After BIL 2023: Stefano Baldinu, tre poesie

Stefano BaldinuBologna in Lettere 2023 – Segnalati sez. C: Stefano Baldinu

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Come giuria della sezione C (poesie inedite) di Bologna in Lettere 2023 abbiamo anche il compito di stendere le motivazioni dei premi (o delle segnalazioni, come in questo caso). Pubblico anche qui, insieme ai testi, quelle di cui sono autore. – 2 Stefano Baldinu.

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Una voce intensamente lirica, quella di Stefano Baldinu, ma di un lirismo per così dire conservativo, come la lingua che usa, il logudorese, una delle espressioni più significative e letterarie della lingua sarda, aspro e insieme musicale, con le sue contaminazioni castigliane. Dire conservativo non comporta nessuna sfumatura di demerito, significa piuttosto dare credito a Baldinu di una sensibilità in via di estinzione, nutrita di attenzione per le cose e le persone, per i momenti e le storie anche semplici di una umanità apparentemente minore e tuttavia emblematica, che nei versi di Baldinu tende ad assumere delle sembianze angeliche, ad essere portatrice di una ingenuità quasi fanciullesca e perciò pura. Personaggi come Marcu o Miali (Michele) sono i “semplici” o forse i folli che in un cortile o in una domenica di periferia, con i loro semplici gesti si avvicinano a qualcosa, intravedono come Giacobbe qualcosa di mistico, diventano proiezioni appunto angeliche dell’autore che, in quello stesso cortile e come loro, cerca una presenza nelle cose o tra “le pagine inesistenti di un sussidiario di felicità”, un contatto “cun sos poddighes de Deu”, con i polpastrelli di Dio (ed ecco una bella suggestione michelangiolesca).

Linguaggio e tema in Baldinu sono quanto mai aderenti, pur apparendo in qualche modo antagonisti: l’uno è ricco e articolato, capace di costruire in lunghe ipotassi immagini e analogie efficaci, l’altro trova in questo tipo di costruzione l’agio e il fiato per sviluppare la sua doppia semplicità, quella di “fatto” in sé e quello di “idea” poetica e sentimentale che il fatto incarna e giustifica. Idea (e convinzione direi) di una spiritualità come valore poetico assoluto, come manifestazione quasi epifanica ma quotidiana di una costante nella sua vita. Nella terna presentata Baldinu nomina il nome di Dio tre volte ma non invano: c’è, è una presenza quasi consueta e “naturale”, è familiare non meno di Marcu o Miali (o Stefano) che nei cortili stanno lì “a abbaidare s’ortografia impretzisa de s’immensu”, ad osservare l’ortografia inesatta dell’immenso. (g. cerrai)

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After BIL 2023: Andreina Trusgnach, tre poesie

Bologna in Lettere 2023 – Segnalati sez. C: Andreina Trusgnach

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Andreina TrusgnachCome giuria della sezione C (poesie inedite) di Bologna in Lettere 2023 abbiamo anche il compito di stendere le motivazioni dei premi (o delle segnalazioni, come in questo caso). Pubblico anche qui, insieme ai testi, quelle di cui sono autore. – 1 Andreina Trusgnach

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Non sono infrequenti in questa sede poeti di lingua slovena o che nello sloveno trovano una ulteriore e accogliente casa poetica (ricordo ad esempio Antonella Bukovaz, un’altra friulana segnalata lo scorso anno). Un rapporto non minoritario con l’italiano letterario nel quale la poesia non viene meramente “tradotta” ma trova una feconda corrispondenza, una rilettura. Quella che Andreina Trusgnach, da Cividale del Friuli, ci presenta nella terna segnalata qui a Bologna è una poesia che potremmo definire senza tanti giri di parole anticontemporanea, proprio nel suo riferirsi ad un canone italiano novecentesco anche illustre, con i suoi consolidati modi e stili, soprattutto su un registro assolutamente lirico. Trusgnach se ne appropria con una certa decisione, lo introietta, dà l’impressione di avere fede che lo stile e l’idea stessa di poesia coincidano, non possano che essere “naturalmente” così, non esposti all’usura dei tempi o alle mode. Questo anche in ragione di un preciso orizzonte poetico, quello di uno sguardo intimo sulle cose, di un pensiero contemplativo attivato da semplici simboli, per lo più oggetti, foglie, fiori, il vento, che fanno da specchio all’autore, non possono che essere connotati malinconicamente, illuminati da una luce a volte grigia, a volte accesa da una mite fiducia che “la vita va comunque avanti”. Qui temi e stile coincidono in maniera indefettibile, leggendo si immagina un paesaggio forse montano, un tempo rallentato e senza scosse, giornate forse irrisolte e il linguaggio coerentemente vi si sovrappone, per selezione e combinazione, per assunti e costruzioni lineari e limpide. Trusgnach testimonia, in un certo senso, che non c’è necessità di contrastare, con la lingua o la forma o la ricerca, questa lieve energia poetica che giustifica i suoi versi, dà loro uno spazio in una corrente della poesia nostrana che non ha nessuna intenzione di arrendersi. (g. cerrai)

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Laura Liberale – Unità stratigrafiche, nota di Claudia Mirrione

Laura Liberale - Unità stratigraficheUnità stratigrafiche di Laura Liberale – Nota critica di Claudia Mirrione

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1.Stratigrafie perturbanti


i morenti se ne vanno

facendo sbattere finestre a chilometri di distanza

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al fremito dei vivi rispondono:

se ci sentiste dentro anziché fuori

(nel sangue che rallenta

nel fiato che s’ingorga nella gola)

sarebbe forse minore lo spavento?

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Un libro che disquieta questo di Laura Liberale – vincitore del Premio Bologna in Lettere 2021 per la sezione A (opere edite) – e di cui riteniamo opportuno parlare per l’interesse e soprattutto per l’impatto che suscita nel lettore, vuoi per il piglio talora specialistico con cui affronta l’argomento (la scrittrice è indologa e tanatologa), vuoi più probabilmente per gli effetti disturbanti che esso ingenera e lascia a decantare, ad aggiungersi così al nostro già orrorifico immaginario, conscio, inconscio. Continua a leggere

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Andreas Gursky: spazi visivi di oggi, nota di Elisa Castagnoli

Andreas Gursky: spazi visivi di oggi (al Mast di Bologna)

Per la prima volta in Italia Andreas Gursky, l’artista tedesco che ha cambiato il volto della fotografia creando icone contemporanee del nuovo capitalismo globale espone in questi giorni al Mast di Bologna con immagini che spaziano dai primi lavori alle creazioni più recenti. Di vere e proprie composizioni visive, infatti, si tratta per opere di grande formato elaborate in post-produzione dove Gursky unisce alla visione prospettica ad ampio raggio la messa a fuoco precisa e dettagliata su ogni singolo soggetto facendo della fotografia un’esperienza da vivere, insieme fisica, mentale ed emotiva sul mondo di cui siamo parte.

La selezione fotografica spazia dalle prime opere come Salerno (1990), alle ultime come Salinas (2021) facendosi interprete, attraverso le sue più iconiche rappresentazioni dell’era globale dell’ascesi della new economy fino alle sue implicite derive e contraddizioni. Le immagini abbracciano, tuttavia, in tale ottica, non solo i processi di produzione e consumo attuali  ma anche singolari scorci su paesaggi naturali di origine millenaria. Particolare interesse ricopre nel lavoro di Gursky l’idea di collettività, il modo in cui i soggetti funzionano come moltitudine nella società, come le strutture sociali e collettive influenzano i nostri comportamenti e dunque la nostra produzione o fruizione di immagini. Spesso si tratta di visioni immense che prendono corpo sulle pareti della galleria con un uso del colore denso, pieno, quasi saturante, dove la prospettiva pur nella distanza permane nitida per effetto del montaggio di diverse immagini. Continua a leggere

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Rinascere nell’umano: Ballate di Lagosta di Christian Sinicco, nota di Claudia Mirrione

Rinascere nell’umano: Recensione a Ballate di Lagosta di Christian Sinicco

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Lo scrittore con la sigaretta si è seduto

come te ne sei andata

-L’America non si sa mai da che molo partì,

i suoi immigrati e le sue carte sono in vendita sulle pietre:

compra le fotografie, comprale sbiadite,

compra i centrini, la rakija,

nei palazzi dell’imperatore o al porto

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con la bocca giri una sigaretta:

senza sapere se vincerai

illudi nuvole, calci nel rosa– nella Torcida

c’è ancora l’eco della partita dell’Hajduk,

sui palazzi bianchi e blu

le rarefazioni incistite dei Balcani

ripagano il cielo sempre più rosso;

e sulle bancarelle, tra le voci del mercato,

suona, risuona la scritta sulle magliette

Gorotovina heroj!

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In questo testo di Ballate di Lagosta (Donzelli Editore 2022)– si tratta della seconda sezione di Canzone di Spalato – si trovano già i due temi prettamente politici che attraversano l’intera opera: la dissoluzione della ex-Jugoslavia verificatasi alcuni anni dopo la caduta del muro di Berlino, e la questione delle migrazioni – nel testo menzionato si allude a quelle novecentesche, ma la silloge presenta rimandi espliciti anche alle recenti tragedie del Mediterraneo. Il Mediterraneo e i Balcani, infatti, sono i due fuochi attorno a cui si muove l’intera raccolta che, uscita nel 2022, ha riscosso il plauso della critica italiana, risultando finalista in diversi premi letterari italiani e, soprattutto, nella cinquina del Premio Strega Poesia, e aggiudicandosi recentemente il Premio Poesia Onesta 2023. Continua a leggere

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Leopoldo Maria Panero – Contro la Spagna e altri poemi non d’amore

Leopoldo Maria Panero – Contro la Spagna e altri poemi non d’amore – Nessuno editore, 2020 – trad. di Antonio Bux

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Un post su FB dell’amico Antonio Bux mi ricorda che questo libro ce l’ho, me l’ha certo mandato lui. Grosso modo dovrebbe essere ad altezza di ginocchio nella pila di volumi che purtroppo ho lasciato accumulare nel tempo. Lo cerco. Insomma un repêchage.

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L.M. Panero (1948-2014) un anarchico nichilista, se non per ideale politico certo per convinzione intima e filosofica, un poeta che come pochi ha riscattato dal luogo comune l’aderenza della scrittura alla vita e viceversa. Il che ha voluto dire attraversare per decenni l’amata odiata Spagna e i suoi rivolgimenti politici e sociali, passare per la droga, l’alcoolismo, 14 anni di manicomio orrendo, esperienze di tutti i generi senza mai smettere di scrivere, anzi travasando nella scrittura queste vicissitudini. Nella sua poesia c’è tutto questo e molto di più, che ne fa uno degli autori più rappresentativi (e scomodi) della poesia iberica contemporanea. Come scrive benissimo Antonio Bux nella prefazione, la sua è “poetica impregnata di rimandi storici, letterari e mitici, [a cui] fa da contraltare una quotidianità fatta di morte, sangue e desiderio, dove il poeta si regge in bilico tra ciò che è vero (il bene) e ciò che è reale (il male). Così è la vita stessa di Panero a trasformarsi nella sua opera, quella di un uomo che si pone l’eterno interrogativo di chi sia la vittima o il carnefice, il vincitore o il vinto, però sostenuto sempre dalla fede nel puro nulla in cui sacrificalmente scivolare, con la consapevolezza del proprio desti-no. Eppure nelle sue poesie si potrà anche cogliere il barlume di una rivendicazione al divino, evocato dall’oscurità metaclassica che in Panero è risonanza allucinata del passato, quasi una radiazione che trascende i luoghi del vivere (famiglia, carcere, manicomio) e che è a suo modo una forma di preghiera, di sottomissione del reale al mito, tuttavia vilipesa dal sostrato inferiore dove l’autore dapprima si riflette, poi affonda presagendo la barbarie, l’eterna umana sconfitta; come accade nella pittura di Francis Bacon, dove lo scavo per sottrazione porta impietosamente al punto di partenza, tra quelle radici da cui uscimmo urlanti”. Ed è per tutto questo che i versi di Panero restituiscono al lettore un’inquietudine antica e moderna insieme, l’incertezza dell’individuo, la solitudine di fronte al nulla, il costo delle scelte, la brutalità di certi accidenti della vita, tutte cose che in fondo non sono affatto singolari e riguardo alle quali ci si illude di essere al sicuro, di essere osservatori defilati. (g.c.)

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Poesia e intelligenza artificiale: due o tre cose – nota di G. Cerrai

A partire da: Vincenzo Della Mea – Clone 2.0Samuele editore, La gialla di Pordenonelegge, 2023 (ma questa non è una recensione)

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Leggo di questa opera di Vincenzo Della Mea, presentata come una novità o forse una innovazione, creata utilizzando l’intelligenza artificiale (AI) di GPT-2. Leggo nella nota editoriale: “Vincenzo della Mea ha usato GPT-2, prima “addestrandola” introducendo circa 12.000 poesie (ma anche testi di informatica e di neuroscienze) lasciandola poi libera di creare poesia. La seconda fase è stata eliminare da questa super produzione le poesie che avevano troppi debiti o errori grammaticali, tramite dei software progettati dallo stesso autore umano, e infine scegliendo tra le rimanenti secondo il gusto dell’autore umano”. Tralascio le considerazioni presenti nella stessa nota, che magari vediamo dopo. Questo il fatto, di cui dobbiamo prendere nota, anche se la prima reazione l’ho espressa in un commento, una battuta, su FB (“Bravi, ora chiedete a GPT anche la recensione”). Ma dobbiamo trarne qualche lettura, se non altro per il fatto che secondo me si tratta di un brandello neanche tanto piccolo di quella complessità di cui si discute in diverse sedi.

La prima cosa che viene in mente, forse, sono i riflessi di questa faccenda sul concetto (primario nel campo dell’arte) di autore. Con una certa astuzia (o modestia) Della Mea parla di sé come “autore umano”, cioè fa un passo di lato, che però è quello del demiurgo asimoviano che dà l’input e controlla che la macchina svolga in maniera soddisfacente il suo compito. Se autore, in etimo, è colui che aggiunge, che fa crescere qualcosa, che inventa qualcosa che accresce il mondo, certo Vincenzo in questo caso lo è. Lo è perché ha le competenze, anche informatiche, per creare o adattare uno strumento, ha le competenze per gestire un’idea, un paio delle cose che deve avere un artista per crearne un’altra. Idea tra l’altro di per sé non nuovissima, in letteratura, pensando a Balestrini (Tape Mark I, 1962), a Silem Mohammad e il suo “googlism”, ecc. Ma già nel 1952 Christopher Strachey, un amico di Alan Turing, aveva creato un programma che scriveva lettere d’amore con una lista di lemmi tratti da un Thesaurus e andrebbe anche ricordato Theo Lutz che nel 1959 a Stoccarda, usando un computer Zuse S22 produsse delle poesie (Stochastische Texte) attingendo a frammenti del romanzo Il castello di Kafka. La storia è lunga, mi fermo qui ma bisognerebbe citare almeno H.M. Enzensberger (Poesie-Automat, 1974-2000) e, a livello di pensiero, il Calvino del saggio Cibernetica e fantasmi (1967).

E nelle arti visive o plastiche non è andata diversamente, in questo tentativo di “intrusione” umano/artefatto: dal ready made (in fondo anche l’AI fornisce un “prodotto” pronto) fino al NFT (come “firma” certa di un prodotto “incerto”) passando per opere come ad es. Edmond de Belamy, un ritratto creato dal collettivo Obvious (che nemmeno sono artisti) usando una rete neurale (e venduto a 432500 dollari!). Idem per la musica, non sto a fare nomi. Continua a leggere

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Daniil Charms – Incendio

Daniil Charms – Incendio – a cura di Simonetta De Bartolo, prefazione di Paolo Nori, introduzione di Valerij Sažin – Sandro Teti Editore, 2022

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Chi era Daniil Charms? Un personaggio complesso, il cui vero nome era Daniil Ivanovič Juvačëv, scrittore nato a Pietroburgo nel 1905, morto a Leningrado nel 1942, “realistico e surreale insieme”, dice Paolo Nori nella breve prefazione, perché in quel periodo in Unione Sovietica tutto era drammaticamente reale e surreale allo stesso tempo: “credo che, negli anni Trenta, in Unione Sovietica, quando Charms scriveva le cose che ha scritto, intorno a lui ci fosse pieno di uomini che non avevano occhi né orecchie, che non vedevano e non sentivano quel che succedeva intorno a loro”, proprio come – letteralmente – un personaggio di uno dei suoi racconti. Da un certo punto di vista è già abbastanza surreale (e molto russo) che sia vissuto in tre città diverse: “Al momento della nascita di Charms, la sua città natale si chiamava Pietroburgo da duecento anni. Il ragazzo non ha ancora nove anni che si “ritrova” a Pietrogrado – così la città viene ribattezzata alla maniera russa il 18 agosto 1914, per motivi patriottici (la guerra con la Germania). Nel gennaio del 1924 il diciottenne futuro scrittore viene trasferito dal potere sovietico a Leningrado. Senza muoversi nello spazio, Charms si è ritrovato a essere abitante contemporaneamente di tre diverse città e di tre mondi diversi!” (Valerij Sažin, nell’introduzione). In questi mondi Daniil era comunque fuori posto («Danja era strano. Era difficile, probabilmente, essere più strani di lui», Marina Malič, moglie di Charms), con il gruppo di avanguardia che aveva fondato, Oberiu, con le sue pose da dandy, le sue eccentriche letture poetiche, soprattutto con i suoi scritti, alcuni dei quali considerati pornografici e antisovietici, che lo portarono in carcere già nel 1931 e infine, nel 1941, nell’ospedale psichiatrico di Leningrado, dove morì l’anno successivo di stenti (la città viveva il tremendo assedio nazista e gli internati non erano certo una priorità). Aveva 37 anni e in vita aveva pubblicato solo dei libri per l’infanzia, alcuni dei quali ora tradotti in italiano. Il resto della sua opera è postumo ed è sufficiente a farlo considerare come “la letteratura dell’assurdo prima della letteratura dell’assurdo, vent’anni prima di Beckett e Ionesco” (ancora Paolo Nori). Ma con una sorta di fede nella scrittura e nell’arte, inscindibile dalla vita: “Un tema costante in Charms è il miracolo e colui che è capace di fare miracoli ma non li fa. Il miracolo sta naturalmente a significare la creazione di una vera opera d’arte, una poesia che, come dice Charms, se gettata contro la finestra, fa rompere il vetro” (Simonetta De Bartolo). Continua a leggere

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Yvonne Rainer: words, dances, films – nota di E. Castagnoli

Yvonne Rainer, Film About a Woman Who…, 1974Yvonne Rainer: words, dances, films (al Mambo di Bologna)


Parole, immagini e danza, tale il connubio tra la produzione coreografica, quella filmica e di scrittura teorica presentato per la prima volta in Italia al Mambo di Bologna dedicata alla coreografa e registra Yvonne Rainer da cui emerge una figura sfaccettata, complessa e poliedrica per la danzatrice della post-modern dance americana. Uno spazio particolare occupa nella mostra la sperimentazione filmica della Rainer che si staglia dai video sperimentali degli anni settanta, spesso oggetti di scena nelle performance, ai lungometraggi diretti dal 1974 al 1996 che come narrazioni autobiografiche intrecciano la storia personale al tema sociale e politico dando voce per la prima volta a una soggettività femminile; infine compare il video singolare Lives of Performers, serie di quadri viventi che precorrono in qualche modo un’idea di danza-teatro sullo sfondo di un triangolo amoroso soggiacente.
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Odilon-Jean Périer – Carmi

Odilon-Jean Périer - Carmi, a cura di Ilaria Guidantoni, Lorenzo de’ Medici Press, 2023Odilon-Jean Périer – Carmi, a cura di Ilaria Guidantoni, Lorenzo de’ Medici Press, 2023

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(…) oserei definire Périer, un poeta quasi involontario, una poesia che non è né lirica estetica, né costruita, né dissoluzione cercata. È contemporanea per il suo essere sul crinale tra prosa e poesia, i suoi versi spezzati, spesso divisi in modo sconveniente alla lettura, sono sintesi folgoranti della vita; dove il sacro e il profano si mescolano senza soluzione di continuità, dove gli angeli si confondono con gli amori carnali tanto ci sono vicini. Le tensioni opposte percorrono i suoi versi come nella metafora della maison de verre, la solidità della casa che si radica è di vetro, luogo chiuso, intimo e anche aperto, trasparente nel senso di esposto, pertanto fragile. La poesia è chiara quanto incomprensibile, come nel grande René Char, altro poeta dimenticato che anche in Francia è praticamente introvabile. (…) Périer non sembra voler comprendere e tanto meno afferrare il mondo e la vita quanto preferisce immergervisi, anelando all’infinito e stando in questa tensione non risolutiva. È sicuramente poeta della vita e la poesia che è la sua espressione perché comporre versi è un modo di vivere, dev’essere semplice e per tutti. (…) La sua poesia è la ricerca di un assoluto intimo. Interessante la corrispondenza con Jean Paulhan che si mostra esigente e non manca di ricordare al suo giovane discepolo che “cantare è anche una sorta di imbroglio” e che il soprannaturale “è terribilmente difficile”. La poesia di Périer è immensa nella sua semplicità che a tratti può sembrare banale e che forse è più da ascoltare che da decifrare. (dalla prefazione della curatrice Ilaria Guidantoni)

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Odilon-Jean Périer è un poeta belga di espressione francese nato a Bruxelles il 9 marzo 1901 e scomparso prematuramente a soli 27 anni. Nel corso dei suoi studi fonda numerose riviste (che avranno tutte la vita breve di un solo numero): La Lyre du potache, Hermès e Le Cénacle. Nel 1918 scrive, sulla falsariga di Jules Renard, un Petit Éssai de psychologie végétale, oltre a una raccolta di poemi in versi liberi che intitola La Route de sable. Su ispirazione di autori come Apollinaire e Cendrars e del Cubismo nel 1920 scrive il lungo poema Le combat de la neige et du poète e una raccolta di poesie, La Vertu par le chant; l’anno seguente termina la sua collaborazione con La Patrie belge e inizia quella col Mercure de France e con Signaux de France et de Belgique. Nel corso degli anni collaborerà anche con La Reinaissance d’Occident e Le Disque vert, della quale è animatore Franz de Hellens al quale si lega, oltre che con il giovane Henri Michaux che ha passato l’infanzia nella sua stessa strada a Bruxelles. Nel 1926 pubblica con Gallimard il suo unico romanzo, Le passage des anges, (Il passaggio degli angeli, La Finestra Editrice, 2018), che da qualcuno viene considerato la fonte di ispirazione del film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. Continua a leggere

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