Marina Pizzi – da La clessidra del carcere, inediti

Marina Pizzi - fonte: Interno Poesia, non attribuitaAlcuni testi di Marina Pizzi, tratti dalla raccolta inedita La clessidra del carcere, 2023, una silloge di testi come di consuetudine numerati, in questo caso da 1 a 100. Di Marina mi sono occupato a più riprese nel corso del tempo (v. QUI, e QUI) in diversi scritti a cui rimando e a cui non mi sento di aggiungere niente, almeno in questa occasione, poiché mi pare che, a parte qualche raro accento più lirico, lei sia fondamentalmente fedele a sé stessa, nella materia, come sempre drammaticamente biografica, e nello stile, segnato da una continua lotta con la lingua, che è mimesi di quel costante male di vivere che non trova esito, una soluzione finale che però paradossalmente non può essere perseguita per via linguistica. E tuttavia dal gorgo delle parole, da questa collaudata “maniera” di Marina, emergono testi che, mi si passi l’ossimoro, sono lucidamente oscuri, sono capaci di retribuire l’attenzione che pretendono dal lettore, mostrando spesso una realtà quasi “aumentata”, soprattutto attraverso un notevole gioco di metonimie, accostamenti, similitudini talvolta sorprendenti. (g.c.)

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7.

Spargi di me le ceneri al vento

dio non c’è in nulla e per nessuno

date le moltitudini del tragico.

Nessuna scuola mi rese mai lieta

lo scorpione mi punse alla nascita

la gemella morì senza di me.

Le borgate trascinano orti

per le spese povere e vere

oltre le scale di condominio.

Grazie al barocco delle bellezze

la morgue attende di vestire i morti

addirittura di cristallo le lacrime.

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36.

Le stelle andate a vuoto

la povertà del cielo

dove inverna la nascita

tradita. Nulla tra le dita

straccione il bavero.

Elemosina la saliva del deserto

folle il motto degli assassini.

Muore la poesia così lapidata

piglio di genesi non essere.

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50.

Per troppo amore svenni in un tritolo

di baci. La luna palese m’indicò la fretta

di scavalcare il filo spinato.

Poi avvenne chissà la logica

di lasciare questo triturato stadio

prossimo scemare. Nulla avvenne di avvincente

trama. Il fosso tramandò le ceneri

del lutto ripetente teschio lo sguardo

di schivare le serpentine di cemento.

Maleolente il telamone di crepare.

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59.

Solo l’enigma perpetua la brace

pessima aurora un altro giorno ancora

rada la ciocca di capelli persi.

Sì si vada tra la perduta gente

verità del sisma cuore di vulcano

il cane abbandonato tra le stoppie.

Salvo chissà da bancarotta il talamo

folli gli sposi singole vedette

encomio lo zelo di volerli amanti.

Coma finì l’agonia d’indice,

si dice in giro che fu erta panica

così nel tatuaggio della sfinge.

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67.

Ostaggio in gita di libertà

pare stantio il cruccio d’io

oggi senza panico resistere.

Pacco natalizio la chimera saffica

dove la poesia consola chi è solo

parente d’inedia prosperare scalzo.

Nulla si salva nel valico lirico

né la giostra d’ultimo alamaro

né la strada onnivora di scarti.

Le ossa accatastate in oasi e risate

prolungano il nulla della filastrocca

la lunga faida di dadi compromessi.

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70.

È sparito il mio tempo

tanica del caso

verbo orfanello

logica di panico.

Per il rotto della cuffia

nacqui gemella

lastrico comunque.

Muta la lucciola

stracciona la mandria

votata al macello.

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72.

Fu cortese il viso del tuo sguardo

quando venuto accanto al nostro collasso

si prestò il vocabolo amore.

Lentamente smuore la civiltà del simbolo

dove si arresta per sempre la prova del seme

e la viltà terriccia scialba si decompone.

La pace che non venne maturò bestemmia

il cilicio antico stretto stretto.

Ti cercai invano ad ogni angolo

cadde l’aureola che ci rese amanti

smacco del vento non più tornare

la linea ottusa della viandanza.

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79.

Devo aver smarrito il sillabario

e il pallottoliere. Perso il bacio

che fu. L’anima nera veste le tempie

di polvere pie. Senza scritta la lapide

nuda d’inutile. Baro l’artefice del fuoco

consumante del perpetuo tuo tempio.

Le spalle sommano l’arresto

del criterio idiota. Fatale la resina

del sì d’amore. Fasullo brevetto

la veglia funebre breve viandanza

stare museo del reo. Lontano addio

sperdere lo stonìo della bestemmia.

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86.

Il giubileo del senso non porterà

niente di buono. L’oltre sarà solo

fermo battito. Quale nullità poter

sopportare l’arcobaleno nero.

Ora me ne vado a piangere

dove non resta che piangere.

Rida pure il diavolo mentale

quale una volta fu tratto d’amore

la resina silvana di papaveri ritmici.

Nella casa che eredita le sfingi

giaci anche tu oh stigma giovane

antico cielo quando vederti guardarti

immacolato fasto d’antico tempo fulmine.

È vendetta il resto della vita

la disputa del miserando taglio lo sbaglio.

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99.

Mi viene incontro il mulinello

del suicidio. L’ora monca asfittica

cantica, tirannica la bestemmia

sulle labbra. Di cenere vederti con

un’altra donna, braccia di baci voi

che scorrete lontani dal ricordo

sola la china che si assesta

tramortita. Lungo i binari i papaveri

storpi, l’altare panico di origliare

il cielo.

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