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Emanuele Pini: Considerazioni sull’Arte Nera
Una statua antropomorfa non è la rappresentazione di un uomo: questa è la premessa imprescindibile per ogni discorso sull’arte cosiddetta “primitiva”, per non cadere nell’abbaglio di credere che questa si riduca a un’espressione infantile o rozza.
Al contrario è innegabile che l’Arte Nera possiede una maturità artistica, una spiritualità e un’astrazione che hanno affascinato gran parte della critica europea del XX secolo. D’altronde se lo sguardo di un bimbo è metafisica, l’intaglio di una figura può divenire spirito, come è stato evidenziato da molte altre esperienze; parlo ad esempio delle prime pitture parietali nelle grotte di Lascaux, di alcuni ambiti della scultura e dell’architettura medievale, delle opere di Henri Matisse nel soleggiato studio di Cimiez, delle composizioni declamate a piena voce nella Parigi surrealista.
Se poi la società umana è divenuta lungo i secoli sempre più il prodotto di accumulazioni notevoli e molteplici, l’arte è stata spesso uno strumento di semplificazione, una riduzione all’essenza. Questo vale tanto più per le statue africane che consistono nella concretizzazione di spiriti, di potenze della natura, di stati d’animo, di desideri, se l’osservatore non si fa ingannare dalla finta apatia che talvolta è tratteggiata sui volti di queste creazioni. Continua a leggere
La poesia della negritudine, a cura di Emanuele Pini

Una foto giovanile di Aimé Cesaire
POESIE DI NEGRITUDINE
La poesia è un animale piuttosto strano, che nessuno ha mai saputo domare davvero. Nessuno infatti sa ancora dire con esattezza quali siano le sorgenti da cui scaturisca, eppure sgorga e talvolta capita persino che questa creatura nasca da una lontananza. Spesso la parola stessa è generata da questa mancanza, un abisso tra il proprio mondo intimo e una realtà concreta, brutale.
Una condanna all’esilio ha così ispirato celeberrimi artisti come Omero, Dante, Foscolo e via, ce n’è da spellarsi le mani a cavar fuori esempi dalla letteratura, tanto che possiamo distinguere anche nel XX secolo un’intera corrente poetica segnata da questa condizione: la poesia della Negritudine, una poesia dell’esilio.
Dopo il fosco periodo della colonizzazione, dalla metà del ‘900 infatti si concede via via, anche grazie ai compromessi politici della Guerra Fredda, l’indipendenza a molti Paesi di quello che per l’appunto verrà soprannominato “Terzo Mondo”. È durante questo complesso e variegato processo di decolonizzazione che gli intellettuali gridano con orgoglio che l’uomo bianco non ha civilizzato, ma ha conquistato e poi dominato, fino a imporre modelli a una cultura preesistente, una ricca cultura umiliata e via via depredata.
Siamo solo nel 1936 quando Aimé Cesaire, poeta surrealista della Martinica, conia questo termine e intorno a lui a Parigi si forma un gruppo tanto solido quanto eterogeneo, che fonda la rivista Lo Studente Nero.
Tra le pagine di questa rivista si può leggere una delle prime poesie di Léopold Sédar Senghor, un giovane senegalese studente di Lettere; questo testo era intitolato Il ritratto:
“Lui ancora non conosce
L’ostinazione del mio rancore acuita dall’inverno
Né la necessità della mia Negritudine tiranna” […].
Ecco, la Negritudine è questa fierezza delle popolazioni nere, che riconoscono il valore della loro civiltà, della loro storia e delle loro tradizioni o, con le parole di Aimé Césaire:
“La Negritudine è la semplice consapevolezza del fatto d’essere nero e l’accettazione di questo fatto, del nostro destino di Nero, della nostra storia e della nostra cultura”. Continua a leggere
Philippe Soupault: Le ultime notti di Parigi, le ultime notti del mondo – a cura di Emanuele Pini
LE ULTIME NOTTI DI PARIGI, LE ULTIME NOTTI DEL MONDO
La notte e la città di Parigi: due elementi suggestivi che possiedono una forza quasi magica, per nulla estranea al primo Surrealismo. Si può dunque dire che sia stato un processo naturale per Philippe Soupault stendere nel 1928 questo racconto.
La città di Parigi e la notte: due elementi fascinosi che si incarnano nella figura di Georgette, prostituta e femme fatale del mistero, perché tutte le immagini e le ricerche serrate del protagonista ruotano intorno a questo mistero dal dolce nome, Georgette.
“Un non so che non ha alcun nome in alcuna lingua. […] Georgette è una donna”
La notte e la città di Parigi, e se l’inizio delle vicende appare immerso in una nebbia densa di enigmi e menzogne, di fantasie e fantasmi, lungo le pagine i personaggi, come Volpe e Octave, trovano psicologie più nitide, gli incontri una spiegazione più razionale, le indagini arrivano a una soluzione, che si può riassumere con una sola parola: Georgette.
“Non avevo paura dell’oblio. Lentamente la primavera si avvicina. Il cielo sembra più giovane e le nuvole si scontrano come dei bambini”

Brassaï – Paris de nuit, 1933
La città di Parigi e la notte: in quest’atmosfera onirica l’autore inserisce la potenza delle sue immagini, che ricalca in parte il modello del romanzo Nadja di André Breton: la presenza di questa donna dal significato cosmico, il tormentoso vagabondare per le piazze e le vie della Ville Lumière, l’introspezione tanto smaccata da apparire follia; probabilmente proprio questi stessi elementi lo rendono uno dei romanzi surrealisti più autorevoli e di riferimento.
“Parigi, dicevano, si stende come il sole e il sole è una macchia d’olio, divora ciò che la circonda come lo farebbe il più bell’incendio del secolo perché ama rivestirsi di fiamma mentre canta, come sanno farlo in certe stagioni tutte le campane del mondo. […] Noi eravamo annegati nel vento […] La pioggia formava un’enorme canzone”
La notte e la città di Parigi divengono così lo scenario in cui inserire una figura femminile tanto antica nella letteratura e tanto nuova per gli orizzonti ottocenteschi, un profilo che conserva le tracce di quella Beatrice dantesca, poiché è da lei che tutto nasce ed è a lei che tutti aspirano, Georgette che muore scomparendo nel mistero e poi è capace di risorgere nella meraviglia, come se conservasse il segreto di quella salus, di quel saluto che può donare la salvezza alla miseria di quest’essere umano.
“Lei sorrideva in modo così buffo che non potevo trattenermi da guardare il suo volto lunare e forse, malgrado me, rispondevo al suo sorriso come si risponde a uno specchio”
La notte è la città di Parigi, in cui Georgette può stendere tutto il suo dominio, poiché “il caso”, cita Soupault, “non è che la nostra ignoranza delle cause”, come se finalmente l’uomo potesse avere ritrovato quel principio, quella divinità di cui piangeva la morte.

Brassaï – Fille de joie, circa 1932
Le ultime notti di Parigi, le chiama l’autore, proprio perché senza di lei non ce ne sarebbero potute essere altre, né altra vita, né un senso a tutto questo: è il momento in cui tutto sembra saldarsi in un unicum che ha il profumo di un abbraccio: Georgette, Parigi, la notte e il lettore, al di là della pagina.
“E Georgette entrò. Il freddo la seguiva e il mattino. “Siete voi?” fece qualcuno. “Sono io” rispose lei. E sorrise. Parigi era davanti i nostri occhi. Noi non aspettavamo più nessuno. […] Il giorno e la notte riprendevano la loro girotondo”
Di seguito si offre la lettura di uno dei passi più poetici e significativi dell’opera, quando il protagonista, conversando con un personaggio, comprende l’effettiva necessità di Georgette, non solo nella propria vita ma in un orizzonte di portata universale: è così che arriva a contemplare il Caso, su un ponte parigino, di fronte allo scorrere della Senna.
IL SURREALISMO DEL SILENZIO: LA POESIA DI PAUL NOUGÉ, di Emanuele Pini

René Magritte – Ritratto di Paul Nougé, 1927
IL SURREALISMO DEL SILENZIO: LA POESIA DI PAUL NOUGÉ
“Il silenzio non si assomiglia mai”[1] annotava Paul Nougé in uno dei suoi quadernetti della sua dimora di Bruxelles, come le parole, e questo biochimico belga affascinato dal Surrealismo di Breton ed Eluard, intimo e ispiratore di Magritte si manterrà fedele a questa massima fino alla fine. Infatti, pur rimanendo un punto di riferimento nella discussione artistica belga, non pubblicherà nessun testo in vita, ad esclusione di prefazioni per le mostre di amici, qualche nota artistica, poche poesie. Nessuna opera, nessuna raccolta, nessun romanzo: silenzio. Ma quali ragioni può avere questo atteggiamento tacitamente stravagante?
Se si vuole allora timidamente indagare la sua arte, bisogna affidarsi alle pubblicazioni postume dei suoi appunti, in cui alcuni elementi sono senz’altro peculiari, anche all’interno di una corrente tanto ricca quanto il Surrealismo. Un esempio è l’assenza della tematica erotica che lascia spazio a un’introspezione sincera come solo la sofferenza può essere:
era una notte
come le altre[2]
*
IL PAPPAGALLO DEL MIO VICINO[3]
il pappagallo del mio vicino
mangia un rametto di prezzemolo
e il telefono del mio vicino
ha appena schiacciato la coda del cane;
la sventura piove sulla nostra città.
*
POCO PRIMA DELL’ALBA[4]
non ti conosco
non ti ho mai vista
ma ti guardo con tenerezza
perché ti ama
e il tuo nome mi sarà ignoto per sempre
La scrittura automatica, concepita e strutturata dalla corrente parigina, dà così vita a una frammentarietà adatta a descrivere lo stato infranto dell’animo umano e non a una visione sistematica del tutto. “Nel palazzo delle immagini gli spettri sono re”[5] racconta un suo verso.