Agustín García Calvo – Sonetti teologici

Agustín García Calvo - Sonetti teologiciAgustín García Calvo – Sonetti teologici – L’Arcolaio, 2019

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Un libro non si perde mai del tutto. Neanche ciò che vi è contenuto. Si ritrova il libro, si capisce il senso di certe cose. Un buon mezzo per ritrovare un libro è cercare di mettere ordine in quelli che hai sparsi per casa. Un libro che ti è stato inviato in saggio, magari, forse con una dedica amichevole o affettuosa. Così ieri ho ritrovato un libretto tanto smilzo quanto denso, che risale al 2019, “per Giacomo, con la stima di sempre”. La firma è racchiusa tra due “signos de interrogación”, due punti interrogativi come fanno gli spagnoli, ed è quella di Lorenzo Mari. Non credo di avere fatto caso all’epoca, pur avendo letto il libro, a quella domanda esplicita. In spagnolo ci sono quei due segni che racchiudono una frase interrogativa perché gli spagnoli non amano che ci siano dubbi sul fatto che si tratta proprio di una domanda(non è del tutto vero, ma mi piace pensarlo).

Il libro in questione è “Sonetti teologici” di Agustìn Garcìa Calvo. Calvo è stato un importante filosofo, poeta, traduttore e filologo spagnolo, oppositore della dittatura franchista, “maestro” di Fernando Savater, filosofo noto anche da noi; Mari è poeta, traduttore (ottimo) e curatore di questo libro, nonché una vecchia conoscenza di questo blog (v. QUI). Leggo che era proprio abitudine di Calvo firmarsi con i “signos de interrogatión”. Ecco spiegato l’autografo di Mari, un ammiccamento che mi dispiace di aver colto solo dopo tanto tempo.

I sonetti in realtà sono solo due, ma preziosi e esaurienti, alla luce della visione filosofica di Calvo che sia Mari nella prefazione sia lo stesso Calvo in una intervista riportata nel volumetto esprimono chiaramente (entrambi gli scritti, va detto, sono assai illuminanti e fanno da degno castone ai due sonetti, anzi già da soli valgono l’acquisto dell’opera). Continua a leggere

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Alberto Burri, “BurriRavennaOro”, al Mar di Ravenna – nota di Elisa Castagnoli

Alberto Burri - Grande ferro R (1990)A proposito di “BurriRavennaOro”, al Mar di Ravenna

Alberto Burri, artista dal linguaggio poliedrico e assolutamente originale di cui non possiamo non ricordare le composizioni nei materiali più desueti come il catrame, i sacchi di tela juta, le plastiche e le loro combustioni approda al Mar di Ravenna con una monografia esclusiva, BurriRavennaOro, una selezione di opere ispirate alla cultura musiva della città in concomitanza con la parallela Biennale di Mosaico Contemporaneo in corso. Tra le cento opere in mostra la serie di tele denominate “Nero e Oro” (1993) attraverso la quale Burri rende omaggio in una sua interpretazione informale e prettamente materica alla grande tradizione degli ori bizantini mentre con il ciclo “San Vitale” realizza grandi monocromi neri in cellotex cercando una via per trarre quella stessa luce intrinseca da sempre ai mosaici ravennati partendo da una valenza cromatica come il nero, in sé stessa priva di luce. Altrove, infine, pone al centro il contrasto netto tra l’oro e il nero, l’ombra e la luce. In questa stessa prospettiva si affiancano le serie di opere grafiche incentrate sull’ astrazione del segno ma ugualmente immerse in una grande potenza cromatica. Il nome dell’artista resta inoltre legato alla città attraverso l’opera in esterno al Palazzo Mauro de André del “Grande ferro R” (1990) dove la propulsione della materia riemerge nel metallo in vernice arancio plasmato come un grande antro architettonico_ una gigantesca falange uncinata_ nella più grande libertà espressiva dell’artista. Continua a leggere

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Paolo Artale – Conversazioni in giardino

Paolo Artale – Conversazioni in giardino – Contatti Edizioni, collana BLU 77, 2022

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Pubblico di seguito alcuni testi tratti dall’ultima raccolta di Paolo Artale, uscita nel 2022 per Contatti Edizioni. Un poeta della Natura, sembrerebbe di primo acchito, che quanto meno considera la natura (da qui in avanti con la minuscola, per ragioni che forse vedremo) un rispettabile interlocutore, qualcosa con cui sia possibile, appunto, intavolare una conversazione. Di per sé questa prima (banale) considerazione ci riporterebbe di corsa in un alveo letterariamente antichissimo, a cominciare, almeno alle nostre latitudini, dall’omerico giardino di Alcinoo, se non prima (e poi Lucrezio, Plinio, Virgilio ecc.). Fino (siamo, a tutt’oggi, negli strascichi del Novecento) a nomi impossibili da non ricordare, come Pierluigi Bacchini (poeta della natura filosofica per eccellenza), o Andrea Zanzotto (poeta del paesaggio “latente, inscritto sul rovescio”, metaforico), o anche Mario Luzi, e via tralasciando (ad es. certi poeti francesi/francofoni come Stétié, Jourdan, Jaccottet, Bonnefoy).

Tuttavia Artale di tutte queste eredità un po’ prende un po’ lascia, lavora sul linguaggio, specie nella prima parte del libro, (forse in questo più simile a Zanzotto che agli altri), tiene risolutamente a bada quel che di lirico potrebbe spuntare dal tema, ché giustamente sarebbe postdatato e perciò imperdonabile, spesso ricorrendo allo scopo ad un “indurimento” della parola, all’uso di termini tecnici, ossuti o spigolosi, ad una lingua che tende ad intellettualizzare il discorso. In questo senso la “conversazione”, quanto il titolo, è leggermente fuori fuoco, offset, in quanto la natura (sì, ecco, minuscola) qui pare forse parlare poco e ascoltare con pazienza molto, spesso ridotta a segnacoli, nomi di cose (questo soprattutto nella sezione Ultime foglie sugli alberi, v. un esempio più avanti). Voglio dire, l’uomo (e il poeta) riempie la natura di eloquio (e non solo di logos, come ha notato qualcuno), e in sostanza, biblicamente, se ne appropria, la invade. Tuttavia la natura è nel contempo luogo d’elezione del pensiero, esiste anche un po’ perché il pensiero meditativo la “realizza”, la concretezza delle cose naturali che ospita e che il poeta cita per nome è come un cippo stradale, una testimonianza del reale. Nello stesso modo la natura (sempre minore perché sempre – qui – ancillare all’io, anche quando non liricamente presente) è simbolo di un sistema di segni tradizionalmente leggibili e quindi antagonista di un mondo complicato, quello dell’uomo, che il linguaggio tenta di penetrare. Il linguaggio è l’uomo, il poeta. Il linguaggio avrebbe (e forse è questo il tema nascosto del libro) un percorso rizomatoso da fare, proprio in senso deleuziano, per uscire dalla bolla della complessità del mondo verso un spazio “altro”, vivibile, “democratico”, tornare per assurdo ma senza nostalgie a “il tempo delle piante senza nome / proprio o / dell’acqua collocata altrove”. Continua a leggere

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After BIL 2023: Stefano Baldinu, tre poesie

Stefano BaldinuBologna in Lettere 2023 – Segnalati sez. C: Stefano Baldinu

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Come giuria della sezione C (poesie inedite) di Bologna in Lettere 2023 abbiamo anche il compito di stendere le motivazioni dei premi (o delle segnalazioni, come in questo caso). Pubblico anche qui, insieme ai testi, quelle di cui sono autore. – 2 Stefano Baldinu.

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Una voce intensamente lirica, quella di Stefano Baldinu, ma di un lirismo per così dire conservativo, come la lingua che usa, il logudorese, una delle espressioni più significative e letterarie della lingua sarda, aspro e insieme musicale, con le sue contaminazioni castigliane. Dire conservativo non comporta nessuna sfumatura di demerito, significa piuttosto dare credito a Baldinu di una sensibilità in via di estinzione, nutrita di attenzione per le cose e le persone, per i momenti e le storie anche semplici di una umanità apparentemente minore e tuttavia emblematica, che nei versi di Baldinu tende ad assumere delle sembianze angeliche, ad essere portatrice di una ingenuità quasi fanciullesca e perciò pura. Personaggi come Marcu o Miali (Michele) sono i “semplici” o forse i folli che in un cortile o in una domenica di periferia, con i loro semplici gesti si avvicinano a qualcosa, intravedono come Giacobbe qualcosa di mistico, diventano proiezioni appunto angeliche dell’autore che, in quello stesso cortile e come loro, cerca una presenza nelle cose o tra “le pagine inesistenti di un sussidiario di felicità”, un contatto “cun sos poddighes de Deu”, con i polpastrelli di Dio (ed ecco una bella suggestione michelangiolesca).

Linguaggio e tema in Baldinu sono quanto mai aderenti, pur apparendo in qualche modo antagonisti: l’uno è ricco e articolato, capace di costruire in lunghe ipotassi immagini e analogie efficaci, l’altro trova in questo tipo di costruzione l’agio e il fiato per sviluppare la sua doppia semplicità, quella di “fatto” in sé e quello di “idea” poetica e sentimentale che il fatto incarna e giustifica. Idea (e convinzione direi) di una spiritualità come valore poetico assoluto, come manifestazione quasi epifanica ma quotidiana di una costante nella sua vita. Nella terna presentata Baldinu nomina il nome di Dio tre volte ma non invano: c’è, è una presenza quasi consueta e “naturale”, è familiare non meno di Marcu o Miali (o Stefano) che nei cortili stanno lì “a abbaidare s’ortografia impretzisa de s’immensu”, ad osservare l’ortografia inesatta dell’immenso. (g. cerrai)

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After BIL 2023: Andreina Trusgnach, tre poesie

Bologna in Lettere 2023 – Segnalati sez. C: Andreina Trusgnach

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Andreina TrusgnachCome giuria della sezione C (poesie inedite) di Bologna in Lettere 2023 abbiamo anche il compito di stendere le motivazioni dei premi (o delle segnalazioni, come in questo caso). Pubblico anche qui, insieme ai testi, quelle di cui sono autore. – 1 Andreina Trusgnach

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Non sono infrequenti in questa sede poeti di lingua slovena o che nello sloveno trovano una ulteriore e accogliente casa poetica (ricordo ad esempio Antonella Bukovaz, un’altra friulana segnalata lo scorso anno). Un rapporto non minoritario con l’italiano letterario nel quale la poesia non viene meramente “tradotta” ma trova una feconda corrispondenza, una rilettura. Quella che Andreina Trusgnach, da Cividale del Friuli, ci presenta nella terna segnalata qui a Bologna è una poesia che potremmo definire senza tanti giri di parole anticontemporanea, proprio nel suo riferirsi ad un canone italiano novecentesco anche illustre, con i suoi consolidati modi e stili, soprattutto su un registro assolutamente lirico. Trusgnach se ne appropria con una certa decisione, lo introietta, dà l’impressione di avere fede che lo stile e l’idea stessa di poesia coincidano, non possano che essere “naturalmente” così, non esposti all’usura dei tempi o alle mode. Questo anche in ragione di un preciso orizzonte poetico, quello di uno sguardo intimo sulle cose, di un pensiero contemplativo attivato da semplici simboli, per lo più oggetti, foglie, fiori, il vento, che fanno da specchio all’autore, non possono che essere connotati malinconicamente, illuminati da una luce a volte grigia, a volte accesa da una mite fiducia che “la vita va comunque avanti”. Qui temi e stile coincidono in maniera indefettibile, leggendo si immagina un paesaggio forse montano, un tempo rallentato e senza scosse, giornate forse irrisolte e il linguaggio coerentemente vi si sovrappone, per selezione e combinazione, per assunti e costruzioni lineari e limpide. Trusgnach testimonia, in un certo senso, che non c’è necessità di contrastare, con la lingua o la forma o la ricerca, questa lieve energia poetica che giustifica i suoi versi, dà loro uno spazio in una corrente della poesia nostrana che non ha nessuna intenzione di arrendersi. (g. cerrai)

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Laura Liberale – Unità stratigrafiche, nota di Claudia Mirrione

Laura Liberale - Unità stratigraficheUnità stratigrafiche di Laura Liberale – Nota critica di Claudia Mirrione

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1.Stratigrafie perturbanti


i morenti se ne vanno

facendo sbattere finestre a chilometri di distanza

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al fremito dei vivi rispondono:

se ci sentiste dentro anziché fuori

(nel sangue che rallenta

nel fiato che s’ingorga nella gola)

sarebbe forse minore lo spavento?

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Un libro che disquieta questo di Laura Liberale – vincitore del Premio Bologna in Lettere 2021 per la sezione A (opere edite) – e di cui riteniamo opportuno parlare per l’interesse e soprattutto per l’impatto che suscita nel lettore, vuoi per il piglio talora specialistico con cui affronta l’argomento (la scrittrice è indologa e tanatologa), vuoi più probabilmente per gli effetti disturbanti che esso ingenera e lascia a decantare, ad aggiungersi così al nostro già orrorifico immaginario, conscio, inconscio. Continua a leggere

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Andreas Gursky: spazi visivi di oggi, nota di Elisa Castagnoli

Andreas Gursky: spazi visivi di oggi (al Mast di Bologna)

Per la prima volta in Italia Andreas Gursky, l’artista tedesco che ha cambiato il volto della fotografia creando icone contemporanee del nuovo capitalismo globale espone in questi giorni al Mast di Bologna con immagini che spaziano dai primi lavori alle creazioni più recenti. Di vere e proprie composizioni visive, infatti, si tratta per opere di grande formato elaborate in post-produzione dove Gursky unisce alla visione prospettica ad ampio raggio la messa a fuoco precisa e dettagliata su ogni singolo soggetto facendo della fotografia un’esperienza da vivere, insieme fisica, mentale ed emotiva sul mondo di cui siamo parte.

La selezione fotografica spazia dalle prime opere come Salerno (1990), alle ultime come Salinas (2021) facendosi interprete, attraverso le sue più iconiche rappresentazioni dell’era globale dell’ascesi della new economy fino alle sue implicite derive e contraddizioni. Le immagini abbracciano, tuttavia, in tale ottica, non solo i processi di produzione e consumo attuali  ma anche singolari scorci su paesaggi naturali di origine millenaria. Particolare interesse ricopre nel lavoro di Gursky l’idea di collettività, il modo in cui i soggetti funzionano come moltitudine nella società, come le strutture sociali e collettive influenzano i nostri comportamenti e dunque la nostra produzione o fruizione di immagini. Spesso si tratta di visioni immense che prendono corpo sulle pareti della galleria con un uso del colore denso, pieno, quasi saturante, dove la prospettiva pur nella distanza permane nitida per effetto del montaggio di diverse immagini. Continua a leggere

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Rinascere nell’umano: Ballate di Lagosta di Christian Sinicco, nota di Claudia Mirrione

Rinascere nell’umano: Recensione a Ballate di Lagosta di Christian Sinicco

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Lo scrittore con la sigaretta si è seduto

come te ne sei andata

-L’America non si sa mai da che molo partì,

i suoi immigrati e le sue carte sono in vendita sulle pietre:

compra le fotografie, comprale sbiadite,

compra i centrini, la rakija,

nei palazzi dell’imperatore o al porto

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con la bocca giri una sigaretta:

senza sapere se vincerai

illudi nuvole, calci nel rosa– nella Torcida

c’è ancora l’eco della partita dell’Hajduk,

sui palazzi bianchi e blu

le rarefazioni incistite dei Balcani

ripagano il cielo sempre più rosso;

e sulle bancarelle, tra le voci del mercato,

suona, risuona la scritta sulle magliette

Gorotovina heroj!

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In questo testo di Ballate di Lagosta (Donzelli Editore 2022)– si tratta della seconda sezione di Canzone di Spalato – si trovano già i due temi prettamente politici che attraversano l’intera opera: la dissoluzione della ex-Jugoslavia verificatasi alcuni anni dopo la caduta del muro di Berlino, e la questione delle migrazioni – nel testo menzionato si allude a quelle novecentesche, ma la silloge presenta rimandi espliciti anche alle recenti tragedie del Mediterraneo. Il Mediterraneo e i Balcani, infatti, sono i due fuochi attorno a cui si muove l’intera raccolta che, uscita nel 2022, ha riscosso il plauso della critica italiana, risultando finalista in diversi premi letterari italiani e, soprattutto, nella cinquina del Premio Strega Poesia, e aggiudicandosi recentemente il Premio Poesia Onesta 2023. Continua a leggere

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Leopoldo Maria Panero – Contro la Spagna e altri poemi non d’amore

Leopoldo Maria Panero – Contro la Spagna e altri poemi non d’amore – Nessuno editore, 2020 – trad. di Antonio Bux

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Un post su FB dell’amico Antonio Bux mi ricorda che questo libro ce l’ho, me l’ha certo mandato lui. Grosso modo dovrebbe essere ad altezza di ginocchio nella pila di volumi che purtroppo ho lasciato accumulare nel tempo. Lo cerco. Insomma un repêchage.

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L.M. Panero (1948-2014) un anarchico nichilista, se non per ideale politico certo per convinzione intima e filosofica, un poeta che come pochi ha riscattato dal luogo comune l’aderenza della scrittura alla vita e viceversa. Il che ha voluto dire attraversare per decenni l’amata odiata Spagna e i suoi rivolgimenti politici e sociali, passare per la droga, l’alcoolismo, 14 anni di manicomio orrendo, esperienze di tutti i generi senza mai smettere di scrivere, anzi travasando nella scrittura queste vicissitudini. Nella sua poesia c’è tutto questo e molto di più, che ne fa uno degli autori più rappresentativi (e scomodi) della poesia iberica contemporanea. Come scrive benissimo Antonio Bux nella prefazione, la sua è “poetica impregnata di rimandi storici, letterari e mitici, [a cui] fa da contraltare una quotidianità fatta di morte, sangue e desiderio, dove il poeta si regge in bilico tra ciò che è vero (il bene) e ciò che è reale (il male). Così è la vita stessa di Panero a trasformarsi nella sua opera, quella di un uomo che si pone l’eterno interrogativo di chi sia la vittima o il carnefice, il vincitore o il vinto, però sostenuto sempre dalla fede nel puro nulla in cui sacrificalmente scivolare, con la consapevolezza del proprio desti-no. Eppure nelle sue poesie si potrà anche cogliere il barlume di una rivendicazione al divino, evocato dall’oscurità metaclassica che in Panero è risonanza allucinata del passato, quasi una radiazione che trascende i luoghi del vivere (famiglia, carcere, manicomio) e che è a suo modo una forma di preghiera, di sottomissione del reale al mito, tuttavia vilipesa dal sostrato inferiore dove l’autore dapprima si riflette, poi affonda presagendo la barbarie, l’eterna umana sconfitta; come accade nella pittura di Francis Bacon, dove lo scavo per sottrazione porta impietosamente al punto di partenza, tra quelle radici da cui uscimmo urlanti”. Ed è per tutto questo che i versi di Panero restituiscono al lettore un’inquietudine antica e moderna insieme, l’incertezza dell’individuo, la solitudine di fronte al nulla, il costo delle scelte, la brutalità di certi accidenti della vita, tutte cose che in fondo non sono affatto singolari e riguardo alle quali ci si illude di essere al sicuro, di essere osservatori defilati. (g.c.)

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Poesia e intelligenza artificiale: due o tre cose – nota di G. Cerrai

A partire da: Vincenzo Della Mea – Clone 2.0Samuele editore, La gialla di Pordenonelegge, 2023 (ma questa non è una recensione)

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Leggo di questa opera di Vincenzo Della Mea, presentata come una novità o forse una innovazione, creata utilizzando l’intelligenza artificiale (AI) di GPT-2. Leggo nella nota editoriale: “Vincenzo della Mea ha usato GPT-2, prima “addestrandola” introducendo circa 12.000 poesie (ma anche testi di informatica e di neuroscienze) lasciandola poi libera di creare poesia. La seconda fase è stata eliminare da questa super produzione le poesie che avevano troppi debiti o errori grammaticali, tramite dei software progettati dallo stesso autore umano, e infine scegliendo tra le rimanenti secondo il gusto dell’autore umano”. Tralascio le considerazioni presenti nella stessa nota, che magari vediamo dopo. Questo il fatto, di cui dobbiamo prendere nota, anche se la prima reazione l’ho espressa in un commento, una battuta, su FB (“Bravi, ora chiedete a GPT anche la recensione”). Ma dobbiamo trarne qualche lettura, se non altro per il fatto che secondo me si tratta di un brandello neanche tanto piccolo di quella complessità di cui si discute in diverse sedi.

La prima cosa che viene in mente, forse, sono i riflessi di questa faccenda sul concetto (primario nel campo dell’arte) di autore. Con una certa astuzia (o modestia) Della Mea parla di sé come “autore umano”, cioè fa un passo di lato, che però è quello del demiurgo asimoviano che dà l’input e controlla che la macchina svolga in maniera soddisfacente il suo compito. Se autore, in etimo, è colui che aggiunge, che fa crescere qualcosa, che inventa qualcosa che accresce il mondo, certo Vincenzo in questo caso lo è. Lo è perché ha le competenze, anche informatiche, per creare o adattare uno strumento, ha le competenze per gestire un’idea, un paio delle cose che deve avere un artista per crearne un’altra. Idea tra l’altro di per sé non nuovissima, in letteratura, pensando a Balestrini (Tape Mark I, 1962), a Silem Mohammad e il suo “googlism”, ecc. Ma già nel 1952 Christopher Strachey, un amico di Alan Turing, aveva creato un programma che scriveva lettere d’amore con una lista di lemmi tratti da un Thesaurus e andrebbe anche ricordato Theo Lutz che nel 1959 a Stoccarda, usando un computer Zuse S22 produsse delle poesie (Stochastische Texte) attingendo a frammenti del romanzo Il castello di Kafka. La storia è lunga, mi fermo qui ma bisognerebbe citare almeno H.M. Enzensberger (Poesie-Automat, 1974-2000) e, a livello di pensiero, il Calvino del saggio Cibernetica e fantasmi (1967).

E nelle arti visive o plastiche non è andata diversamente, in questo tentativo di “intrusione” umano/artefatto: dal ready made (in fondo anche l’AI fornisce un “prodotto” pronto) fino al NFT (come “firma” certa di un prodotto “incerto”) passando per opere come ad es. Edmond de Belamy, un ritratto creato dal collettivo Obvious (che nemmeno sono artisti) usando una rete neurale (e venduto a 432500 dollari!). Idem per la musica, non sto a fare nomi. Continua a leggere

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