Giuseppe Carracchia – Stanze della luce

Giuseppe Carracchia - Stanze della luce - Moretti e Vitali, 2022Giuseppe Carracchia – Stanze della luce Moretti e Vitali, 2022

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Riprendo in mano con molto ritardo (ma meglio tardi che mai) il libro che mi ha inviato mesi fa Giuseppe Carracchia, ritardo forse dovuto al fatto che ci sono libri che leggi, libri che sai che dovrai rileggere, libri che – come diceva un mio vecchio insegnante – devi “compulsare”. Sono tutti diversi, chiedono un diverso accostamento, un diverso tempo.

Da questo ultimo traggo alcuni testi che ritengo tra i più significativi, da questo “libro pulsante e erratico” (il generoso Giancarlo Pontiggia, nel risvolto di copertina), nel quale le “stanze” del titolo, quanto mai azzeccato, hanno un duplice significato di base, quello tecnico-poetico, elemento costitutivo quindi di un più ampio componimento, e quello di luoghi dinamici, fisici e spirituali, nei quali si compiono storie e si realizza un passaggio da ombre a luci, anch’esso inteso in via metaforica come transizione verso, diciamo, una “comprensione”, in ciò che appare essere, come nota Fabio Pusterla nella prefazione, un viaggio esistenziale, “ma soprattutto viaggio dentro la parola e le sue molte possibili modulazioni”. In questa stanze, infatti, l’autore procede organicamente in quello che in termini fotografici potremmo definire uno “sviluppo”, una estrazione di senso che il poeta, qualsiasi poeta, tenta diuturnamente, non solo tra oscurità e chiarità, ma anche tra passato (memoria, errori, rimpianti ecc.) e avvenire, come speranza e risarcimento. Le sezioni di questa raccolta vanno in effetti da una Camera oscura a Estate, passando per il grado maggiore di Curando le palpebre e sottosezioni dai titoli come Mediterraneo, Una chiarezza leggera, Stanze della luce, Il sapere, Il fuoco e altre, a conferma di una precisa idea di palinsesto, almeno nel senso di organizzazione di un’idea certamente accarezzata e rivista a lungo, almeno dal 2015 al 2021. In questo gioco tra prima e dopo, tra i testi “meno luminosi” (secondo lo stesso Carracchia) e quelli che certo trasmettono una sorta di gioia, ritrovata non del tutto fortuitamente perché “essere felici è giusto, e nient’altro”, la scrittura fa la sua parte, per toni, colori, selezione e combinazione, un linguaggio mai indulgente né reticente, anche su temi più “privati” come l’amore, una delle “parole impegnative” (Pusterla) che il poeta non teme.

Ma, in effetti, di che parla questo libro? Questo transito, che rileva anche il prefatore, tra una zona umbratile e un orizzonte aperto, non è certo metafisico, o non solo metaforico. Nella interessante nota di chiusura al libro, a metà strada tra dichiarazione di poetica e guida per il lettore, Carracchia ci offre qualche indicazione utile: certo si parla di vita vissuta, innanzitutto, o di varie vicissitudini, a partire da quella “inoccupazione” (proprio in senso lavorativo) che dà nome a una delle sottosezioni di Camera oscura e che è luogo “di un niente che imbestialisce, schiaccia e sbiadisce”. Ma l’autore ci tiene a dire, e mi pare abbia letto bene sé stesso, che soprattutto questo è “un libro geografico sull’amore” (inteso direi in senso ampio, compreso l’amore per le parole), che “questo libro parla di terremoti e di vie di fuga. Parla di vita, ma in modo indiretto, cioè formale: un manifesto di edilizia sensoriale”, intendendo con questo, credo, la necessità di ricostruire, anche in senso investigativo, una mappa e con questa, rispondendo ai perché, un edificio poetico, “un compendio misurato” che alberghi, dice Carracchia una “idea dignitosa”. La quale, va detto, non nasconde né un understatement né un’autoassoluzione, e tanto meno una sabiana onestà. Diciamo che quel che cerca Carracchia è una sovrapposizione, una stampa a contatto (e si torna alla fotografia), una poesia che non sia troppo altra o altrove o collaterale rispetto al proprio vivere, che sia consustanziale. Una poesia del genere non può che tentare di mettere insieme (e Carracchia lo dice) oggetti e sensi, realtà e epifenomeni, tentare di essere sognante (o speranzosa nell’avvenire) senza essere onirica o simbolista, parlare di un quotidiano problematico senza erranti lamentazioni, e così via. A volte ci riesce, a volte no, non ostante i generosi – ripeto – aggettivi qualificativi (“spavaldo, fermentante, immaginoso”) spesi nel risvolto da Pontiggia riguardo al libro. Che è generoso per meriti tutti suoi, anche nei (pochi) punti dove convince meno, spinto com’è da un’idea di poesia resistente, poco compiaciuta, che lotta per raggiungere una sponda dove poter accendere il suo falò. (g. cerrai)

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da L’inoccupazione

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C’è nella boxe un’idea. Bisogna indossarla,

come si indossa un mestiere, farla propria.

E se non hai un mestiere

dovresti andar nudo

completamente spoliato

e non senza vergogna. Tanto per cominciare:

chi è punito ingiustamente

ingiustamente punisca. Faccia il giusto.

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«Vorremmo solo esser certi

che l’odio non prevalga, che l’incerto

non si faccia strada» poveri figli di

ingrate spente passioni stramaledetti.

Quante idiozie. E solo che non vorremmo

sempre e solo desiderare

come sempre e solo desideriamo

da tempo a questa parte

che i dolori siano inequivocabili. Perfetti.

 

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da Teoria dei nodi

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Risolleva la terra ogni giorno

il più bello dei nomi

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(lo chiameremo fiore

e fiorirà accanto al petrolchimico

o nell’aiuola del bar)

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e tu sentilo quel parto, il vuoto

silenzio del seme e poi ad un tratto

lo scricchiolio che ricama

allo spazio ceduto

radici,

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e alberga

in luoghi

minuscoli

l’odore

di buono

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***

(su quest’ansia sistemo un innesto;

poi verranno le naturali potature

gli abbeveraggi, la vita

con le sue nuove cose.

La purezza di qualche gesto)

 

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da Venendo meno gli occhi

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(Milano, 13 ottobre 2015. Da Giotto a Pompei)

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Saremo giudicati sull’amore,

ci ammonisce Giovanni della Croce,

e su nient’altro.

E che l’amore abbia a che fare

anche con questo è storia del mondo.

Soprattutto con questo

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(piccoli angioletti guardano Iddio

che brucia loro gli occhi

e loro concede le mani, il riparo).

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Necessaria si fa la prestanza,

il corpo esercita i propri limiti

nel silenzio del tuo credo

nella tua regola,

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la sua stretta osservanza,

senz’ombra di metafisica.

Tu di là, io di qua

riparando le palpebre, gli occhi.

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Saremo giudicati sull’amore.

Atletici, all’ombra del vulcano,

un tuffo di testa nel blu;

atletico stupendo uomo pompeiano.

 

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da Perdendo il male

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«No, non è così che l’avrai vinta, no,

Solo perdendo noi vinceremo, sfiancati

l’uno sull’altra

e insieme»

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Non si è più perfetti che nell’errore.

Questo pensavo nell’oceano di tenerezza

nonostante la tenerezza

“finché i nervi reggono lo strappo

o i denti cedendo sfilacciano gengive.

Come capita, come viene. Mordendo la carne.

La carne che capita, la carne che va, che viene”.

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Per non perdere la dignità, per non sopraffare

e vincere nell’unico modo santo della vittoria:

perdendo, perdendo il male.

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Non si è più perfetti che nell’errore, sfiancati

l’uno sull’altra

e insieme.

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***

I fiammiferi che tengo in una mano,

per l’affanno – io che debbo farmi strada –

li spengo, una due tre volte

non è che non imparo, è che non voglio

restare solo nella notte, circondato

da queste facce meravigliose.

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Vieni tu finché puoi a calmarmi.

Proteggiamo a quattro mani

questa sonata notturna, la piccola

insignificante fiaccola

che avevamo tra le dita, e che adesso

porto come un ordigno

o l’ultimo esemplare di una pianta estinta,

all’altezza del petto.

Fa’ con me ch’io possa allontanarla di nuovo

ad accendere il breve tragitto

che dal buio ci spinge fuori,

verso una luce per cui le mani

ad altri gioiosi ripari abbagliati serviranno.

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Ora che siamo oscuri e senza confini

saremo bianchi, come e più di ieri

contornati, ora che ci crediamo stanchi

saremo ancora più giovani, freschi.

Se il vento è troppo, chiudiamo le mani

attenti a non bruciare. Se troppo poco

soffiamo alla testa del cerino morente.

Diamogli aria, spazi.

 

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da Mediterraneo

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La retorica dell’antiretorica ci ha reso sterili.

Discussioni su discussioni di discussioni

in un eccetera di un eccetera di un eccetera

di aperitivi sfiancante.

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Non avete fianchi e nemmeno gambe.

Venirvi incontro è la missione triste

dell’ortopedico che scuote la testa

e sospirando passa il testimone

al chirurgo munito di sega

che esegue una descrizione schietta

confidando nella precisione degli erranti

nell’esattezza dei senza dio,

e annota di ritorno dal turno di notte:

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Alle sei e dieci di stamattina

siamo saliti in auto, l’aria celeste

odorava di bucato e salsedine.

Agli archi della marina

abbiamo riso, stupiti e felici

del turbinio fitto delle rondini.

Riposare è necessario, e altre cose lo sono.

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E noi possiamo.

 

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da Stanze della luce

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Un grande pranzo domenicale

nel giardino ben curato ma non troppo

con l’aria pulita che viene dal mare

e con i colori e con i volti

così umani dei nostri amici

che neanche volendo

uno riuscirebbe ad immaginare

così lieti, così grati,

e grandi portate ma non troppo

con pesce fresco e frutta di stagione

e bambini che giocano

e tu, padrona di casa,

che ti volgi sorridente a me, poggiandomi

sotto lo sguardo di tutti

come fossero realmente attenti

con la maestà che ti concerne

la grande mano con cui sollevi il mondo

sulla spalla, tra i capelli

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