Elena Zuccaccia – Sotto i denti

Elena Zuccaccia - Sotto i denti - Pietre Vive, 2023Elena Zuccaccia – Sotto i denti Pietre Vive, 2023, con illustrazioni di Pierpaolo Miccolis

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Nistagmo cinetico, mi è venuto da pensare leggendo i primi testi di questo libro. Che è, come si sa, la naturale oscillazione degli occhi di chi osserva un paesaggio dal finestrino del treno, nel tentativo di inviare al cervello un’immagine coerente. Qui, in queste poesie, il movimento dello sguardo (anche mentale) non è tanto orizzontale quanto, direi, esercitato su un piano sagittale, che attraversa, indagando. Sono quelle strane associazioni che solo la poesia, nella sua peculiarità, riesce a suscitare: non hanno un gran valore critico e non è detto che siano esatte, ma tant’è.

Libro interessante, di buona ed immediata scrittura, che prende il titolo da un sintagma ricorrente, “sotto i denti”, qualcosa di prensile, in un certo senso di avido o – per dirla con Geninasca – di “molare”, ovvero relativo a un codice comune, condiviso, di sapere diffuso, consumabile, (“dai struttura umana ai giorni / li fai carne su cui affondare / parola per parola i denti”, c’est à dire com-prensione, smembramento, ricomposizione per via di linguaggio). E che si sviluppa in tre sezioni (nel quadro, nel buco, sotto i denti, con relativi sottotitoli, vedi oltre) in cui l’autrice sostanzialmente organizza uno spazio, che non è solo poetico ma anche dimensionale, oggettivo, uno spazio tra sé e la realtà circostante, per quanto possa apparire minimale/metafisica; uno spazio tra sé e l’altro (compresa la relazione affettiva) per quanto possa essere, appunto, un “buco”; uno spazio della assenza, della mancanza, del desiderio di ritorno, dell’ipotesi, del cercarsi “in quest’altra / linea del tempo / dove la vita si confessa”, per quanto possa essere una nostalgia immedicabile.

A tutta prima sembrerebbe trattarsi anche qui della continuazione della lirica con altri mezzi, cioè dell’applicazione di un linguaggio attualizzato ed efficiente ad un areale esistenziale, biografico, insomma ad una “ispirazione” personale, comune alla grandissima maggioranza della poesia italiana attuale. Tuttavia quello che conta, alla fine, è come lo si fa, come – tanto per fare un esempio banale – si possa continuare a scrivere efficacemente d’amore dopo cinquemila anni. In fondo, si tratta sempre di entrare in un mondo, proprio quello, particolare, a cui chi scrive ci permette di accedere per comunicarci qualcosa a suo modo, fosse anche qualcosa che abbiamo già sperimentato. Ma nel caso nostro è interessante soprattutto la collocazione dell’autrice come “persona” nel corpo del testo (e qui in una certa misura rientra il mio accenno allo sguardo). Voglio dire, in poche parole, che la presenza del soggetto poetante (o “io”) è lirica solo fino a un certo punto, poiché proiettata in una speculazione in cui sguardo, corpo (anche come misura del reale), mente (anche sognante) sono complici (e un soggetto deve pur esserci) nella persecuzione/prosecuzione dell’idea, o meglio ancora del concetto, nel tentativo di sfibrarlo e possederlo. C’è un divenire in questo, una dinamica che non è solo dello sguardo, che dove non arriva mette in gioco la metafora, che come sappiamo è sguardo traslato (un esempio è il quadro che appare specie nella prima sezione – forse esiste davvero, forse è uno solo, forse diversi, e tutti mi ricordano Hopper – un quadro che “e non so se mi piace o no”, in cui si entra ed esce non solo con gli occhi ma quasi fisicamente, quadro “preciso agli angoli sempre confuso nel totale” perché “un’attenzione circoscritta / a dettagli di bizzarra rilevanza / mi nascondeva il totale”: un attraversamento frammentario, concettuale e inquieto, in cui però “tutti i corpi in cui cerco / di entrare / sono sempre me”, e quindi non c’è via di fuga, anche a “chiederci se dal corpo possiamo / prescindere, o ingannarlo”); ma anche, appunto, una dinamica della mente (“la mia mente non rispetta […] / la verticalità delle cose / io sono orizzontale” anche se, più avanti “ma preferirei essere verticale”; come pure “la mia / mente non rispetta lo / scorrere del tempo”). Si capisce forse perché ho usato l’immagine del nistagmo, questa inquieta forse contraddittoria focalizzazione (vedi es. qui sotto è il nome di tutti di) che però, a pensarci bene, è tutt’altro che inusuale, perché la poesia odierna risente un po’ della impossibilità di comprendere la complessità, o magari solo di digerire un certo sovraccarico cognitivo anche quando è riferibile al pensiero di sé, alla comprensione del proprio universo per quanto “domestico” esso possa essere. Insomma, poesia come eroico tentativo di sovrastare il “rumore”, nel senso psicologico del termine, che è fatto anche d’angoscia, della presenza, dietro le quinte, della morte (“la morte è un problema / dei vivi / tu arrivi in sogno e mi dici / col cazzo”, sono i versi che sigillano il libro).

Anche l’amore, o il rapporto affettivo, specie nella seconda sezione (meno incisiva, seppure scritta molto bene), è sottoposto a uno sguardo speculativo, come un epifenomeno interessante ma non emotivo (v. più avanti se la smettiamo di essere), o un interessante oggetto del linguaggio. Il linguaggio, va detto per inciso, qui fa la sua parte analitica, in un certo senso si “disamora”, per citare l’autrice, depotenzia l’aura lirico/malinconica, smaga una certa aspettativa sentimentale da “poetessa”. Anche l’ironico glossario messo in fondo al libro suffraga quest’idea (“affetto, /af·fèt·to/ s. m. inclinazione sentimentale istintiva verso persone, animali o cose | agg. attaccato, colpito | v. affettare ≈ desiderare ≈ tagliare a fettine”).

Naturalmente non è tutto qui, poi il libro offre altri appigli, prende altre strade e si ha la (falsa) impressione che non ci sia una vera unità di intenti. Ma invece l’idea è chiara, è che cambia il panorama, il paesaggio, ma il soggetto/autore è sempre lo stesso, un io che è tenuto a fare l’io, cioè il testimone autoriale, ma che forse preferirebbe fare il personaggio, l’alter, vivere una vita parallela (“mi piacerebbe essere / una bestia rara”, “dovrei forse farmi / acqua roccia il vero sentire”, cambiare nome, e così via). Una che, un po’ defilata, guarda la sua propria poesia come un quadro, ne entra, ne esce, pensa “al buco che c’è dietro / il muro com’era prima / del buco, e del quadro”. (g. cerrai)

 

da nel quadro (tentativo di guardare nel
— o: dell’evidenza dei vivi)

ho sognato che avevo cento cavalli neri sotto il culo:
io sono un gigante e i cento cavalli coprono la superficie
esatta delle mie chiappe. io comoda e i cento cavalli mi tra-
sportano, ho la certezza che qualcuno di loro sappia dove
andare. mi faccio piccola per dormire e scelgo la schiena
di un solo cavallo, li provo tutti e mi accuccio proprio su
quello. gli altri continuano il passo. questa è la vita mia e
dei cavalli, ma si capisce che la loro è solo ancillare alla mia.
la vita unica che il sogno muove

mi torna in mente il sogno quando rientro nel quadro e
guardo il soffitto
mi scorgo nel buco d’alluminio della lampada penzo-
lante dall’alto
mi sorrido tra qualche giorno ho trent’anni

nel quadro a fianco vivono un uomo e una donna, dalla
loro stanza si vede la basilica
lui suona mentre lei grida
Mi vuoi capire?
smette di suonare
Cos’hai detto?
riprende a suonare
Se non mi vuoi capire faccio la valigia e ai porci tutto
What? What did you say?
sbatte la finestra che fa da muro al suono
— e il quadro è muto

***

lo vedi il cono che contiene tutto quello che ci accade non
accadendoci
e pure ci accade perché incide proprio su di noi che non
siamo lì dove la cosa accade
atomi d’aria eccitati che cadono in stati di minore energia
fluttuiamo succhiati come plancton nella bocca di una
balena

nel cono rovesciato come l’inferno
blu scuro elettrico il colore di un lampo ogni tanto
la ragazza del quadro a fianco spazza e canta
io la guardo e questa presunzione mi assale
di pensare
che in quel momento nessun sistema cada dall’eccitazione,
che non succeda niente in quel momento, nient’altro nel cono
che non sia quel suo cantare e spazzare e il mio guardare

lo sai i sinonimi non esistono
dimenticare allontana dalla mente
scordare allontana dal cuore
il problema è andare avanti
dimenticare senza scordare
documentificare
con la lingua, che vale più del sangue

se questa fosse carta stampata la mangerei
mi finirebbe sotto i denti oltre la lingua dove non si scor-
dano le cose

 

da nel buco (spionaggio dalla serratura
— o: entrambi i sensi del sublime)

se la smettiamo di essere
un’ipotesi

ci avveriamo
— e poi?

ecco una casa un terrazzo
un bambi no

torniamo all’ipotesi
e se 
è lì che viviamo
non si paga l’affitto
si paga solo
quel che non avremo

***

è il nome di tutti di
tutte le cose da quando non
serve per chiamare te

ha il tuo nome la strada
la valigia il bicchiere
la tazza da tè la pasta che
mangio l’acqua che cade
dalle labbra mentre bevo
il rivolo sul collo, il collo
il seno il dito che lo asciuga
gli occhi che guardano il
dito gli occhi che guardano il
quadro, il quadro la gente nel
quadro la gente per strada,
la strada la valigia il bicchiere

***

un pasto nudo 
il mio dono per il primo
incontro e già mi si vedeva stesa
aperta a farmi pietanza
e tu che mi incitavi
let love in 

da te all’eternità
dal sublime al ridicolo

il mio funerale, il tuo processo
ciò che fortificava (te) per (me) era
mortale
(ho) scambiato il congedo di un’epoca
per l’inizio di una nuova

***

in piano sequenza l’ultima
scena
la ricostruzione delle mura
domestiche
un teatrino
(tu bevi io cado)
(tu dormi io cado)

cosa posso offrire oltre me stessa
niente di questo corpo animale
di tua fantasia è bastato niente
nemmeno delle parole
mi stendo in un canto senza suono
il silenzio assoluto della sirena
mentre fingi di sentire il canto
l’eco nel vuoto ripete solo te
stesso

tu salvo e io tornata mostruosa
non ho più desiderio di sedurre non
ho più desiderio

qualche ultima smania
d’affetto senza parole
prima dello stacco

 

da sotto i denti (dove si riesce a sentire
— o: morire | è possibile a tutti più che nascere)

a mai anni fare la pace col tuo corpo
malato
chiamare abitudine la resa
la tregua
accorgersi che non basta più
quel gioco in cui pensavo
se oggi hai le scarpe blu mi pensi 
se ti tocchi un orecchio mi porti al lago 
chiederci se dal corpo possiamo
prescindere, o ingannarlo
vuoi vedere quanto la mia mente
è forte? vuoi vedere quanto
se ti penso forte tu guarisci 

inventare un’altra volta
un nuovo vocabolario
un nuovo pensiero magico
chiedersi cosa vuol dire nuovo 
la nuova cura la nuova fiducia
il nuovo dolore di cui conosco
l’anticamera la sala d’aspetto
la vita mi pare la sala d’aspetto

***

di questa tua morte di cui
spremo l’inchiostro

il corpo che lasci
ala destra ala sinistra
dove hai le piume

la morte oggi è una vecchia bic
con cui scrivo cento volte
il tuo nome
senza scordarne il significato

firmo accetto
di riconsegnarmi alla vita
con le mani legate

il tuo nome
il mio il nostro
l’inchiostro le piume

 

Elena Zuccaccia (Perugia, 1988) gestisce la casa editrice pièdimosca edizioni e lo studio editoriale settepiani, con cui fa parte del progetto POPUP, spazio culturale a Perugia con li-breria indipendente e caffè. Trascura il blog comebavadilumaca.wordpress.com. Sotto i denti è la sua seconda raccolta. La prima, Ordine e mutilazione, è uscita per Pietre Vive Editore nel 2016.

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