Silvia Patrizio – Smentire il bianco

Silvia Patrizio – Smentire il biancoArcipelago Itaca, 2023

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Un’opera di esordio, mi pare di capire, ma frutto – ci dice Davide Ferrari nella postfazione – di tre lustri di lavoro. Mi sembrano, in breve, due vite, e forse lo sono, dovremmo domandarlo alla diretta interessata. In ogni caso qualche traccia del tempo, di un tempo che ha agito sulla natura del libro, di un prima e di un dopo, nel libro si trova. Almeno nella sua struttura, perché invece la scrittura non sembra dare segni di flessione tra la prima e l’ultima pagina. Voglio dire, se l’autore ha lavorato nel tempo, è stato un lavoro teso, mi pare, soprattutto alla realizzazione di una lingua chiarificata e unitaria nei modi (stile) e binaria negli intenti, anche all’interno dei singoli testi. Nella maggioranza dei quali, specie nella prima parte (la sezione titolata Una stanza bianca, dopo il treno), l’andamento è diegetico, una linea caratteristica (e comune a tantissima altra poesia) e direzionale, che va da una certa adesione ad un reale oggettuale, ma non per forza correlativo, verso una dimensione per così dire speculativa, pensosa. Il procedere dagli oggetti, dal tangibile, dalle “cose” mi pare dare il senso di un hic manebibus resistenziale sì ma non a lungo sostenibile. Non ottimamente almeno, poiché – ed è anche una scelta stilistica – poi per l’autore si fa necessario gettare uno sguardo su un altrove che talvolta non supera la stanza (sia pure come simbolo di chiusura), talvolta trova un’eco in una assenza o in un paesaggio, tal’altra l’immaginazione accosta l’oggettivo e l’ideale in una sorta di interscambio (“appartenevi all’indulgenza delle foglie”), e così via, come quando la messa a fuoco dell’occhio si allenta inseguendo con la mente un pensiero all’orizzonte. Ferrari ci conferma che l’autrice “sembra voler rimanere ancorata alla realtà”, che il suo habitat è quello di “una quotidianità privata” che si riverbera in “componimenti…permeati di immobilità”, per quanto assolti da una loro “dimensione del tempo: come se tutto accadesse qui e ora in una frantumazione di immagini”, dal loro essere “in grado di investire anche la nostra quotidianità”. Siamo quindi nell’ambito di ciò che con il mio solito mugugno ho annotato troppo spesso in passato, uno spazio ego-centrato e mediamente lirico, ma anche legato a un immanente presente, appunto privato, appunto “immobile”, in sostanza una comfort zone poetica da cui osservare il mondo con il proprio moderato disagio (anche però autocritico: “la guerra degli altri / lo strappo che non ci compete / non può succedere a me / assaggia tu la pasta sennò scuoce”). Continua a leggere

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La costante cristiano-cattolica nella poesia di Mario Luzi, nota di Riccardo Renzi

Mario LuziLa costante cristiano-cattolica nella poesia di Mario Luzi

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Mario Luzi nacque a Castello, in quel tempo frazione di Sesto Fiorentino, secondogenito di Ciro Luzi, locale funzionario delle ferrovie, e di Margherita Papini. La famiglia paterna era di origini marchigiane, di Montemaggiore al Metauro. Dopo una prima parentesi nel senese, Mario trascorre l’infanzia a Castello, frequentando qui i primi anni di scuola. Nel 1926, in seguito al trasferimento del padre a Rapolano Terme in provincia di Siena, si trasferisce a casa dello zio Alberto a Milano dove rimane per solo un anno; nel 1927 ritorna a Rapolano Terme dalla famiglia per poi, nel 1929, ritornare nella sua città natale e terminare a Firenze gli studi presso il Liceo Ginnasio Galileo[1].

A differenza del poeta francese Charles Péguy[2] la profonda fede religiosa lo accompagnò per tutta la vita, non ebbe mai dubbi. La sua produzione poetica copre più di cinquanta anni: la sua prima raccolta in versi, La barca, è del 1935, l’ultima del 1994, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. È ormai giudizio diffuso che Luzi fu il simbolo e il massimo esponente di quell’ermetismo poetico fiorentino degli anni Trenta del Novecento. Tre sono gli elementi di fondo che connotano la poesia di Luzi:

Un’assenza e una totale distanza dalla realtà contingente.
La costante presenza di preziosismi formali tipici della poesia ungarettiana.
Un forte fervore religioso che anima continuamente e ininterrottamente la sua poesia.

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Elena Zuccaccia – Sotto i denti

Elena Zuccaccia - Sotto i denti - Pietre Vive, 2023Elena Zuccaccia – Sotto i denti Pietre Vive, 2023, con illustrazioni di Pierpaolo Miccolis

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Nistagmo cinetico, mi è venuto da pensare leggendo i primi testi di questo libro. Che è, come si sa, la naturale oscillazione degli occhi di chi osserva un paesaggio dal finestrino del treno, nel tentativo di inviare al cervello un’immagine coerente. Qui, in queste poesie, il movimento dello sguardo (anche mentale) non è tanto orizzontale quanto, direi, esercitato su un piano sagittale, che attraversa, indagando. Sono quelle strane associazioni che solo la poesia, nella sua peculiarità, riesce a suscitare: non hanno un gran valore critico e non è detto che siano esatte, ma tant’è.

Libro interessante, di buona ed immediata scrittura, che prende il titolo da un sintagma ricorrente, “sotto i denti”, qualcosa di prensile, in un certo senso di avido o – per dirla con Geninasca – di “molare”, ovvero relativo a un codice comune, condiviso, di sapere diffuso, consumabile, (“dai struttura umana ai giorni / li fai carne su cui affondare / parola per parola i denti”, c’est à dire com-prensione, smembramento, ricomposizione per via di linguaggio). E che si sviluppa in tre sezioni (nel quadro, nel buco, sotto i denti, con relativi sottotitoli, vedi oltre) in cui l’autrice sostanzialmente organizza uno spazio, che non è solo poetico ma anche dimensionale, oggettivo, uno spazio tra sé e la realtà circostante, per quanto possa apparire minimale/metafisica; uno spazio tra sé e l’altro (compresa la relazione affettiva) per quanto possa essere, appunto, un “buco”; uno spazio della assenza, della mancanza, del desiderio di ritorno, dell’ipotesi, del cercarsi “in quest’altra / linea del tempo / dove la vita si confessa”, per quanto possa essere una nostalgia immedicabile. Continua a leggere

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Volponi: un narratore incastrato nella poesia – nota di Riccardo Renzi

Volponi: un narratore incastrato nella poesiaPaolo Volponi

La prima espressione letteraria per Paolo Volponi, fu quella poetica. L’argomento della mitopoiesi sociale nel romanzo volponiano e dall’approdo alla narrativa partendo dalla poesia è stato ampiamente affrontato in molti miei saggi, tra i quali in questa sede ricordo, Mitopoiesi sociale nel romanzo volponiano. Quando i temi della lirica giovanile diventano il sostrato di una vita da scrittore, in Riscontri[1] e La narrativa in Paolo Volponi, in Avanguardia[2], meno frequentato invece è stato il suo approccio poetico.

Paolo Volponi si affacciò con prepotenza nel panorama letterario italiano di fine prima metà del Novecento a soli 24 anni, con la raccolta Il ramarro (1948)[3]. Si tratta di quaranta componimenti scritti nell’immediato dopoguerra seguendo la moda ermetica del frammento lirico paratattico[4]. Lo spazio poetico delineato per successivi bozzetti e frammenti è un microcosmo naturale che si confonde, specchio del macrocosmo dell’io poetico. A tal proposito estremamente interessanti risultano essere le parole del Volponi sulla genesi della sua poesia in A lezione da Paolo Volponi:

.Perché scrivevo poesie allora, non ancora ventenne? Perché ero incerto, perché avevo paura. Ero folgorato da certe immagini, da certe visioni, filtrate attraverso il ricordo delle letture incerte e frammentarie della scuola, che mi portavano ad avere un rapporto con fatti lontani magici perenni quali gli astri, il paesaggio, le stagioni, le tempeste o le ragazze; o certe durezze della vita di allora, anche se già toccata dalle grandi speranze della libertà e poco dopo esaltata dagli effetti della liberazione[5].

 

La poesia per Volponi fu il mezzo tramite il quale riuscì a dare una forma alle sue irrefrenabili pulsioni, si trae dunque una forma da un magma cosmico di sensazioni giovanili. È infatti notevole, e non privo delle ingenuità e della meccanicità dell’apprendistato letterario, lo sforzo di appropriarsi di alcune costanti stilistiche e linguistiche tipiche dell’usus dei poeti più maturi. Nella poesia giovanile volponiana domina il sostantivo assoluto, con sospensione dell’articolo (tipo: «Vastità che soffro», R, 59), l’analogismo sviluppato mediante coppie inconsuete di aggettivo e sostantivo ed epiteti di tipo sinestetico. Continua a leggere

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Enrico Cerquiglini – Avvisaglie

Enrico Cerquiglini - Avvisaglie - Bertoni Editore, 2023Enrico Cerquiglini – AvvisaglieBertoni Editore, 2023

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Alcuni testi tratti dall’ultima raccolta di Enrico Cerquiglini, a quindici anni dall’auto prodotto Fine attività (damnatio memoriae), che all’epoca doveva essere una specie di addio alle armi poetiche. Addio che corrispondeva forse ad una perdita di speranze nei confronti della poesia come strumento di lotta e critica, di recupero e di salvaguardia. Perché leggendo Cerquiglini, anche quando tratteggia un semplice quadro nostalgico di quella provincia geografica e dell’anima che abita, anche quando ci sembra di imbatterci in qualche tratto di ingenuità (nel senso più etimologico e onesto del termine), ci si rende conto che l’esigenza primaria di Enrico, nella sua poesia, è quella di salvare il salvabile in un mondo che non promette, anzi mantiene, niente di buono. L’area tematica di Cerquiglini è l’elemento principe da prendere in considerazione, più dello stile o della sua lingua, entrambi in un certo senso sussidiari alla prima. Si tratta del mondo che lo circonda, non quello ampio e generico, ma quello della campagna umbra, delle umanità ancora superstiti, della natura paritaria ed equanime, delle radici ancora generative, dell’ambiente sociale non del tutto estinto, del lavoro, del borgo come dimensione umana. Lo dico subito, Franco Arminio non c’entra niente. Il “paesologo” di Bisaccia appare come un venditore di matrioske, di contenitori di contenitori, non necessariamente “pieni” di qualche significato rivelante. L’esposizione del banale – o dell’ovvio e perciò inutile – inevitabilmente reca con sé la contraddizione della poesia. Anche Cerquiglini non “rivela” alcunché, se non – come si conviene al buon poeta – qualcosa che in fondo già sappiamo e che è meglio per noi non dimenticare, là dove (ed è questa la differenza) il farlo comporterebbe una diminutio di noi e una sconfitta dell’uomo. Questa specie di memento morale (o forse di avvisaglia) è preponderante rispetto a certe preoccupazioni che riguardino lo stile o il linguaggio, la prosodia o il metro, insomma è sempre più importante il cosa del come, giacché l’unica cosa da sperimentare è una memoria non volatile ma per così dire “restaurativa” , una memoria come imperativo morale e debito. E una certa “rabbia” sociale verso iniquità piccole e grandi che è anch’essa una memoria da alimentare come una lotta. Senza però niente di apodittico, senza atteggiamenti da guru de noantri. Continua a leggere

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L’arte della moda, mostra a Forlì – nota di Elisa Castagnoli

 

Giorgio De Chirico - Autunno, 1935

L’ARTE DELLA MODA, l’età dei sogni e delle evoluzioni (ai Musei san Domenico di Forlì)

L’abito è, senza dubbio da sempre stato il riflesso di un’epoca e, insieme, testimone dell’evoluzione culturale di una società da un secolo all’altro. Ancora, l’abito ritorna al centro della rappresentazione visiva nell’arte, scolpito o dipinto nei grandi ritratti da parte dei più noti artisti dal ‘700 fino all’epoca moderna nella mostra attualmente in corso ai Musei san Domenico di Forlì “L’arte della moda”. E’ ciò che coinvolge in qualche modo il corpo nelle sue forme di rappresentazione, là per dissimulare o nascondere, alludere o apertamente mostrare, incarnare simboli di potere, lo statuto e, infine, l’appartenenza a una classe sociale. All’ingresso della mostra una tela del Tintoretto è posta in maniera emblematica all’introduzione del percorso: “Atena ed Eracle” (1543). Una donna ed una dea si sfidano al telaio nell’arte raffinata della tessitura prima che Eracle venga trasformata secondo la leggenda per mano della dea in ragno simbolo del tessuto sul telaio ma anche del testo metaforicamente visto  in senso barthesiano come trama di lettere e parole nel gioco di rinvii tra significante e significato nel linguaggio. L’abito, a sua volta, nel percorso della mostra appare dall’Ancien Regime ai giorni nostri come il complesso intrecciarsi di trama e tessuto assumendo connotazioni distintive e simboliche per ogni epoca, ciò che noi definiamo in senso ampio moda. Rintracciando la storia della sua evoluzione attraverso le rappresentazioni che ne ha dato l’arte dal secolo XVIII ad oggi ripercorriamo il processo che ha condotto il corpo, soprattutto quello femminile, verso la modernità, vale a dire la liberazione della donna dagli stereotipi e le rigide convenzioni sociali sulla via dell’individuazione, della libertà o dell’espressione in senso proprio. Continua a leggere

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Ardengo Soffici: un’adesione incompleta – nota di Riccardo Renzi

Ardengo Soffici_Autoritratto_1946_49Ardengo Soffici: un’adesione incompleta

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Ardengo Soffici fu uno degli intellettuali più importanti e controversi del primo Novecento italiano. Nato a Rignano sull’Arno il 7 aprile 1879 da una famiglia di benestanti proprietari terrieri, nella primavera del 1893 si trasferì a Firenze con i suoi e assistette, senza nulla poter fare, alla rovina finanziaria del padre che condusse la famiglia alla povertà. A causa della precaria situazione economica della sua famiglia, fu costretto ad abbandonare gli studi artistici e letterari, e ad andare a lavorare presso un avvocato fiorentino[1]. Non abbandonò però il suo amore per l’arte, in quegli anni infatti strinse stretti rapporti con i giovani artisti che si muovevano intorno all’Accademia delle Arti e alla Scuola del Nudo. Dopo la morte del padre e il trasferimento della madre a Poggio a Caiano, egli decise, sul modello di alcuni suoi amici artisti di trasferirsi a Parigi[2]. Qui, Soffici lavora come illustratore su riviste importanti come L’Assiette au Beurre. La paga è misera e conduce una vita di stenti e rinunce. Qui però ha la possibilità di incontrare artisti emergenti e già affermati come Guillaume Apollinaire, Pablo Picasso e Max Jacob[3]. Inoltre qui iniziò a scrivere su riviste di primissimo livello e fece importanti incontri anche con gli artisti e scrittori italiani, come Giovanni Vailati, Emilio Notte, Mario Calderoni, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, con il quale, nonostante la diversità di carattere, al ritorno in Italia stringerà una forte amicizia. Proprio in questo periodo inizia a sorgere il Soffici scrittore. Dopo essere rientrato a Firenze nel 1907 e stabilitosi a Poggio a Caiano, egli consolidò la sua amicizia con Papini, che incontrava al caffè Paszkowski. Di quell’epoca è anche l’amicizia con Giuseppe Prezzolini, col quale fondò La Voce nel 1908[4]. Nel 1910 Soffici ritornò a Parigi per studiare la poesia di Rimbaud, poeta quasi sconosciuto in quel periodo in Italia. Tornato in patria nel 1911 si scontrò con il movimento futurista per le grandi differenze di vedute. Nel corso del 1912 Soffici riaprì i rapporti con i futuristi e iniziò ad allontanarsi sempre di più da Prezzolini per la modalità scientifica con cui egli dirigeva la rivista La Voce, che assieme avevano fondata[5]. Così il 1º gennaio 1913 Soffici, insieme a Papini, fondò la rivista Lacerba, che divenne l’organo ufficiale del futurismo. Nel 1915 giunse la guerra, che Soffici aveva con forza auspicato sui fogli del Lacerba come reazione contro la “Kultur” germanica. Egli vi partecipò. Conclusa la guerra Soffici divenne collaboratore de Il Popolo d’Italia, del Corriere della Serae di Galleria[6]. Col passare degli anni lo stile del Soffici mutò radicalmente, dai grandi elogi alla poesia rimbaudiana si andrà verso uno stile decoroso e foscoliano classico, e in politica aderisce al fascismo. Nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti, e l’anno dopo iniziò la sua collaborazione a L’Italiano di Leo Longanesi. Ricevette il “Premio Mussolini” dell’Accademia d’Italia per la pittura nel 1932[7]. Nel 1937 si allontanò definitivamente da Mussolini, ma rimase fedele al regime sino alla sua caduta. Continua a leggere

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Stefano Lorefice – Passeggeri solitari

Stefano Lorefice – Passeggeri solitariEdizioni La Gru, 2023Stefano Lorefice - Passeggeri solitari - Edizioni La Gru, 2023.

A circa dodici anni dalla pubblicazione (v. QUI) di Frontenotte (Transeuropa, 2011) Lorefice torna a scrivere poesia e mi manda questo Passeggeri solitari, per lui, come mi scrive, “un libro denso”. Dodici anni sono parecchi, un lasso di tempo che per un autore vuol dire una forte riflessione o un forte disillusione. Entrambe le cose possono portare a un ripensare il proprio lavoro e, volendo, a notevoli esiti poetici. Ma, di un autore di cui si è già parlato, difficile non andare a rileggere quanto si è scritto a suo tempo. Frontenotte e prima di esso L’esperienza della pioggia (Campanotto 2006) avevano a mio avviso evidenziato alcuni elementi di interesse, con una possibile proiezione al futuro:

a.una “presenza” dell’autore, anche nel senso barthesiano del termine, che si esplicava sia nella scrittura che nell’altro linguaggio caro a Stefano, la fotografia (v. soprattutto QUI), e che permetteva una sinergia tutta a favore “della osservazione sociale disincantata e insieme dolente, della constatazione della progressiva riduzione dell’uomo a nullità identitaria isolata, della stramatura di un tessuto per lo più urbano in cui l’indifferenza dei più è temperata per quanto possibile dall’occhio (e dalla voce) cosciente dell’autore, che in qualche modo la interpreta”
b.come scrivevo, “un’altra certificazione di presenza, la presenza dell’indeterminato, dell’irrappresentabile anche politicamente, della massa anonima senza peso per “i lupi / dell’unica democrazia / che conosciamo”, che stava nelle ombre delle foto così come negli spazi vuoti della scrittura
c.(mi cito ancora) “il suo stile, scarno, disincantato, senza patetismi, con un corredo lessicale quasi giornalistico, poca prosodia e abbastanza prosa, con una aritmicità che segnala bene il disincanto, la disillusione, l’impotenza con cui l’autore registra gli eventi, le casualità, soprattutto quando le casualità sono i relitti di una realtà urbana che ormai non ha più niente di eccezionale, ma appartiene semplicemente ai nostri tempi”. Si individuava anche un tema per così dire politico, in un embrione di coscienza di un mutamento, un esondare della realtà verso una “periferia centrale” che coinvolge tutti, a cominciare dall’autore, nei fenomeni della realtà contemporanea
d.c’era anche un “luogo”, identificato, urbano o meno, perfino confortevole nella sua realtà anche brutta ma vera, un luogo anche “interno” come lo era il corpo ne L’esperienza della pioggia. Un luogo non parcellizzato, sebbene spalmato sugli sketches costituiti dai singoli testi, dagli oggetti, gli eventi, i personaggi incrociati in quello che poteva sembrare un vagabondare per città, luoghi casuali, incroci di vite
e.parlavo anche, infine, di “linguaggio vicino alla velocità del pensiero e, insieme, oggetto di consumo come i colori per un pittore, che contiene in sè la pennellata, lo scarto poetico”.

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Baudelaire e Les fleurs du mal: un legame inscindibile, nota di Riccardo Renzi

Charles BaudelaireBaudelaire e Les fleurs du mal: un legame inscindibile

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Pensando alla letteratura francese dell’Ottocento, la prima figura che verrebbe in mente ad un medio lettore, nel 90% dei casi è quella di Charles Pierre Baudelaire. Ma perché proprio Baudelaire? Perché la sua figura ha ormai subito una canonizzazione all’interno dei vari sistemi scolastici europei e da cinquant’anni a questa parte e impressa nella memoria dei più. A tutto ciò si aggiunga che il suo spirito rivoluzionario lo rende assai attraente, in particolar modo appetibile per ragazzini in piena età dello sviluppo[1], con la loro voglia innata di cambiare il mondo.

Baudelaire nacque a Parigi, in Francia, il 9 aprile 1821 in una casa del quartiere latino, in rue Hautefeuille nº 13, e venne battezzato due mesi dopo nella chiesa cattolica di Saint-Sulpice. Il padre si chiamava Joseph-François Baudelaire. Era un ex-sacerdote e capo degli uffici amministrativi del Senato, amante della pittura e dell’arte in genere, e come prima moglie ebbe Jeanne Justine Rosalie Jasminla, dalla quale ebbe Claude Alphonse Baudelaire, fratellastro del poeta. La madre di Charles era la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays, sposata da Joseph-François dopo la perdita della prima moglie[2]. Suo padre morì quando egli aveva soltanto sei anni e il matrimonio della madre, che si risposò poco dopo, determinò in lui una profonda sofferenza destinata a durargli tutta la vita, camuffata spesso da cinismo e spavalderia. Dopo aver conseguito la licenza liceale, Baudelaire cominciò una vita sregolata; il patrigno, il generale Auspick, sperò di ottenere un cambiamento persuadendolo ad un viaggio nelle isole dell’Oceano Indiano, ma al suo ritorno, ormai maggiorenne, Baudelaire riprese la vita stravagante, dissipò rapidamente il patrimonio ereditato dal padre, si avvilì sempre di più nell’alcool, nella droga, nella frequentazione di ambienti malfamati e di personaggi sempre più equivoci. Per vivere fu costretto a fare i più strampalati lavori, ma continuò sempre a scrivere e a lavorare per giornali e case editrici. Agli inizi del 1857 pubblicò I fiori del male, raccolta che gli procurò subito un processo per alcune liriche considerate immorali,fu dunque, pubblicato in seconda edizione, riveduta e purgata, nel 1861. L’opera non ebbe risonanze e il poeta, amareggiato e prostrato nel fisico e nel morale, si allontanò da Parigi la cui atmosfera gli era diventata insopportabile, e andò a vivere a Bruxelles[3]. Il cambio di città non gli giovò, nel 1866 ebbe il primo attacco di paralisi e l’anno dopo morì in una clinica di Parigi[4]. Continua a leggere

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Paesaggio, sentieri battuti e nuove prospettive – nota di Elisa Castagnoli

Mario Schifano - Ninfee, 1977Paesaggio, sentieri battuti e nuove prospettive (riflessioni a partire dalla mostra al Museo Civico di Bagnacavallo)

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Una lettura contemporanea sul tema del paesaggio reinterpretato nelle arti visive oggi, tale la riflessione che emerge dall’esposizione appena conclusa al Museo Civico delle Cappuccine in provincia di Ravenna, “Paesaggi”, pensata come “un percorso stilistico e tematico”, volutamente non cronologico, vale a dire una vera e propria passeggiata esplorativa di ispirazione potremmo dire quasi calviniana tra sentieri battuti e nuove prospettive per rivisitare tale tema intramontabile dell’arte. Citando Calvino non possiamo non richiamare alla mente la figura del labirinto presente in molte delle sue opere come percorso reticolare dal quale diramano molteplici vie o storie, ipotetiche combinazioni di eventi aleatori o percorribili dall’immaginazione che si tradurranno o meno nella realtà della pagina scritta. Da una parte, tale struttura labirintica incarna un modo di leggere il mondo contemporaneo rifiutando visioni troppo semplicistiche che continuano a reiterare le nostre “abitudini di visione”. D’altro lato, il piacere di perdersi nel labirinto diviene la possibilità di tuffarsi in forme non ancora esplorate della rappresentazione , quel caos apparente che comincia ad assumere senso vagandoci attraverso senza trovarne subito una via d’uscita: la sfida al labirinto ma non la sua resa incondizionata.

Passeggiare, spostarsi, divagare da un paesaggio all’altro potrebbe, allora, divenire una chiave d’accesso per questo percorso sfaccettato e multiplo di visioni contemporanee dal figurativo all’astratto, dal realistico all’onirico, dalla predilezione per il paesaggio naturale nel filone appena conclusosi alla mostra a quello invece più propriamente urbano che sarà al centro della seconda parte prevista per la fine del 2023. Tecniche e sensibilità si intrecciano e si contaminano nell’espressione degli artisti contemporanei abbattendo barriere di stili e generi o le grandi avanguardie estetiche dell’epoca moderna. Il percorso si apre a questo proposito come esplorazione del paesaggio nel ventesimo secolo con una sala dedicata ad alcuni artisti noti che hanno segnato la strada ad inizio ‘900 tracciando linee-portanti dalla metafisica post-futurista di Carlo Carrà alle periferie urbane asettiche e grigie di Sironi alla sperimentazione dell’ “action painting” di Mario Schifano, infine alle acqueforti di Giorgio Morandi o la “Black city” astratta di Congdon esposta a New York nel 1949. Le sezioni principali della mostra sono poi raggruppate in maniera tematica attraverso la scelta dei tre elementi portanti del mondo naturale: l’acqua, l’aria e la terra mentre si scorre agevolmente da una generazione all’altra di artisti, dal realismo al surrealismo pittorico, dalla fotografia all’astrazione, dall’incisione, all’arte informale. Particolare interesse desta, infine, la sezione conclusiva denominata “Il sogno del paesaggio” dove il cerchio spazio-temporale del percorso si chiude esplorando tecniche e sensibilità differenti per opere che spaziano liberamente nel panorama variegato dell’arte attuale. Continua a leggere

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