Il varco nel muro – una nota su Afa epifanica dello steccato di Marina Pizzi

Marina Pizzi - Afa epifanica dello steccato

Pubblico qui l’articolo che appare sul n.4/2020 della rivista Menabò di prossima uscita, con il quale credo davvero di avere esaurito il mio  lavoro su Marina Pizzi, autrice di cui mi sono occupato svariate volte nel corso del tempo (v. QUI e QUI). La nota riguarda il suo ultimo libro, Afa epifanica dello steccato – Terra d’ulivi ed., 2019.

Il varco nel muro

Conosco Marina Pizzi da un bel po’ di tempo, in tanti suoi libri, tanto da coltivare alcune convinzioni. Ad esempio, mi ero persuaso che l’acquisizione da parte sua di una voce e uno stile duraturi nel tempo fosse anche una sua maniera, un modo per radicarsi nel mondo con almeno qualche certezza. Ma con lei mica puoi sapere. Così, quando ero arrivato alla constatazione di stare contemplando una specie di monolite kubrikiano della poesia italiana, ecco che lei se ne esce con un libro che, sì, ripropone certi suoi stilemi, una sua ancora accanita propensione a mettere in mora le parole, discreditarle e riaccreditarle, a decontestualizzarle piantandole come menhir smemorati in mezzo al verso o facendole slittare di senso, a strapazzare la sintassi, tendere all’oscurità del dettato; ma qui, in questo ultimo libro, trovo anche una discontinuità, una specie di varco nel muro, la possibilità di gettare uno sguardo su uno spazio privato che per molto tempo era rimasto nascosto, non tanto o non solo perché custodito da un naturale riserbo, ma perché sommerso in profondità abissali della psiche, di un dolore dell’anima e un horror vitae su cui si scagliava il linguaggio duro e puntuto di Marina. Avvisaglie certo ce n’erano già state, ad esempio in Segnacoli di mendicità (CFR, 2014), ma anche, per indizi palesi, altrove. Tanto che qui non solo si evidenziano esplicitazioni del privato  (“Ebbi un amore giovanile / Più giovane di me di sette anni”; “…Mia madre se ne andò / Con le preghiere in gola nel mormorio / Dei gatti nel cortile”), ma anche, come quasi richiede la materia, affioramenti di una liricità di assoluto livello, magari anche solo per pochi ma illuminanti versi (“In un registro di crisantemi t’amo / Vetusta andata della giovinezza”; “Aureole di baci ultimi sonnambuli / Nature fossili i tramonti”). Certo il nucleo centrale è ancora quello di una dolorante esistenza, nel quale i vuoti vengono colmati (o si tenta di colmarli) con un iperlinguaggio la cui principale caratteristica sono gli accostamenti radicali e apparentamente insensati, con una iperdescrizione di porzioni di realtà la cui esuberanza è direttamente proporzionale alla consapevole impossibilità di raggiungere una qualche pacificazione. In questo senso il linguaggio di Marina è una medicina amara ma irrinunciabile – e perciò il lavoro di Pizzi è potenzialmente infinito, proliferante, come ho scritto altrove – un inevitabile pharmakon, insieme cioè un curativo e un veleno (esattamente come, nel Fedro platoniano, è per Socrate il testo scritto). Lo è anche, ovviamente, per il lettore, al quale è richiesto di mettere in discussione quella parte di ordinarietà da cui è affetto il linguaggio di ciascuno e di accingersi ad una lettura non passiva, per quanto seduttivo possa essere il mero abbandonarsi anche al solo impulso sonoro che questa poesia, dove sspuntano metri classici, irradia. Insomma, come scrivevo in altra occasione, “la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E’ una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici”. Da questo punto di vista forse quest’ultimo libro, in qualche misura e nei limiti del possibile, è più “leggero”, anche per le ragioni suddette. Ma è indubbio che certi punti oscuri, che spesso assomigliano a quelli della poesia  della Rosselli che reputo essere uno degli “antenati” di Pizzi, certe immagini perturbanti come un quadro di Max Ernst (non mancano tratti surrealisti in lei) debbano essere assimilati e accolti, come pure certi termini feticcio come “gerundio” (“gerundio di fallacia il mio tramonto”), che rimanda direttamente a qualcosa di indefinito, ad un processo o un sentire sempre relazionato ad “altro” o singolari metafore (“gheriglio amanuense il mio ceervello / vellutato dal soffio di amore”). Insomma il consiglio che mi sento di dare è cercare sempre, nel testo, di individuare un nucleo,  una associazione per quanto astratta, una metafora in genere più concettuale o cognitiva che meramente retorica o analogica. E’ lì che tutto si svela. (g. cerrai)

Voluttà di addio vederti
Issato sull’ultima sfinge.
Giocoforza tirarti baci
Celesti oltre le stimmate.
Stima di gioia t’incontro
Cometa adagiata al davanzale.
Ulula invano la mestizia
Grazia atletica l’abbraccio.
Lutto di ieri la mamma
Marziana di sé che se ne andò.

***

Aprire il mio cortile
Alla sorveglianza dell’alba
Contro il bitume che mi saccheggia
Le finestre.

***

Regalasi dimenticato-io
Tra le panchine del giardinetto
Di stress quasi atomico di malinconia.
E cola la nenia di perderti
Anzi averti già perduto durante
Le ambasciate degli ultimi baci.
Crebbe la lapide fino a murarmi
Milite di trincea fangosissima palude
Dove non più avvengono le guerre
Di postazione ma ancora ci sono io
D’io farabutto che mi comanda e abbatte.

***

In un registro di crisantemi t’amo
Vetusta andata della giovinezza
Pace in terra quando tu c’eri
Ma con sabbie mobili finali.
Ora i palloncini dei bambini
Scoppiano, le salsedini ciecano.
Calvario anatomico la rimanenza
Bacata dall’alunno che già sa
La stazza della volta della bara.

***

Sul letto disfatto aumentano le rughe
Facciate di palazzi slavati
Da intemperie giganti. Pure paure
Reggerti i polsi per un’agonia leggera
Stella di resina. E manomesso l’albero
Che ancora vedi dalla finestra
E i gatti mangiano le ciotole degli umani.
E’ il sanatorio verde dove nessuno guarisce
Ma le libagioni dei sonni aiutano a morire.
Marina la portiera legge romanzi e zanne
Di fantasmi: non teme niente e saluta sempre.
Brevetti atomici dentro cassetti innocui
Ricordano Enrico Fermi e la sua breve vita.
L’iride lunare della mia vecchia età
Conduce errabondi blasfemi e colonnati
Dove bivaccano homeless di privilegio.
E già domenica e dondolo la noia.

***

Ho trascorso l’ultimo dell’anno
Per le scale ché avevo dimenticato le chiavi.
Nessun addobbo di soccorso
Ma ricercata demenza.
La musica suona da dentro ogni porta
La carestia d’anima mi fermenta
L’attesa. Non sono tipo da telefonino
E mi appisolo sul marmo gelido.
Un gatto spaventato si accuccia ai miei piedi
Tra poco un altro calendario
Decimerà l’anno. Tu cucciolo di ieri
Mi chiamerai fantasma. Qui si aggioga
Perdere la vita in un frammento d’asma.
Addio ti dico micio cortese
Salvadanaio di un addendo che non ho.

***

Ebbi un amore giovanile
Più giovane di me di sette anni.
Fu la vanità del trionfo
Di correre in bicicletta
Con la lancetta dell’orologio
Ferma. Lo amavo più del tempo
Che c’incontrava. Solo tanti baci
E i capelli di lui tra le dita. Restai indietro
E lui avanti fino all’esoterismo della laurea.
Andò dai tibetani e poi a fare il pittore in Olanda.
Ancora lo ricordo ebete di lui.

***

Non c’è, è morta ieri al tramonto
Dopo un mormorio di ebeti parolette.
L’impronta sul letto ne demarca
La lungimiranza. Ora il tumulto dell’urlo
Se ne è andato a frotte di nuvole
Giocherellone inerti. Tu gl’incerti
Sorrisi per risposte di teschio e la mattanza
D’aria quando non bastavano le finestre
Aperte. Non ho venia la prassi
Di scaricarti cadavere. In carne ed ossa eri
La coraggiosa sfinge il diritto di essere
Salma santissima senza decomposizione
Lungimiranza di lontananza.
Col sì del dito l’avaria è venuta
Nodale alabastro il fu per sempre.

***

Gennaio algente questo divario
Della mente al cielo. Ho perso
Tutto il tracciato di aiuto, sono
Sola senza indirizzo né mensa
Al coro della festa. Nessuna gemmante
Aurora la fronte che si corruga.
Mi accumulo piangente e getto via
La letteraccia della mia età
Questo disprezzo accanto
Che m’ispeziona alquanto.
Mi va di morire al primo battito
Di ciglia. Chiudere gli occhi
E basta. Oggi urlo più del solito
E la lenticchia di capodanno
E’ blasfema. Questi versacci li do
Da mangiare alla iena lamentosa.
Sul letto mi troverai beata morta beata.

***

Tante nicchie solitarie questo sproloquio
Badato dalle sfingi tardive speranze
Scalze. Mia madre se ne andò
Con le preghiere in gola nel mormorio
Dei gatti nel cortile. Digiuno l’altare
Fato fatuo. Breve attesa la rincorre
La mia vita assalita dalle ceneri.
Addosso alla ragione di capire
Si disfa il mappamondo della scuola
Quando allora la pece già sfornava
Valenze senza scampo. Nei letti a castello
Del rifugio in cima m’imparai la nenia
La giara rotta del vento sibilante.
Esalai la giostra infanta
Con la pertica dell’anima in forse.

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