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André Breton – Pesce solubile

https://imperfettaellisse.it/archives/tag/emanuele-piniAndré Breton – Pesce solubile

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Emanuele Pini, già in qualche occasione collaboratore di questo sito, dopo esserci cimentato nella prima traduzione italiana de L’uomo approssimativo di Tristan Tzara (Massari Editore, 2019, v. QUI), cura e dà alle stampe un’altra prima traduzione, questa volta di Pesce solubile di André Breton (Fernandel editore, 2024), che raccoglie trentadue brevi prose scritte esattamente cento anni fa, nel 1924, lo stesso anno della pubblicazione del Manifesto del surrealismo, corredate da un cospicuo apparato di note.

È una buona notizia, perché il surrealismo, al di là del suo valore storico che non si finisce mai di sottolineare, resta una presenza ancora feconda nel panorama artistico europeo (“così come l’inconscio è esistito prima di Freud, l’attività surrealista non corre alcun rischio di aver termine”, Arturo Schwarz, citato dal curatore).

Ma cos’è il Pesce solubile? Come scrive Pini nella sua articolata introduzione è la prima espressione di uno degli strumenti che il surrealismo si inventò o rimise a nuovo, quello della scrittura automatica, uno dei primi, una creazione preceduta forse solo dai celebri Les champs magnétiques (1919), che Breton scrisse a quattro mani con Philippe Soupault (v. QUI). Ed è anche la metafora dell’uomo, artista o lettore che sia, che riesce a superare i suoi limiti, a “sciogliersi” nella fantasia, nel sogno, nell’immaginazione, a essere, dice Breton, “solubile nel suo pensiero”, riesce a scoprire “il funzionamento reale del pensiero”. È quindi, potremmo dire, l’atto dimostrativo di un’idea, di un progetto, di una rivoluzione, di cui il Manifesto del surrealismo, prima di crescere e vivere di vita propria, avrebbe dovuto essere la prefazione, cioè in qualche modo il presupposto e la giustificazione teorica. La scrittura automatica è un mezzo e un pre-testo, è o dovrebbe essere, come scrive Pini, “una scrittura rapida, impulsiva, avulsa dalla coscienza”, che tuttavia viene poi in varia misura esposta ad un lavoro di lima, per quanto non invasivo, come dimostrano le varianti riportate in nota dal curatore. E se essa porta con sé, nel tempo, accuse di illetterarietà o di illeggibilità o anche, come scrisse Ives Bonnefoy, di superficialità, esse vanno respinte perché in questi testi “per chi vuole vederli, ci sono fiori dappertutto”, dice Pini parafrasando Matisse. Ovvero in queste brevi prose “affiora da tante immagini e da tanti accostamenti originali una ricchezza lirica psichedelica devastante”, cosa che, davvero, a tratti mi ricorda il Burroughs del successivo Pasto nudo. Continua a leggere

Tristan Tzara – L’uomo approssimativo

Tristan Tzara – L’uomo approssimativo – a cura di Emanuele Pini, Massari Editore, 2019
Emanuele Pini, a novanta anni dalla prima pubblicazione avvenuta in Francia nel 1931, traduce e cura la prima traduzione italiana di questo importante libro di versi – un poema in diciannove canti – di Tristan Tzara, una delle figure chiave prima del Dadaismo e poi del Surrealismo, con una appassionata introduzione, in questo volume,  di Roberta De Francesco
Scrive Emanuele Pini nella nota introduttiva: “L’Homme approximatif pubblicato nel 1931, dopo un lavoro introspettivo e artistico di 5 anni (1925-1930), non è l’unico, ma di certo è il migliore risultato di questa ricer­ca: ma cos’è questo «Uomo approssimativo»? un prisma frammentato in miriadi di immagini, di illuminazioni, di ferite dal quale emerge la figura dell’uomo contempora­neo, fragile e titanico, sognatore e becero furfante, che vive nella notte, un uomo forse senza Io e senza Dio, ma che piange perennemente dentro sé, per questo Io e per questo Dio, un uomo che è «approssimato» e che al con­tempo si approssima, si avvicina all’immagine di uomo.
Un uomo che sogna un uomo. Il finale è ciò che dà il senso all’inizio, e viceversa: in tal modo tutto prende il via con quel «le campane suonano senza ragione e anche noi», tutto inizia con «penso al calore che intesse la parola/ attorno al suo nocciolo il sogno che si chiama noi», poi tutto termina con questa stoica attesa del deserto del tor­mento, del suo fuoco.
Forse l’aprirsi all’altro è questo deserto che ci dà struggimento e passione, forse l’aprirsi all’altro è questo fuoco che ci offre la vita e la passione, la speranza.
Per Tzara non esiste una storia del tutto al singolare, non esiste un destino solamente individuale, perché gli uomini abitano questa minuscola terra come le stelle punteggiano d’oro la volta notturna. In altri termini io ci sono, io, e tu ci sei, tu, e ci siamo noi che incrociamo le nostri voci, le nostre croci di deserto e fuoco. Fragile e vinto, ma nel suo grido disperato riluce la sua forza indo­mabile: questo è l’Uomo Approssimativo, un uomo tanto moderno, antesignanamente esistenzialista, agitato da fantasie celesti e visioni profetiche alle quali cerca di dar risposta, sballottato in un cosmo straniero; ma l’unico enigma che non può risolvere è il suo volto: questo è l’Uomo Approssimativo, alla perenne ricerca di se stesso come un eroe cantato da Omero e da Sofocle. Un uomo approssimativo «come me come te lettore e come gli altri».

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Philippe Soupault: Le ultime notti di Parigi, le ultime notti del mondo – a cura di Emanuele Pini

 

Philippe Soupault, Paris, 1928 -by Berenice Abbott

LE ULTIME NOTTI DI PARIGI, LE ULTIME NOTTI DEL MONDO

La notte e la città di Parigi: due elementi suggestivi che possiedono una forza quasi magica, per nulla estranea al primo Surrealismo. Si può dunque dire che sia stato un processo naturale per Philippe Soupault stendere nel 1928 questo racconto.

La città di Parigi e la notte: due elementi fascinosi che si incarnano nella figura di Georgette, prostituta e femme fatale del mistero, perché tutte le immagini e le ricerche serrate del protagonista ruotano intorno a questo mistero dal dolce nome, Georgette.

“Un non so che non ha alcun nome in alcuna lingua. […] Georgette è una donna”

La notte e la città di Parigi, e se l’inizio delle vicende appare immerso in una nebbia densa di enigmi e menzogne, di fantasie e fantasmi, lungo le pagine i personaggi, come Volpe e Octave, trovano psicologie più nitide, gli incontri una spiegazione più razionale, le indagini arrivano a una soluzione, che si può riassumere con una sola parola: Georgette.

“Non avevo paura dell’oblio. Lentamente la primavera si avvicina. Il cielo sembra più giovane e le nuvole si scontrano come dei bambini”

 

Brassaï - Paris de nuit, 1933

Brassaï – Paris de nuit, 1933


La città di Parigi e la notte: in quest’atmosfera onirica l’autore inserisce la potenza delle sue immagini, che ricalca in parte il modello del romanzo Nadja di André Breton: la presenza di questa donna dal significato cosmico, il tormentoso vagabondare per le piazze e le vie della Ville Lumière, l’introspezione tanto smaccata da apparire follia; probabilmente proprio questi stessi elementi lo rendono uno dei romanzi surrealisti più autorevoli e di riferimento.

“Parigi, dicevano, si stende come il sole e il sole è una macchia d’olio, divora ciò che la circonda come lo farebbe il più bell’incendio del secolo perché ama rivestirsi di fiamma mentre canta, come sanno farlo in certe stagioni tutte le campane del mondo. […] Noi eravamo annegati nel vento […] La pioggia formava un’enorme canzone”

La notte e la città di Parigi divengono così lo scenario in cui inserire una figura femminile tanto antica nella letteratura e tanto nuova per gli orizzonti ottocenteschi, un profilo che conserva le tracce di quella Beatrice dantesca, poiché è da lei che tutto nasce ed è a lei che tutti aspirano, Georgette che muore scomparendo nel mistero e poi è capace di risorgere nella meraviglia, come se conservasse il segreto di quella salus, di quel saluto che può donare la salvezza alla miseria di quest’essere umano.

“Lei sorrideva in modo così buffo che non potevo trattenermi da guardare il suo volto lunare e forse, malgrado me, rispondevo al suo sorriso come si risponde a uno specchio”

La notte è la città di Parigi, in cui Georgette può stendere tutto il suo dominio, poiché “il caso”, cita Soupault, “non è che la nostra ignoranza delle cause”, come se finalmente l’uomo potesse avere ritrovato quel principio, quella divinità di cui piangeva la morte.

 

Brassaï - Fille de joie, circa 1932

Brassaï – Fille de joie, circa 1932


Le ultime notti di Parigi
, le chiama l’autore, proprio perché senza di lei non ce ne sarebbero potute essere altre, né altra vita, né un senso a tutto questo: è il momento in cui tutto sembra saldarsi in un unicum che ha il profumo di un abbraccio: Georgette, Parigi, la notte e il lettore, al di là della pagina.

“E Georgette entrò. Il freddo la seguiva e il mattino. “Siete voi?” fece qualcuno. “Sono io” rispose lei. E sorrise. Parigi era davanti i nostri occhi. Noi non aspettavamo più nessuno. […] Il giorno e la notte riprendevano la loro girotondo”

Di seguito si offre la lettura di uno dei passi più poetici e significativi dell’opera, quando il protagonista, conversando con un personaggio, comprende l’effettiva necessità di Georgette, non solo nella propria vita ma in un orizzonte di portata universale: è così che arriva a contemplare il Caso, su un ponte parigino, di fronte allo scorrere della Senna.

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IL SURREALISMO DEL SILENZIO: LA POESIA DI PAUL NOUGÉ, di Emanuele Pini

René Magritte - Ritratto di Paul Nougé, 1927

René Magritte – Ritratto di Paul Nougé, 1927

IL SURREALISMO DEL SILENZIO: LA POESIA DI PAUL NOUGÉ

“Il silenzio non si assomiglia mai”[1] annotava Paul Nougé in uno dei suoi quadernetti della sua dimora di Bruxelles, come le parole, e questo biochimico belga affascinato dal Surrealismo di Breton ed Eluard, intimo e ispiratore di Magritte si manterrà fedele a questa massima fino alla fine. Infatti, pur rimanendo un punto di riferimento nella discussione artistica belga, non pubblicherà nessun testo in vita, ad esclusione di prefazioni per le mostre di amici, qualche nota artistica, poche poesie. Nessuna opera, nessuna raccolta, nessun romanzo: silenzio. Ma quali ragioni può avere questo atteggiamento tacitamente stravagante?

Se si vuole allora timidamente indagare la sua arte, bisogna affidarsi alle pubblicazioni postume dei suoi appunti, in cui alcuni elementi sono senz’altro peculiari, anche all’interno di una corrente tanto ricca quanto il Surrealismo. Un esempio è l’assenza della tematica erotica che lascia spazio a un’introspezione sincera come solo la sofferenza può essere:

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era una notte

come le altre[2]

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IL PAPPAGALLO DEL MIO VICINO[3]

il pappagallo del mio vicino

mangia un rametto di prezzemolo

e il telefono del mio vicino

ha appena schiacciato la coda del cane;

la sventura piove sulla nostra città.

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POCO PRIMA DELL’ALBA[4]

non ti conosco

non ti ho mai vista

ma ti guardo con tenerezza

perché ti ama

e il tuo nome mi sarà ignoto per sempre

La scrittura automatica, concepita e strutturata dalla corrente parigina, dà così vita a una frammentarietà adatta a descrivere lo stato infranto dell’animo umano e non a una visione sistematica del tutto. “Nel palazzo delle immagini gli spettri sono re”[5] racconta un suo verso.

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