Elena Salibra – Dalla parte dei vivi

Elena Salibra – Dalla parte dei vivi, Poesie 2004-2014 – Manni 2019 (pag. 336, Euro 28.00)
Il libro di un decennio, tutta l’opera poetica di Elena Salibra, tutti i cinque libri pubblicati dall’anno di esordio (Vers.es, 2004), fino a quello della sua prematura scomparsa (Nordiche, 2014), passando per Sulla via di Genoard (2007), Il martirio di Ortigia (2010), La svista (2011), alcuni dei quali hanno vinto premi importanti. Allieva di Lanfranco Caretti e Cesare Garboli, studiosa di Gozzano, Pascoli, Carducci, Quasimodo nonché dell’amatissimo Attilio Bertolucci (ma di mille eco sono piene le sue poesie), Elena Salibra era docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Pisa, dove viveva con la famiglia fin dal 1972.

Difficile anche solo estrarre qualche testo esemplare da questa raccolta, perché sono tutti di alto livello e perché si rischia di dare un’idea fin troppo approssimativa dello sviluppo nel tempo, del suo trasformarsi anche in seguito agli accidenti della vita, e insieme della costante qualità della poesia di Salibra. Ma è certo (ce ne rendiamo conto leggendo il libro) che l’esordio, nel 2004, non fu affatto da “esordiente”, come nota Marco Santagata nella breve ma affettuosa prefazione. Non solo perché, su incoraggiamento di Cesare Garboli, alcuni testi poi confluiti in Vers.es erano già usciti nel 2001 su “Paragone”, ma soprattutto perché la pubblicazione in volume avvenne quando Salibra “aveva maturato la convinzione che la sua poesia da confessione privata si fosse trasformata in autonomo oggetto estetico” (Santagata). Lo sviluppo successivo della poesia di Salibra parte da lì, è denso e accelerato, compresso in quei dieci anni chiusi poi dalla malattia e dalla morte. Sviluppo che non è soltanto stilistico, con tratti che variano nel tempo anche in relazione (e non potrebbe essere diversamente) ai contenuti, e che possono essere riassunti in un iniziale e successivo ricorso ad una “poesia dell’occhio” (Mario Gerolamo Mossa, nella nota del curatore) in cui è importante e cospicua “la semantizzazione dello spazio poetico” con la punteggiatura rarefatta, gli spazi bianchi, le parentesi, la minuscolizzazione delle parole, i trattini, che vanno di pari passo con la terminologia tecnica e specialistica, il prestito linguistico, la citazione tratta dal vasto bagaglio culturale dell’autrice. Un approccio che è anche visivamente evidente alla lettura di almeno le prime tre raccolte. Ma lo sviluppo dell’opera è anche una parabola di vita, segnata dalla svolta drammatica della malattia ed evidente a partire da La svista, del 2011. Le questioni stilistiche, e in qualche modo la ricerca che le contrassegnava, perdono di consistenza, forse di importanza, di fronte ad una ben diversa “ricerca” di senso. Sembra una ovvietà, ma si tratta semmai di dare alla poesia, mai abbandonata fino all’ultimo, una nuova voce e forse una nuova responsabilità di un dire più privato e profondo, ma che non “confessa”, piuttosto elabora il tempo nella sua tragica finitezza, anche nelle “cosette” (Cosette ospedaliere è una sezione di Nordiche, ed è impossibile non richiamare, almeno nel titolo, Amelia Rosselli). Ora l’unico espediente “per l’occhio” è rimasto il “corsivo del ricordo”, come annota il curatore, al binomio vita e scrittura e al ‘doppio tavolo’ del critico e del poeta si sovrappone “l’opposizione-coincidenza tra malattia e poesia”, vi si innesta uno stretto rapporto dialogico tra ‘io’ e ‘tu’ che non è solo quello tipicamente ambiguo di tanta poesia novecentesca, ma soprattutto (ancora Mossa) quello tra “il razionalismo del tu e le trasfigurazioni proprie dell’ io”. L’ultima di Salibra è una “poesia per l’orecchio”, in cui agisce “non più e non solo il presente scarnificato, disilluso nel suo statuto di eternità dall’incombere di un futuro imprevedibile, ma il tentativo di inscrivere la propria esperienza nel divenire ciclico della memoria, l’accettazione del proprio destino nonostante l’approssimarsi della fine”. Nordiche rappresentano la fine di un viaggio, verso un Nord (la Svezia) che era non solo la speranza di una cura, forse di una salvezza, ma anche una metaforica terra dell’addio. (n. red. a cura di g. cerrai)

Segnalo, per il loro interesse, un ricordo di Massimo Bacigalupo degli scambi intercorsi con E.S. a proposito di traduzioni di W. Stevens ( QUI ); e il dossier dedicato a E.S. dalla rivista on line “Poesia e conoscenza”, fondata da D. Bisutti, nel n.1 ( QUI ), con estratti da Nordiche e scritti di M. Bacigalupo, M. Cucchi e F. Raimund.

da Vers.es (2004)

Oggi

Oggi il tramonto s’allunga oltre i limiti
del giorno nel tragitto che ci porta
alla casa in campagna. La sbarra
è chiusa. Colmiamo a piedi gli ultimi

passi tra sassi e terra ma il sale
resiste sui nostri volti bruni. Ora
siamo quieti in cerca d’oblio
se guardiamo più su la pianura

d’aranci che al confine si fa piatta
a chiudere di luce la sera di fine
agosto come fosse estate ancora
a venire. I bambini confondono corpi

e voci allo sciacquìo d’acqua che s’incunea
tra le zolle aride di sole diurno.
Lasciamoci dormire un’altra notte
nella direzione dei sogni ché

nella distanza non vadano via.

Livia scrutans

Dentro il video appare un po’ a sinistra
il tuo viso rosato pienamente 

Livia scorro col mouse
la tua delicatezza di labbra schiuse
dove tocchi di vita ogni giorno
t’accrescono i sogni

Livia il tuo lieve riso mi riaccende
altri volti nel cuore dell’inverno

ma tu non sai quale
lucente stella t’arde nel cielo di gennaio
(il pointer del mouse s’attarda sulle
tue gote gonfie)

ora scruti chiara oltre il tenero sonno
sillabe e aria ancora in armonia

da Sulla via di Genoard (2007)

a malapena

come e tarda la luce a risalire
in occidente il cielo di gennaio
se una voglia mi prende
appena sveglia
d’accendere l’oro

in quella conca d’acqua dietro al prato.
poi l’ora si fa piena
– stagna tra aranci e tamerici la rena –
là dove ombra o uomo certo

stoppano al guado
la palma bianca
mi congedo da voi a malapena

pc

oggi piazza dei cappuccini è spoglia
come la paginata
bianca del pc che aspetta il tuo messaggio.
se cerco rime in -are
mi perdo in quel prato di sbieco ai binari
dove non c’è un papavero.
non sono in vena, l’eclisse di Venere
è già finita, scantono nel tunnel
della vita

nove/dieci marzo

s’è sciolta tutta la neve in un fiat
da un giorno all’altro – nove/dieci marzo.
se il treno va e viene ansimando nell’unico

binario s’incrementa il divario d’oggi
e ieri sul filo di tensioni che
attramano gli invia-ricevi-aggiungi
nuovo – dopo il bip salta Crevalcore 

poi un flashback in sms mi chiarisce
il nuovo itinerario – neve nebbia
fitta incollata al finestrino fumo
odori umori rottami lamiere

alla rinfusa e niente
nel binario unico

da Il martirio di Ortigia (2010)

…anche mio

tenebrosa la sera ci coglie ancora
attaccati alla tela che racconta
del martirio d’ortigia.
ci sei mi guardi m’attrai
dopo le tue abluzioni tra l’eunoé
e il lete. poi mi oblii dentro il cassetto
del canterano a mare come un sogno
scaduto, se rassetto quei bei versi
ora rifletto sui limiti
della mia carne tra i clivi dei climiti
il nuovo amore cercando per farne
un impasto di sudori
a olio che macchiano
il mistero di ortigia. stenditi con le braccia
alzate infisso schiodato
pareggia le dita ai confini della luce
col volto purificato fatti mio
consolante martirio

il funerale di […]

la morte nel quartiere di san marco
s’acquatta sotto le foglie dei giardini.
senza voglie qui si sta

come una pietra incagliata sul fondale
d’un fiume che non scorre
bevi l’aperitivo

mi sfiori la mano un istante
poi ricordi agli astanti
che io non sono viva

più. uno accende la sigaretta
senza fretta di spegnere la cicca
(il blues di Billie insegne le spirali

di fumo). forse pensi a quanto è stato
triste quel verso in fondo alla poesia
l’ultima da vivente.

chiusa per ferie

chiusa per ferie anch’io come questa
città pedalando m’avvio dove l’argine
gira in una stretta d’acqua

o lucertola guizzo
a uno slargo oltre il ponte sostando.
comincia da qui il mio letargo settembrino
un poco anticipato dalla calura d’agosto
che declina.

tutto eguale per strada
nei lungarni lungo la statale 206 all’alba al tramonto

i girasoli senza i macchiaioli non sono gialli più così
d’un marrone ancora bruciato la terra
davanti alle case della fattoria
poi lavata di pioggia la sabbia della spiaggetta
s’appallottola intorno intorno tra
alghe e sassi                

passi l’idea d’una corrente sottopelle
se tra te e me fluisce e si scioglie
nel punto ove si stempra la tua voglia…

e non ti chiedo venia

Istanbul  

ho amato il tuo volo sul galata bridge

[mi piacerebbe dirti e non sarei
sincera]
cefalo saltato all’amo
tra le cuspidi rosa del palazzo.

non ero certa di te.

(il flash t’oscurava il volto)
ma ti riconoscevo nello specchio
opaco sul fondo dell’harem.

tutto sommato mi piacevi
così come un oggetto
senza trasparenza.      

ora intanata
sotto la volta della basilica
con un piede nell’aldilà t’aspetto

china sul tappeto rosso
[e non ti chiedo venia]

s quattro

dopo il dieci d’agosto   

mi è nemico il vento in questa sera
di fine estate se il fuoco agostano
prima di mezzanotte scoppia
sopra il porto piccolo.

nell’isola non ci sono più case.
le affiches a cinque stelle oggi m’accecano
i sogni. forse quel fondale
dove i ricci femmina s’arrossavano
alla luna sarà un angolo
di buio nel comodino.               

qui la morte lottizzata
come la vita si misura a cumuli
di terra e marmo.

dalla finestra a mare con le gocce
della flebo mi provo a decifrare
il tuo dormiveglia.
ora il respiro
s’allenta come una rete smessa.

sei in attesa di infilare la porta stretta

da La svista (2011)

altre erbe

avevano scoperto una gramigna
speciale che cresceva tra le fessure
di me come tra gli interstizi
della terrazza a mare.

non era facile estirparla
– ci volevano forbici da giardino
o un attrezzo da scavo
per arrivare lì dove le radici
s’erano impigliate – tu dicevi
che ti faceva ribrezzo perché
sembrava all’aspetto maligna
anche se non era invasiva e proliferava
appena più folta dei capelli.

un’altra erba più buona avviluppata
allo steccato davanti alla casa
mi impediva la vista del mare.
era stata una svista del giardiniere
non averla strappata. tanto – pensava –
io ero capace di guardare di là
da quella come fanno i poeti
. mi aveva
sopravvalutato – era chiaro – e poi
c’era anche la siepe del vicino

troppo alta per vedere la mia vita
doppiarsi nella sua. così ero arrivata
al punto di pensare d’essere cieca
e di non capire il parere
degli specialisti che volevano intervenire
ad ogni costo per aprirmi
nuovi orizzonti…      

la stanza da bagno

mi rifugio nel bagno – stanza accogliente
ampia finestra vista parco platani
tremanti alla brezza di maggio –

dopo il colloquio di rito nello studio h
mi ritrovo confusa davanti a undici
provette in fila sul lavandino.

quale sarà la mia non so ancora
forse quella d’un bianco opaco come
il piatto doccia. sto a rimuginare

mentre cade una goccia poi due… tre…
dal rubinetto di fianco sul mix
di liquidi in attesa d’analisi.

lo stick col reagente cambia
i colori (e i miei umori). d’un tratto
una merla si posa sul davanzale

– cosa fai tu qui… io vorrei sorvolare… –   
stanotte ho sognato una luna
crescente in un cielo preestivo.

– data presunta del parto undici maggio –
ora ci sei tra di noi mi spiazzi
m’adeguo           

il girone

sono in esubero in questo girone
i dannati e gli addetti
non bastano a dividere i vivi

secondo i tempi d’attesa. s’affollano
dopo l’appello davanti al display
aspettando la formula di lettere

e numeri che li ordina in duplice fila.
l’ago cerca la vena che c’è e poi scompare
d’un tratto il sangue non fluisce più

ma ho voglia di essere qui tra di voi
in un natale di ghiaccio  dell’anno
duemiladieci
. ti scorgo – le guance

rosse la fronte aggrottata – a sbirciare
di sghembo il mio viso. come un refrain
la tua voce s’innalza e s’affioca.

nel fondo un’altra voce si confonde
con il mormorio di quella gente
che sta a contare i giorni

a venire. dall’ultimo posto m’apostrofi
sei tu qui – ma non siamo uguali io
e te solo per lo scorcio di tempo

che ci rimane in comune. col camice
bianco ti affacci alla porta – sono
viva… se vuoi mi puoi salutare… –

Per estratti da Nordiche rimando al citato n.1 di “Poesia e conoscenza”

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