Silvia Patrizio – Smentire il bianco

Silvia Patrizio – Smentire il biancoArcipelago Itaca, 2023

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Un’opera di esordio, mi pare di capire, ma frutto – ci dice Davide Ferrari nella postfazione – di tre lustri di lavoro. Mi sembrano, in breve, due vite, e forse lo sono, dovremmo domandarlo alla diretta interessata. In ogni caso qualche traccia del tempo, di un tempo che ha agito sulla natura del libro, di un prima e di un dopo, nel libro si trova. Almeno nella sua struttura, perché invece la scrittura non sembra dare segni di flessione tra la prima e l’ultima pagina. Voglio dire, se l’autore ha lavorato nel tempo, è stato un lavoro teso, mi pare, soprattutto alla realizzazione di una lingua chiarificata e unitaria nei modi (stile) e binaria negli intenti, anche all’interno dei singoli testi. Nella maggioranza dei quali, specie nella prima parte (la sezione titolata Una stanza bianca, dopo il treno), l’andamento è diegetico, una linea caratteristica (e comune a tantissima altra poesia) e direzionale, che va da una certa adesione ad un reale oggettuale, ma non per forza correlativo, verso una dimensione per così dire speculativa, pensosa. Il procedere dagli oggetti, dal tangibile, dalle “cose” mi pare dare il senso di un hic manebibus resistenziale sì ma non a lungo sostenibile. Non ottimamente almeno, poiché – ed è anche una scelta stilistica – poi per l’autore si fa necessario gettare uno sguardo su un altrove che talvolta non supera la stanza (sia pure come simbolo di chiusura), talvolta trova un’eco in una assenza o in un paesaggio, tal’altra l’immaginazione accosta l’oggettivo e l’ideale in una sorta di interscambio (“appartenevi all’indulgenza delle foglie”), e così via, come quando la messa a fuoco dell’occhio si allenta inseguendo con la mente un pensiero all’orizzonte. Ferrari ci conferma che l’autrice “sembra voler rimanere ancorata alla realtà”, che il suo habitat è quello di “una quotidianità privata” che si riverbera in “componimenti…permeati di immobilità”, per quanto assolti da una loro “dimensione del tempo: come se tutto accadesse qui e ora in una frantumazione di immagini”, dal loro essere “in grado di investire anche la nostra quotidianità”. Siamo quindi nell’ambito di ciò che con il mio solito mugugno ho annotato troppo spesso in passato, uno spazio ego-centrato e mediamente lirico, ma anche legato a un immanente presente, appunto privato, appunto “immobile”, in sostanza una comfort zone poetica da cui osservare il mondo con il proprio moderato disagio (anche però autocritico: “la guerra degli altri / lo strappo che non ci compete / non può succedere a me / assaggia tu la pasta sennò scuoce”).

Naturalmente, come per qualsiasi racconto, o tema in vario modo già “noto” (“già visto”), spesso (ma non sempre) è la scrittura a fare una certa differenza, sia come stile sia come capacità di riscrivere / descrivere quel mondo, affettivo, sentimentale, doloroso, inquieto, cioè di trascendere in varia misura quel privato e quotidiano, farne “un tango inappagato che ritorna”. Patrizio ci riesce spesso (trascrivo qui alcuni dei testi migliori), specie quando riesce a dare ai suoi testi sintesi, una certa puntuta acutezza, cambio di orizzonti, di sguardi e di piani, e insieme quel giusto grado di “oscurità” che, come lettore, se non c’è non ti diverti. Del resto il poeta sa che “eppure ha senso adeguare un campionario / di pensieri declinandoli al già visto” (v. per questi due concetti La persistenza della memoria 1 e 2). Ci sono certo anche poesie che appaiono talmente frammenti di frammenti da risultare quasi scarti di una lavorazione dichiaratamente lunga. Tuttavia a questo punto entra in campo un cambio di prospettiva importante, che riguarda la mia allusione iniziale. Se questa raccolta non è due vite è di certo due libri, o avrebbe potuto esserlo, perché è sostanzialmente divisa in due, per forma, per contenuti forse, per voce e tonalità. Ed è nella seconda sezione, Col digiuno negli occhi, che Silvia dà decisamente il meglio di sé, anche se mi limitassi ad una considerazione epidermica: quanto la prima mi ha suscitato qualche perplessità, tanto la seconda mi è piaciuta; quanto la prima parte mi è parsa ridotta a quel quotidiano privato e diciamo pensif, tanto la seconda l’ho trovata nutrita di un suo epos, un ingrediente forse non sufficiente ma necessario a dare ai testi una dimensione più universale; quanto la prima necessariamente frammentaria e scheggiata come uno specchio dell’oggi, tanto la seconda formalmente coerente nella sua narrazione e foriera di suggestioni extratestuali.

Vediamo alcune ragioni. La sezione appare di primo acchito come una raccolta di dramatis personae, una sorta di reinterpretazione sublimazione di soggetti donna come Maria Maddalena, Cassandra, Ipazia, Medea (al centro di un poemetto), Penelope, Ophelia, e già questo è di per sé interessante. I testi sono più ampi, di maggior respiro, permettono maggiormente di dispiegare le qualità compositive e stilistiche di Patrizio, soprattutto in essi sembra realizzarsi una sorta di drammaturgia: il personaggio si esprime, intona spesso un monologo, veicola nei versi i suoi concetti verso un pubblico che si immagina oltre la pagina, tanto che è facile intravedere in questi componimenti qualcosa di rappresentabile, specie nel “poemetto in voci” in cui Medea e Giasone interloquiscono, tra loro e insieme a personificazioni di elementi astratti come il tempo, il dubbio, la passione (inutile dire quanto questo approccio-forma possa o potrebbe essere fecondo poeticamente, esempi non mancano). Patrizio non parla di loro, parla di sé. O almeno parla di loro per quel poco che è necessario (indizi, frammenti di mito, brevissime connotazioni), attua una specie di sovrapposizione esistenziale, ripropone dilatato il canto della prima sezione ma come da dietro una quinta. Ritengo inesatto, qui, quanto afferma Ferrari, ovvero che “i personaggi sono pure voci senza materia”, proprio per via di quella sovrapposizione. C’è o si intravede una differenza importante che è anche tra le parti del libro. Si tratta, in sintesi, di quella tra io parlante e io interpretante, ovvero la differenza che passa tra lirismo seppur rinnovato e identità che non abdica a sé ma si fa voce, appunto interpreta sé e per sé, o se vogliamo passa da un territorio (privato, domestico) ad un altro, pur non dimenticando da dove proviene. Questa “deterritorializzazione” (termine però improprio) mi pare avvenga perché queste figure femminili alla fine sono per Patrizio anche concetti di sé e di donna, sono o potrebbero essere (azzardo un po’) “personaggi estetici” di deleuziana memoria. Il che non sarebbe male davvero.

Alla fine Col digiuno negli occhi può essere accolto come un afflato di purificazione di un corpo mentale, un corpo che va “riscritto”, così come Smentire il bianco nel suo complesso è in effetti un tentativo di attraversare un vuoto (che vuoto non è, se poi lo si abita e lo si scrive), ma anche, come tutti i poeti, di regolare l’entropia del vivere, di confutare la menzogna del silenzio. (g. cerrai)

 

P.S. per chiudere: Sono felice che Patrizio abbia citato, tra altri come Mannocchi, anche Paola Turroni e Laura Liberale, due poete che apprezzo (v. QUI e QUI) e le cui affinità e differenze con la nostra autrice, soprattutto in ordine ad un uso etico-politico della parola, sarebbero interessanti da comparare (ma non è questa la sede).

 

da UNA STANZA BIANCA, DOPO IL TRENO

La persistenza della memoria, 1

– riordinare il ripiano dei reperti
– esigere fedeltà dalle parole
– avvertirsi di passaggio
coi vestiti nelle valigie di mesi
– interrogare i sintomi del buio
– pensare di chiamarla la “non più mano”
per la definitiva cessazione funzionale
– predire le soglie ancora da varcare
– fermarsi al lato destro di un inganno

La persistenza della memoria, 2

– la tazza sbeccata che sporge dalla mensola
– l’assedio di pentole di rame
nel salotto di mia nonna
– la competenza del gallo
che in ogni alba ripristina il tempo
– il camino dove bruciano i fogli
con le notizie di ieri
– quei cordiali dirsi addio
di una stazione di paese
– la faccia di pietra della vecchia
che l’oceano divide da un figlio

 

***

tra le righe e le piastrelle
dove annidano stupidi incidenti
che deviano la linea narrativa:

la diagonale di uno sguardo
la virgola,
scavata sull’inciso

 

***

Donare dieci figli al mondo
ma il mondo – non lo sapevi? – li restituisce
consumandoli a testa in giù nel pozzetto
(forse è stato più chiaro
quando si è spento l’ultimo fratello
e con lui la campagna
ginestre e sambuco).
Il mondo li restituisce
perché è questa la regola dei corpi,
li restituisce,
oppure li dimezza.

 

da COL DIGIUNO NEGLI OCCHI

Penelope

(ore 6.04)

Cosa faresti nel mio spazio
se il tempo non cambiasse i corpi
ma li rimarginasse soltanto cosa
nel conteggio confuso di una notte
assolveresti di me
così inadatta a scintillare?

(ore 11.42)

Misura l’assenza solo un timido elencarti:
è il tuo abbandono a sopravvivermi
come il ghiaccio assoggettato ai rami.

(ore 15.35)

Ho accettato la cura dei boschi
un tintinnio diverso di passi
sul selciato, il diritto di pesare
sulla radura del tuo sguardo.

(ore 18.13)

Volevo esserti approdo
essere il luogo di ogni ritorno
e sulla tela escogitare il mio tragitto:
algoritmo di tenacia di una donna.

(ore 23.51)

Ora lascio alle soste degli uccelli
pezzetti di pane:
ti ho perdonato
in anticipo sul corso degli eventi
perché alla storia mancava
una parte di bellezza.

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