Gabriella Musetti – Un buon uso della vita

Gabriella Musetti - UN BUON USO DELLA VITA - Samuele editore  2021Gabriella Musetti – UN BUON USO DELLA VITA – Samuele editore  2021

La morte è un attimo, ma la brevità di quello che la precede cos’è? È forse la summa o il fallimento, il momento topico o il realizzarsi di un momento apparentemente ininfluente, quasi banale, di un buon uso della vita, si chiede Gabriella Musetti (presente su IE anche  QUI). E quella è la morte improvvisa o naturale, non ricercata, una morte ordinaria se non triviale, comune, forse plebea. Si direbbe che c’è qualcosa della vittima sacrificale nell’accidente, o incidente, in quel che càpita insomma. In quei casi, dice Chiara Zamboni nella prefazione, “la morte crea il monumento dell’insignificanza”, essendo anche, come vedremo una “morte differita”, cioè sempre presente, in corso per così dire, a parte il suo esito irreversibile. Risiede in questo il loro essere sacrificali: essere in balìa, a disposizione del fato. Certo non tutte hanno la fortuna, o il coraggio di sperimentare, di Emily Dickinson, citata in esergo, la quale avvertita che nei boschi avrebbe potuto incontrare un Serpente o degli Spiriti Maligni, trovò invece dei poetici Angeli, una verità, un senso. “Le storie sono all’inizio tutte uguali”, dice Musetti, poi “ognuno trova a caso la sua stanza / chi bene – felice lui o lei – chi / con dolore”. È in questa casualità, e nella brevità dell’accadere che si riverbera sulla brevità  dei testi, che sta l’interesse poetico di questa piccola Spoon River (è la stessa Musetti a citarla in una nota) di vite al femminile. Per altre la morte è una specie di ricostruzione dei fatti, una conclusione logica, una dolorosa scelta, un esito programmato. Che  pertanto in qualche modo sfugge al destino, essendo appunto una scelta, un arbitrio, perfino un atto intellettuale, di “intelligenza”. Stiamo parlando delle figure femminili non anonime né ordinarie, che appaiono nella seconda parte del libro. Anche per loro, per motivi diversi, la morte è rimandata, differita, seppure ad un giorno esatto della vita. Si tratta di nomi noti: Plath, Woolf, Cvetaeva, Rosselli, Bachmann, Gaspara Stampa, Saffo, Alfonsina Storni, la Pozzi. Campionesse del dolore, della malinconia, del disagio esistenziale, della morte corteggiata. I nomi che avrebbero potuto essere qui (e forse ci sono, tra quelli non espressamente citati) sono molti, Pizarnik, Sexton, Ruggeri, Nika Turbina, la Campana, una scia di poetesse che hanno scelto di togliersi la vita, scrivendo fino all’ultimo giorno, di tornare “alla terra, alla terra come tale, al viscere terrestre”, come ci ricorda in esergo Maria Zambrano.

Di questi nomi noti Musetti costruisce una specie di interessante ecfrasi, di elegante descrizione del suicidio con la limpida scrittura che la contraddistingue, e coglie l’occasione, come già ne La manutenzione dei sentimenti (v. link sopra), di una acuta riflessione sulla parabola della vita, sul tempo, sulla fine, sulla condizione femminile. Le “donne che vivono per lo più a caso, irrisolte” (Zamboni), le donne comuni diciamo, sono colte nella prima parte del libro come insetti congelati nell’ambra (“è morta questa mattina è morta / ma non si è accorta di morire”), la morte è un flash, un interruttore girato, una porta, una via di fuga, un “attraversare il varco”, qualcosa di assoluto dice Zamboni certo alludendo al radicale etimo dell’aggettivo. O un semplice accadimento, qualcosa che avrebbe potuto essere differito (appunto), ovvero rimandato ad altro momento senza variazioni sensibili nella storia (“era morta davanti allo specchio / mentre si truccava per uscire”), ma anche un gesto, una protesta, una rivincita estrema (“lei bramava essere risarcita / dalla vita”; “lei (invece) era morta di notte / tra le botte della sera e quelle del mattino”). Ma una scelta è una scelta, una decisione di fronte (spesso) all’immutabile, all’emendabile (dice qui Sylvia Plath: “le donne che non mettono la testa / nel forno / sono tutte matte tutte ad aspettare / che qualcosa cambi”), all’impossibilità di accettare la disperazione (come Musetti fa dire a Cvetaeva) o di trovare comunque una ragione di vita, come nel testo dedicato a Gaspara Stampa. Anche le donne comuni che in qualche modo si spengono, come quelle che decidono di spegnersi, sono testimoni di un “inaddomesticamento”, di una resistenza a tensioni culturali, domestiche, sociali, di genere, qualcosa che in ogni caso si paga, sapendo che  “l’inaddomesticato è non ritorno”. Da lì deriva la pienezza dell’arbitrio, della scelta. Qualcosa di “imperdonabile”, come ricorda l’autrice, citando Cristina Campo.
Un libro che  è molto di più di quello che potrebbe apparire da questa breve recensione. Quasi un saggio in poesia, e basterebbe leggere la bella nota conclusiva  per rendersene conto. In essa intanto Gabriella mette di lato il facile accostamento a Spoon River, rivendicando che “se ne distanzia ponendo sotto osservazione il dato comune del senso profondo di debolezza, mancanza, incompiutezza, insufficienza, sperpero di sé, colpa o viceversa l’idealizzazione astratta e assoluta, come se fossero affezioni biopsichiche connaturate all’esistenza femminea”, e nell’essere “una sorta di biografia collettiva anonima delle donne, specie di quelle senza un nome da ricordare”. E poi (parlo sempre delle finali Note e aggiunte ai testi) rende omaggio ai suoi numi tutelari, alle radici culturali e filosofiche (come appunto Maria Zambrano, Virginia Wollf, Cristina Campo) e alla sua stessa poetica, all’idea e all’ideale che hanno ispirato questa bella raccolta. (g. cerrai)

 

è morta questa mattina è morta
ma non si è accorta di morire
rideva come una bambina
su un prato in primavera
rideva anche di sera (e pure di mattina)
– s’è messa in salvo – qualcuno dice
volata via sopra una rondine
un po’ di soppiatto un po’ per avveduta
consolazione – la scelta unica rimasta
quasi sicura

 

***

 

era morta con la luna storta
era morta sopra un cuscino estraneo
di un vicino fuori della sua casa
come faceva a spiegare
a chi gliel’avesse chiesto
che era uscita in giardino
solo a fumare una sigaretta
scavalcata la finestra s’era trovata
nella casa buia decisa
a seguire il suo destino?

 

***

 

era morta al supermercato tra la folla
da sola aveva attraversato il varco
senza avvertire famiglia o amici
senza permesso senza preparazione
come un balzo della mente
come improvvisa decisione
da attuare in fretta
e non tornare indietro

 

***

 

lei vide cadere un suo occhio
nel piatto e lo raccolse
si disgregava pezzo
a pezzo ma non moriva
semplicemente non sapeva
come uscire dall’impasse
e fu mentre pensò che tutto finì

 

***

 

lei era morta sentendosi braccata
sfuggiva il senso il disincanto
da tutto si ritraeva
guardinga ascoltava voci
di persone sconosciute
un giorno si fermò infiocinata

 

***

 

lei bramava essere risarcita
dalla vita
attendeva questo evento
senza sosta
lievitando invidia
un senso d’impotenza
per quella ferita antica
morì così – senza una risposta

 

***

 

Sylvia Plath

le donne che non mettono la testa
nel forno
sono tutte matte tutte ad aspettare
che qualcosa cambi – cambi l’amore
l’umore perfino il destino
che proprio un mattino si desti
un destriero di luce
che le porti via
lontano da questo mondo ombroso
da questo mondo tondo e spietato
senza empatia

 

***

 

Gaspara Stampa (presunto)

le donne che non bevono di getto
la sostanza amara frugano dentro sé
una ragione
dello stare al mondo
una sospensione – desiderose
di libertà e salute
la salvezza prima
di essere (solo) quelle che sono

 

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