Emilio Capaccio – Canzoniere della biondezza

Emilio Capaccio - Canzoniere della biondezzaEmilio Capaccio – Canzoniere della biondezza – Ed. L’arciere del dissenso, di Emilio Paolo Taormina, 2019, f.c.

Parlare d’amore in poesia è tutt’altro che facile. Il banale, l’ovvio, il già detto, lo scontato sono sempre in agguato in un tema di cui i poeti hanno parlato negli ultimi settemila anni. Ci vuole passione e arte, e soprattutto la convinzione di poter trattare in modo “nuovo” un’esperienza certo comune per la gran maggioranza dei lettori. Emilio Capaccio con un certo coraggio ci prova e lo fa seguendo due direttrici principali: da una parte, trattando di un amore già in qualche modo “accaduto” e quindi già filtrato in parole, già trasportato in un linguaggio che non descrive tanto una realtà contingente quanto un ricordo e la decantazione di un affastellarsi di esperienze, affettive, sessuali. E’ dove il poeta, come “padrone” del linguaggio, in genere prende il sopravvento, afferma una supremazia creativa rispetto all’innamorato (e tuttavia le parole del poeta sono “gravide di te / gravide del tuo pane”), prende una giusta “distanza” dal fuoco, senza tuttavia spengerlo, anzi cercando di trasfigurarlo in qualcosa di universale. Non è necessariamente un procedimento per così dire romantico, di incielamento dell’amata, anzi fin dal primo testo ci si riferisce a questo/i amore/i come a qualcosa che consuma, che ossifica e altrove come a qualcosa di carnalmente ossessivo (“l’ossessione del neo sul tuo seno”, si legge tre volte nello stesso testo), senza contare gli  interessanti accenni all’aleatorietà che a volte caratterizza questa fondamentale esperienza umana (“Estratta a sorte dal vaso della materia / sguardo senza occhi del caso alla mia porta / dado disceso tra le mie mani”).
Dall’altra parte Capaccio lavora ad un depotenziamento, a volte riuscito a volte no, e ad una rinnovazione di tutto l’armamentario metaforico/metonimico che quasi inevitabilmente accompagna la poesia d’amore, le similitudini, le analogie, i paragoni, le sinestesie, le personificazioni dell’oggetto amato e delle situazioni fattuali, insieme ad un lirismo controbilanciato da un ritmo poco musicale, da versi senza sospensioni o enjambments, spesso monofrasali e assenti di interpunzione, dall’uso sporadico ma visibile di accostamenti un po’ “iperbolici” che mi ricordano Marina Pizzi (“io sono eretto al rebus della dissomiglianza”; “il sesso scoperto di una forma aleatoria”; “si scaglia un brivido di vita elefantiaco”, “il biondo passero della rarità”, “la conoscenza planimetrica del salice”, ecc.), tutti artefatti  che contribuiscono – a volte eccedendo in senso contrario verso una involontaria ironia (“anche gli uccelli sul nocciolo / leggono Neruda / col monocolo in bellavista”; “bevo un ricordo / dopo averlo fermentato”) –  ad aggirare i rischi di cui si diceva all’inizio.

Meccanismi in azione, ma forse con meno frequenza, anche nella seconda sezione del libro, “Canzoniere dell’estate”, dove l’amore c’è, è ancora presente ma disperso in un’aria estiva a volte onirica, in un’ambientazione leggera che tuttavia ha maggiori concretezze anche oggettuali, dipinge atmosfere più visibili per quanto qui decisamente più liriche, di un lirismo che Capaccio non teme, anzi esibisce senza infingimenti in tutte le sue tradizionali sfumature (“Vengono all’estate i violini piagnucolanti / delle ore lente dei giorni / inneggiano / alla fiacca sospesa delle mosche”; “Cantano i cappelli dei narcisi / questa rotta canzone”) e forse è proprio questo ricorso senza patemi d’animo a tonalità e registri che ci rimandano direttamente alla prima metà del Novecento a restituirci una certa piacevolezza, anche per così dire “eccessiva” come nella poesia Brandeggiano i loro spadici d’oro o in  Fuori la veranda (v. più avanti) dove la fa da padrone un divertente affastellamento di termini botanici e entomologici, un’accumulazione che invece è piuttosto moderna e a volte ha esiti che sono –  però qui volutamente – scherzosi (“Dimmi che sono io il tuo cochon d’Inde / l’uccello delle tempeste che svilisce nella ragna”). Se si superano steccati del tutto paradigmatici, come quello che divide il resto del mondo poetico dalla poesia lirica, non si fa fatica a dire che questa seconda sezione appare (per diverse qualità, accenti, disposizione e scelta della lingua, leggerezza, forse ispirazione) senz’altro migliore della precedente. Lo dico sulla base di un metro empirico che uso qualche volta, ovvero quanti testi a mio avviso meriterebbero di essere trascritti all’attenzione del lettore, che in questa sezione dovrebbero essere davvero quasi tutti. Forse merito, in sintesi, di una felicità dello scrivere fregandosene di alcune cose, che mi pare traspaia ed arrivi a chi legge da queste poesie di Emilio Capaccio. (g. cerrai)

da Canzoniere della biondezza

V

Creatura degli specchi e dei rivoli d’acqua
aerea e acquorea dietro l’illusione
solo chioma
lingue d’oro arricciate al biondo del tuo aroma
solo chioma nel tuo caos di linee
e curve non descrivibili
io sono eretto al rebus della dissomiglianza
sono dissimile da te e opposto più di tutti
a questo disciolto me stesso
sono solido nell’attrazione di penetrarti
al centro della forma che mi faresti
nell’arresa ai miei denti impastati di lingua
stai dietro l’illusione
da altri arriva la canzone dell’amore
da altri la voce sudata di fremiti e alluvioni

 

 

VI

Eccetto i tuoi pensieri
che tacciono quello che dicono
ti definisco nella proporzione
di due parti d’acqua e una di fuoco
acqua meridiana
i tuoi occhi schermati dal vetro
fuoco fluente
il pettinio delle dita fra i capelli
carne umida carne tesa
carne circoscritta alla vita
il combustibile che li alimenta
ti definisco nella fedele nudità
di questi elementi assoluti
che piegano le loro leggi
al dogma del tuo corpo
implausibilmente addomesticato
allo sguardo del tempo
al mio
che arde nell’acqua che annega nel fuoco

 

 

XVIII

Colpevole per avermi guardato
era buia poi fu bionda
la strada
correvo — un faro mi pungeva
era nell’occhio la coda
di un uccello di fuoco
era l’unghia di una pupilla
che graffiava l’oscurità
morto — ero morto
in un incidente di sguardi

 

 

da Canzoniere dell’estate

XXVIII

Vengono all’estate i violini piagnucolanti
delle ore lente dei giorni
inneggiano
alla fiacca sospesa delle mosche
che masticano la calura
al tempo d’Apollo
e degli alti soli
ai quieti pomeriggi delle imposte chiuse
che conducono come aurighi
il carroccio del giorno
alla sera bruna del merlo
io mi scalzo
nella camera all’aria aperta della veranda
vado al braccio molle della serenata
mi bagna l’onda malva
sotto i grappi ombrosi delle ricce jacarande

 

 

XXX

Brandeggiano i loro spadici d’oro
grandiose zantedeschie
additando al cielo
mistiche calure di mezzogiorno
soffondono
come ganimedi in baveri di biancori
elisi da morbide brezze
le loro scintillazioni alle vanesse
in flottiglia venute da prati sfollati di attigue primavere
le rane
nel marese
aspettando sotto foglie di nelumbi
altre batracomiomachie
nutrita di miele e favagelli
in ipnotica metameria torva del corpo sinuoso
su zampe d’artropodo
e spira di farfalla
arrivi da uno scendiletto carminio di raggianti callistemon
tu flessile antropomorfa
con baci d’insetto porti al bambino
l’azzurro aquilone

 

 

XXXIII

Fuori la veranda
oltre i grappi di jacaranda
c’era nell’aria un traffico silenzioso
infestata era la notte di lepidotteri bianchi
e brillii frenetici di invisibili lampiridi
il carreggio degli onischi e delle formiche
nel terriccio umido
sotto le cornocupie degli alberi da frutta
(titani neri e taciturni)
traiettava verso redole segrete e fogliose
i cerambici
dalle coffe degli albicocchi
scrutavano il commercio clandestino degli insetti
uno scintillio di luna nel marezzo del cielo
più su
diffuso di stelle colava l’argento

 

 

XXXV

Resto serrato nell’ultimo miracolo di sensi serotini
mi sorride l’abetaia fusata e ghiandosa
con una giubba molliccia
brunita d’orbace
nell’aria ramata serpeggiano i pini
in una sgargiante canutiglia di caramello
fugge ai margini e sale impervio
fin alla vetta
il dorsale sbreccato di bunet
striscia nel sottobosco e incalza
con brusii propiziatori
la silenziosa battuta dei roditori
l’obolo cereo del sole
provvidamente richiama le poiane
all’ultima ricongiunzione
sulla colata ripida della sera
e le nuvole gialle
maculate di grano saraceno
non pesano più
vanno al tramonto
e in anelli più ampi si dissolvono
sotto una cupola di cobalto smerigliato

 

 

XXXVI

Vedi
si intromette la notte
nella camera blu e viola-mammola della sera
è tutta luna la notte che scoperchia i lucernai
e la quiete è l’ancella ovattata
che accompagna le risalite dello sguardo
agli arcipelaghi delle stelle
è tutta luna la notte
che ci veglia con occhio accresciuto
di plenilunio
e le ombre bisbigliano e ci lusingano
dietro i cauli delle palme
e bevono acquerugiole
sulle scapole della magnolia
vedi
ti porto la notte: contempla
conosci poco la notte
non ci sono tramonti nella notte che ti porto
prospera nelle crepe dei muri
la lana dei ragni
cova la colomba
cresce il torlo nell’uovo
e il grillo non canta
stordito di nascite cade
frange la tegmina
su lingue legnose di rosmarino

Altri testi di Emilio Capaccio QUI

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