mancanza
o una profezia manifesta
Testimoni le rondini immobili
sopra i fili         aguzzi i profili
Niente è più come sembra

Un cappello, sì un cappello
la culla di un gabbiano morto
sull’asfalto

***

Non hanno fretta le stagioni
e scavano le guance
le croste nella bocca intrisa di sangue
sono radice          smagliatura già postuma

lo spazio ristretto d’un letto
s’attarda sulla soglia
alza barriere        nega possibilità
rimane la traccia d’uno sputo sul muro
pressione dell’attesa

un duello tra una carezza e una ferita
un assalto di rabbia dalla bocca scomposta
la pelle bianca delle ginocchia
la garza che spreme l’acqua sulle labbra
Strappato dalla gola l’urlo costipato

Con un dito spargo sulle labbra del miele per te
un cambio di prospettiva
un poco di conforto
un ritorno
vuoto        nulla        silenzio
fine di ogni possibile attaccamento
nominare l’intorno / senza più conflitto

Non teme la morte l’armonia
affronta l’Equilibrio degli opposti/
nel paradosso / la Complessità del mondo

***

Sono scomparse le icone incastrate
nei muri delle strade
punto d’incontro dello sperduto viandante

solo telecamere                               a guardia delle strade
a riflettere insidie / per una realtà difficile
oggi non bastano le buone pratiche

c’è ancora tanto da dire                 alle madonnine sulle strade
dove forse è giusto fermarsi per guardare indietro
ricordare le cose perdute / chiedere perdono

***

Il meccanismo del rovesciamento
un nodo mai sciolto, tramandato
nel liquido amniotico / prosciugato
Non giova esporsi troppo
è un eccesso di tutela
prendersi la colpa
Occorre la giusta distanza
sconfiggere la rabbia
fare spazio non è un pretesto
ma un incontro con l’altro
È una traccia      una sfida
la conquista della cometa
un altro dire il silenzio
acrobata del pensiero il nesso
frutto di un errore o di un inganno
la conquista del        nuovo mondo
un trifoglio schiacciato tra le pagine di un quaderno
l’estrema visione / salva con nome

***

LA MER

Accoglie l’onda. Rimane in ascolto
profondo / di quel corpo
che galleggia come uno straccio,
un tronco, un residuo di naviglio.

Senza nebbia o tempesta
l’ira di Nettuno avanza
perché la tesi è falsa:
il principio di non contraddizione
è l’assioma,
la vita di un uomo
la scelta giusta.

Capitano, uomo in mare!
La paura del confine,
la prua che non vede
e si allontana
nel pianto delle sirene

***

Rigenera un cuore troppo stanco
il mito dell’unicorno
un vincolo più lasco
il giusto verso d’un quadro appeso
il punto d’equilibrio
l’attrazione al terreno.

Invertire l’equazione
accelerare i poteri di guarigione
minaccia la situazione di partenza
questa vita rivoltata ch’esalta
il segno dei tempi: sconfinamenti

Nadia Chiaverini vive e lavora a Pisa. Ha pubblicato varie raccolte di poesie: L’età di mezzo, 2004; Dal profumo al fiore, 2005; L’altra metà del cielo, 2008; Smarrimenti, 2011; I segreti dell’Universo, 2014; Poesia stregatta, Carmignani 2015. Suoi versi con interventi critici sono pubblicati ne I Quaderni dell’Ussero, 2013. Sue liriche sono presenti in blog letterari, riviste  e antologie riguardanti tematiche sociali. È presente in antologie che affrontano la questione femminile. Partecipa attivamente a circoli letterari, letture ed incontri di poesia.

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2 Commenti

  1. Ringrazio Giacomo Cerrai per l’ospitalità su Imperfetta Ellisse di ‘notturni e ombre ‘ , un libro in cui il mio percorso poetico si estende nella ricerca di senso, e l’ombra diventa una parte del percorso, una riconciliazione con le parti più nascoste di noi

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